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Relazione di Giuseppe Zambon


Relazione di Giuseppe Zambon all’XI° congresso nazionale dell’UNIONE INQULINI (Chianciano 18-20 marzo 2005)

 
È con sincera commozione che riprendo oggi contatto, a tanta distanza di tempo, con quell’organismo di quartiere che abbiamo concepito tanti anni fa in uno scantinato di Quarto Oggiaro alla periferia di Milano, e che oggi è cresciuto al di là di ogni nostra ragionevole speranza.

All’inizio eravamo un pugno di compagni, usciti dal PCI e dal PSIUP che, dopo aver maldestramente tentato di agitare i grandi temi della politica internazionale fra il proletariato milanese, avevano scoperto una contraddizione che, pur essendo palpabile e palese, non era mai stata oggetto di attenzione da parte della politica: quella fra inquilino e proprietà edilizia.

Per dovere di chiarezza debbo precisare i compagni di cui sopra erano di orientamento maoista, e va da sé che quindi le opere di Mao fossero oggetto di attento e impegnato studio da parte di tutti noi.

Il compagno Mao ci aveva insegnato, nella sua famosa opera “preoccuparsi delle condizioni di vita del popolo” una verità preziosa.

Il CC del PCC non riusciva a spiegarsi come, durante gli anni di guerra contro l’occupazione giapponese, due circoscrizioni contigue, pur essendo amministrate da due fra i migliori compagni, impegnati da anni nella costruzione del Partito, avessero raggiunto risultati di mobilitazione popolare completamente diversi, Mentre nella zona A la collettivizzazione della produzione agricola procedeva a pieno ritmo e sia le iscrizioni al partito che la registrazione di giovani volontari per il fronte aumentavano di giorno in giorno, succedeva che nella zona B succedesse esattamente il contrario: la piccola proprietà contadina non era stata intaccata, i membri del partito non crescevano e di volontari per la guerra contro i giapponesi nemmeno l’ombra.

Il CC decise di inviare un compagno nelle due zone con il compito di fare un’approfondita inchiesta e di ricercare le ragioni di uno sviluppo tanto difforme.

Dopo alcuni mesi l’ispettore fu in grado di spiegare al CC le ragioni che stavano alla base dell’enigma:

mentre nella zona B il partito si era mobilitato per catechizzare il popolo ed organizzava corsi di politica ed ideologia, succedeva che nella zona A il partito si era dato priorità diverse. Esso si preoccupava di risolvere i problemi economici e di sopravvivenza delle masse, oppure come poeticamente ci riferisce Mao nella sua opera succitata, si preoccupava dei “problemi del sale e del riso”

Dovete sapere che in quei tempi abbondavano, soprattutto fra alcuni gruppi politici  i cosiddetti professorini del marxismo, pronti a dimostrare qualsiasi tesi, oppure all’occorrenza il suo esatto contrario, in nome della dialettica e del marxismo. Intendiamoci, non questa specie  sia del tutto scomparsa, anche oggi abbondano nei partiti di sinistra coloro i quali  tranciano giudizi irrevocabili e pretendono di stabilire a tavolino la precisa linea di separazione fra il bene e il male, per esempio tra le forme di lotta che i popoli oppressi possono legittimamente assumere, e quelle invece, che dall’alto delle loro discutibili cattedre, debbano invece venir severamente condannate.

Ma torniamo a noi:

Tutto è cominciato nel 1967 alla periferia di Milano, a Quarto Oggiaro, un quartiere-dormitorio, costituito al 90% da case popolari costruite in tutta fretta per poter accogliere la manodopera attratta a Milano dal cosiddetto “miracolo economico”. In quell’anno, l’IACP decise di comminare un relativamente modesto aumento dei canoni di affitto ai propri inquilini, un aumento di  circa 1000 lire mensili, un aumento sì esiguo, che però rappresentava un’ulteriore goccia in un mare di aumenti progressivi del costo della vita.

Venne convocata un’assemblea dove la rabbia diffusa non poté venir frenata dai sindacati tradizionali; l’assemblea approvò quasi all’unanimità lo sciopero dell’affitto a tempo indeterminato.

Molti dei nostri stessi compagni furono sbalorditi dall’apparente estremismo di una simile parola d’ordine: discutemmo a lungo fra di noi e finimmo per accettare la sfida: non potevamo essere più arretrati delle masse adesso che finalmente si erano scosse di dosso d’un sol colpo quelle che a noi erano sembrate fino a qualche giorno prima una rassegnazione ed una sfiducia insuperabili.

Furono costituiti gruppi di lavoro responsabili per zona con tutti gli inquilini che accettarono di farlo, e che a loro volta organizzarono assemblee di scala o di caseggiato.

Il risultato di questo stretto contatto con gli inquilini ci fece comprendere quanto ingiustificato fosse il nostro sbalordimento e quanto grande fosse stata la nostra ignoranza:

risultò che, già prima della proclamazione dello sciopero dell’affitto, ad astenersi in modo più o meno continuativo dal pagamento del canone erano almeno il 10% degli abitanti.

La nostra non fu dunque una “geniale intuizione” di qualche singolo compagno, come alcuni amici storiografi hanno voluto affermare. Non fummo noi gli eroi di questa lotta: i veri eroi furono le masse.

Il nostro merito –se mai ne abbiamo avuto uno- fu quello di aver dato pubblicità ad un comportamento sino ad allora “clandestino” trasformandolo in una parola d’ordine semplice e chiara che diffondemmo ai 4 venti con megafoni, striscioni, volantini, manifesti e manifestazioni:

1)   Lo sciopero dell’affitto come strumento di lotta;

2)   un affitto ragionevole come obbiettivo di questa lotta

 

a definire e concretizzare la ragionevolezza di un affitto per noi accettabile ci era venuto in aiuto il governo cubano, che soltanto un decennio prima aveva consegnato le case agli inquilini sulla base delle necessità delle famiglie, chiedendo in cambio un canone pari al 10% del salario.

La situazione si evolse rapidamente:

da un lato trovammo solidarietà in gruppi di avvocati del soccorso rosso che furono di grande utilità per coprirci le spalle, assicurandoci per lunghi mesi le retrovie legali;

dall’altro eravamo corteggiati dalla sinistra tradizionale che tentava di assorbirci con le buone;

da un lato eravamo diventati meta di pellegrinaggio da parte di gruppi politici extraparlamentari di diversa estrazione;

dall’altro dovevamo tener conto delle convinzioni o dei pregiudizi politici di molti inquilini che, pur convinti della giustezza della lotta, sicuramente non erano tutti comunisti.
Ma non crediate che fosse solo una lotta fra destra e sinistra a senso unico

Alcuni gruppi ci aiutarono a rompere la congiura del silenzio che minacciava di soffocarci, altri però non vollero accettare a nessun costo la parola d’ordine dell’affitto pari al 10% del salario del capofamiglia, perché discriminante e “maschilista”.

Ecco dunque ancora una volta come il meglio può diventare nemico del bene.

Insomma già allora, in nome dei cosiddetti diritti umani, si offrivano generose possibilità all’avversario di classe il quale sarebbe stato ben felice di riscuotere un canone pari al 10% della somma dei redditi di tutti i membri familiari.

Per resistere agli sfratti, che malgrado l’efficienza e l’abnegazione dei compagni avvocati cominciavano a piovere su di noi, demmo vita alla cosiddetta “brigata antisfratto”, il cui compito era quello di impedire che l’esecuzione continuasse ad avvenire secondo modalità, che prevedevano per tutte le parti in causa, a cominciare dall’inquilino colpito, il rifiuto assoluto e pudico di ogni tipo di pubblicità.

A partire da quel momento gli sfratti non poterono più venir effettuati pacificamente ed in modo indolore: chi li ordinava era costretto a ricorrere all’uso della forza pubblica e pagare un elevato prezzo politico in termini di immagine….

Il comitato di quartiere avvertiva il centro organizzativo cittadino della data e dell’ora fissata dall’ufficiale giudiziario per l’esecuzione, e dal centro venivano avvertiti telefonicamente soltanto due compagni. Ciascuno di questi ne avvertiva altri due, e così via a pioggia, secondo un elenco prestabilito, che andava allungandosi a mano a mano l’UI, estendendosi a nuovi quartieri, andava acquisendo nuovi simpatizzanti.

Naturalmente le centinaia di compagni  inseriti nella lista non potevano TUTTI E SEMPRE intervenire ad ogni sfratto, ma ce n’era sempre un numero sufficiente per sbarrare il passo a ufficiale giudiziario ed agli uomini di fatica delle ditte di trasloco appaltate. Ormai per eseguire davvero uno sfratto doveva SEMPRE intervenire in forze la polizia.

E questa, bisogna riconoscerlo, dopo le prime esibizioni di forza, faceva tutto il possibile per evitare di svelare impudicamente davanti ai cittadini il proprio ruolo: quello di braccio armato della speculazione edilizia.
Due sono stati gli sfratti individuali più “famosi”

Il primo non riuscì: mentre il camion della polizia si allontanava col suo prezioso carico di compagni arrestati, i bambini del quartiere bucarono le gomme di tutti gli altri automezzi che erano rimasti incustoditi durante gli scontri, per cui, dopo aver desistito dall’esecuzione, i malcapitati poliziotti hanno dovuto tornarsene intruppati in caserma a piedi, inseguiti per alcuni chilometri (da via Graf a via Varesina preciserò per i compagni milanesi) dai lazzi dei giovani manifestanti che li apostrofavano con gli insulti più pittoreschi…

Il secondo sfratto fu invece eseguito; non ci fu nulla da fare, anche se alla vigilia avevamo distribuito 100 mila volantini davanti alle fabbriche: all’alba piombarono in quartiere 500 poliziotti in assetto di guerra, coi cani. Occuparono tutte le scale dei palazzi adiacenti e riuscirono alla fine a strappare la famiglia dal suo appartamento.

Ma anche qui successe sotto i nostri occhi qualcosa di incredibile, una specie di miracolo, di quelli in cui credono i cristiani: mentre le operazioni di sgombero erano in corso, un furgoncino, un trabiccolo a tre ruote cui nessuno di noi prestò in un primo momento attenzione, si fece largo strombettando ottenendo che il cordone di poliziotti che bloccavano via Lopez gli desse via libera, e fu così che, silenziosamente, alla chetichella, venne occupato un appartamento nella stessa via ed alla stessa ora in cui lo sfratto veniva eseguito.

Ancora una volta la creatività del proletariato ci aveva indicato la via d’uscita e ci aveva fatto scoprire una nuova e più incisiva forma di lotta.

La sera stessa cercammo disperatamente un alloggio nel quartiere da assegnare alla famiglia degli sfrattati in modo da impedire, attraverso un’occupazione in una casa vicina, che la forza militare dimostrata dal nemico di classe producesse in quartiere il voluto effetto dello scoraggiamento e dell’abbandono della lotta.

Riuscimmo ad entrare in un appartamento che gli inquilini della scala ci avevano segnalato come vuoto… e fu così che fummo costretti a sfrattare la statua della madonna da un appartamento in cui la locale parrocchia era usa parcheggiarla fra una processione di maggio e quella successiva.

Ma tutto fu inutile: l’IACP ci aveva prevenuto.

In fretta e furia aveva assegnato un’intera villetta alla numerosa famiglia dei nostri sfrattati in un quartiere vicino.
Il nostro orizzonte si era ampliato

Era tempo di elezioni amministrative, e sebbene tutti i gruppi politici amici avessero preso da noi le distanze, il comitato cittadino decise a maggioranza di presentare una propria lista.

Ad aprire la lista dell’unione inquilini fu presentato Spizzico, qualifica SFRATTATO. Si trattava proprio dell’inquilino sfrattato da via Lopez. E dopo di lui, in stretto ordine alfabetico tutti gli altri: partigiani, operai, studenti, laureati, impiegati, casalinghe.

Fu un enorme successo di mobilitazione; in pochi giorni raggiungemmo le 500 o 600 firme necessarie per la presentazione, ma non avevamo fatto i conti con il collegio dei revisori del comune. Questi signori esaminarono le firme dei nostri sostenitori e giunsero ad invalidarne un numero sufficiente per portarci al di sotto della quota minima necessaria. Era successo che alcuni inquilini si erano firmati giovanni ed antonia, quando invece all’anagrafe erano registrati come Giovannino o Antonietta….

Fu così che, grazie alla mercenaria pignoleria di questi revisori, si ristabilì pace in famiglia e ci fu risparmiato di dover percorrere la via elettorale.

 

A sottolineare la creatività ed il non conformismo dei nostri attivisti. vi riferirò brevemente del nostro progetto di stampar denaro. Vi ricordate i famosi assegnini con cui ditte private e banche avevano inondato il mercato?

Perché non usare anche noi lo stesso mezzo con l’obbiettivo di farci propaganda e contemporaneamente autofinanziarci?

Ve l’immaginate cosa avrebbe significato far circolare danaro, dove, al posto della scritta “la legge punisce gli spacciatori di biglietti falsi”  fosse comparsa quella “la casa non è una merce, ma un diritto” firmato unione inquilini ?

Già si stava lavorando alle bozze ed alle foto dei delegati di quartiere con cui ornare i nostri assegnini…. Ma la notizia era ormai circolata e, fulmine a ciel sereno, gli assegnino furono proibiti dalla sera alla mattina in tutto il territorio nazionale, dopo che allegramente –per lunghi anni, banche e ditte ne avevano allegramente usato ed abusato.

 

Mentre lo sciopero dell’affitto continuava, si moltiplicarono le occupazioni individuali. Questo fenomeno si sviluppò improvviso e travolgente da riuiscire a sfuggire non solo al controllo delle “autorità costituite”, ma anche a quello dell’Unione Inquilini. Non sempre le occupazioni furono “esemplari” e politicamente corrette. Talvolta si verificarono abusi, e si giunse persino ad occupare per estorcere del danaro a dei senzatetto bisognosi.

 

Ma non sempre fu così.

Credo sia importante segnalarvi un episodio che dimostra la profonda moralità di una parte del proletariato:

si rivolge a noi una famiglia senzatetto siciliana con un abbondante numero di figli,

dopo qualche tempo individuiamo un appartamento della GESCAL vuoto,

Una notte, da veri e propri delinquenti incalliti come eravamo ormai diventati, iniziamo le operazioni di scasso, e la famiglia con noi in prima fila.

Finalmente la serratura cede ed entriamo: passiamo in rassegna una stanza dopo l’altra e la donna ci precede, la osservo attentamente condividendo con commozione la sua gioia quando assapora ogni particolare della sua nuova casa: marmi dappertutto, ampie finestre e balconi. Negli occhi la fierezza di aver conquistato un qualcosa che le spetta di diritto; ma improvvisamente un grido: è entrata in un secondo bagno e, di fronte ad una novità tanto inaspettata quanto incredibile, crede di essere entrata in un secondo appartamento, crede di aver compiuto un ILLECITO, di aver “rubato” la casa a qualcun altro. Solo con difficoltà riusciamo a spiegarle che il mondo è pieno di stranezze e che ci sono persino delle case con 2 bagni.

Ma i gruppi ci scavalcano a sinistra. In particolare Lotta continua riesce ad organizzare delle occupazioni collettive che entusiasmano l’intero proletariato milanese.

Gli obbiettivi del movimento si fanno sempre più ambiziosi:

le occupazione di massa si susseguono con la partecipazione di centinaia di famiglie e con la volontà dichiarata di difendere militarmente le case occupate: i vergognosi centri per sfrattati si sciolgono come neve al sole e si svuotano nell’impeto della lotta offensiva.

NON CHIEDERE MA PRENDERE QUELLO CHE CI SPETTA DI DIRITTO ERANO LE NUOVE PAROLE D’ORDINE,

 

Ma il nemico di classe non sta a guardare:

Arresti da un lato, incursioni fasciste e caccia all’uomo nei quartieri dall’altro.

A loro volta formazioni politiche militanti  di sinistra accettarono la sfida, e la sede fascista di Q.O. viene ridotta in un cumulo di macerie fumanti.

Lo scontro politico aveva raggiunto livelli di violenza che le nostre lotte di massa non riuscivano a fronteggiare, ed ai quali non eravamo preparati.

Ma qualche volta ci riesce di contrattaccare; un giorno riusciamo a far dirottare un corteo di operai dell’Alfa Romeo in sciopero in una strada nella quale una decina di agenti della DIGOS (allora si chiamava così) stanno sfrattando con arroganza e metodi bruschi una famiglia di giovani sposi;

quando si rendono conto di essere circondati da 500 operai, ecco che i poliziotti si allontanano silenziosi in fila indiana come tanti pii seminaristi

pur tra mille contraddizioni, la lotta continua ad estendersi

il mio telefono suona a tutte le ore fra la disperazione di mia moglie e l’entusiasmo dei miei bambini che si divertivano ad intervenire con arco e frecce nella brigata antisfratto

ed un giorno, con perfetto accento veneto, mi viene gridato alla cornetta con eccitazione il seguente messaggio: ciao, me ciamo sergio; ghavemo ocupá una casa de vinti appartamenti: vien a aiutarne

in quale quartiere siete?

A Francoforte

 

Vi tralascio i particolari di una interessante esperienza di lotta per la casa in Germania che fu provocata da questa telefonata, mi dilungherò soltanto su quegli aspetti che ritengo utili in relazione  alla vostra attività di oggi a fianco degli immigrati in Italia.

E comincerò dalle nostre difficoltà a capire quel che stava succedendo.

Esistevano al centro di Francoforte delle villette signorili di 2 o 3 piani, abitate dalla ricca borghesia: ad ogni piano una diversa famiglia con 150-200 mq. a disposizione, suddivisi in 7 oppure 8 stanze.

Oggi quelle villette non esistono più: sono state rase al suolo ed al loro posto sorgono alcuni grattacieli di 200 o 300 metri d’altezza, fra cui quello della Deutsche Bank

Gli speculatori usarono noi immigrati per cacciare gli inquilini. Ecco il loro semplicissimo metodo: appena un appartamento si rendeva libero lo subaffittavano a 7 oppure 8 nuclei familiari, ad ognuno dei quali veniva affidata un’unica stanza, mentre i servizi rimanevano in comune.

I bidoni della spazzatura non venivamo aumentati in proporzione delle maggiori quantità di rifiuti da smaltire, per cui solo dopo poche settimane, i bravi borghesi tedeschi fuggivano a gambe levate da una casa che si era trasformata da un comodo e signorile appartamento al centro della città, quale era stata fino a poche settimane prima, in una riproduzione dei bassi di Napoli o della Casbah di Algeri con miriadi di bambini irrispettosi, radio e musiche ad alto volume e soprattutto immondizia debordante in cortile.

Ecco che lo scopo era raggiunto, e si potevano iniziare i lavori di demolizione: una visita della polizia o di vere e proprie bande mafiose, era sufficiente a vincere ogni eventuale inizio di resistenza da parte degli ignari immigrati.

Ci fu subito chiaro che dovevamo cercare delle alleanze fra gli indigeni:

sul mercato erano disponibili soltanto la gioventù socialdemocratica da un lato, ed i giovani spontaneisti in rivolta generazionale dall’altro.

I primi ci davano le informazioni e le coperture necessarie per tentare di mettere insieme una strategia di difesa; i secondi portavano avanti una linea apparentemente rivoluzionaria pregna di pregiudizi, illusioni e castronerie piccolo-borghesi.

I giornalacci della borghesia andavano a nozze: con un unico articolo scandalistico e diffamatorio potevano condannare la violenza degli stranieri, le trame dei comunisti, degli anarchici e di quei “falsi” socialisti che vogliono “distruggere la nostra democrazia”

Sostituite arabi ad italiani e terrorismo islamico a comunismo, e siamo già nell’Europa del 2005.

Ad ogni elezione i socialdemocratici perdevano voti in proporzione diretta al crescere delle occupazioni. Ad un certo punto i giovani socialdemocratici furono costretti a gettare la spugna e ci confessarono che d’ora in poi ci avrebbero potuto aiutare soltanto a titolo personale.

I gruppi spontaneisti, guidati allora da Cohn Bendit e dall’attuale ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, pur sostenendo le nostre lotte, ci accusavano di non essere abbastanza rivoluzionari perché, una volta conquistata la casa (impresa secondo loro definitivamente riuscita dopo l’occupazione) ci rifiutavamo di indicare altre mete secondo loro molto più rivoluzionarie, come per esempio la distruzione della famiglia.

Non lotta, ma psicanalisi, non politica ma lucida follia.

 

Il nostro errore fu quello di aver estrapolato la nostra esperienza milanese nella realtà tedesca.

Pensavamo di essere a Milano, e non ci rendevamo conto che in Germania, durante il decennio nazista la quasi totalità dei comunisti fu eliminata fisicamente, mentre durante il ventennio democristiano successivo i pochi sopravvissuti finirono per anni in galera.

La classe operaia ci era ostile; né gli alleati politici che ci erano rimasti costituivano per noi una buona carta di presentazione….

 

Quando, all’alba delle gelide aurore tedesche, andavamo a volantinare davanti alle fabbriche  assieme ai gruppi extraparlamentari tedeschi, gli operai non potevano aver fiducia alcuna in noi e qualcuno, dopo aver accettato il volantino in 4 lingue che gli porgevamo, provocatoriamente ci chiedeva: domani ci porti anche la droga?

 

Malgrado tutte queste insufficienze ed errori potemmo registrare alcuni rimarchevoli successi: primo fra tutti la promulgazione di una legge contro lo strozzinaggio

Si tratta di una legge che persegue il proprietario di un immobile nel caso in cui egli stipuli un contratto per un canone di affitto che superi di una determinata percentuale, attualmente del 50%, il cosiddetto canone medio, fissato empiricamente a livello statistico, per gli appartamenti della stessa zona e della stessa categoria.

Ma l’isolamento in cui, malgrado i nostri sforzi, continuavamo ad operare poteva soltanto  causare, a lunga scadenza, un inevitabile riflusso.

Oggi ben poco è rimasto, tranne qualche isola di resistenza ad Amburgo e Berlino, di quelle nostre lotte. Malgrado ciò sono alla fine rimasto in Germania.

In un primo tempo viaggiavo frequentemente fra Milano e Francoforte, ma un giorno mi avvertono per telefono che la questura mi aveva convocato perché consegnassi loro il passaporto.

Nel frattempo la mia famiglia si era purtroppo sfasciata: decisi quindi di restare in Germania, almeno fino a quando la situazione legale non si fosse chiarita. Mi sono guadagnato da vivere fondando una libreria prima ed una casa editrice poi. Soltanto dopo alcuni anni, dopo varie istanze presentate degli avvocati, sono finalmente riuscito a far ritirare i provvedimenti giudiziali restrittivi che mi riguardavano, e ricordo ancora il primo viaggio verso l’Italia e la notte agitata in cuccetta,  nell’attesa di poter rivedere i figli ed i compagni: Ma si sa: l’Italia è sempre rimasta –nel bene come nel male- un paese da operetta.

Il mio dormiveglia fu interrotto alle 6 di mattina dalla polizia di frontiera che mi trascinò con maniere brusche fuori dal treno perché, come soltanto verso mezzogiorno si riuscì finalmente a stabilire, la lista delle persone ricercate non era ancora stata aggiornata…

 

Ho aperto questo mio intervento dicendo che i veri eroi sono le masse.

Vorrei però ricordare dei compagni o degli uomini giusti che forse invece meritano davvero questo attributo:

1)   ci fu a Francoforte un giudice che ebbe il coraggio di assolvere gli occupanti dalle accuse loro rivolte, e che anzi rivoltò l’accusa come un guanto condannando la città a mettere a disposizione degli occupanti una casa civile. Ebbene, il processo disciplinare di cui egli fu vittima, e la campagna di odio e di discriminazione che si abbatté su questo uomo giusto (Kupke era il suo nome) furono  senz’altro una delle cause che lo spinsero a breve distanza di tempo al suicidio.

2)   Ma ci sono altri compagni la cui memoria voglio oggi pubblicamente celebrare:

in primo luogo Sergio Spazzali, discepolo di Lelio Basso, fondatore del Soccorso rosso milanese, membro del direttivo dell’UI, sempre in prima fila nella brigata antisfratto, militante rivoluzionario noto per il suo impegno e per la sua modestia, rifugiato all’estero per sfuggire ad una pesante condanna per insurrezione armata, dove morì in totale indigenza nel 1990.

Per descrivere la personalità di Sergio riferirò un piccolo episodio di cui egli fu protagonista nel quartiere Gallaratese a Milano, un episodio che, nella sua ingenua semplicità, è più illuminante di molti discorsi celebrativi sulla straordinaria figura di questo indimenticabile compagno.

Sergio non disdegnava la militanza quotidiana pratica (distribuzione di volantini, affissione di manifesti, partecipazione ai picchetti antisfratto), era anzi sempre in prima fila; egli era invece molto riluttante a presentarsi nel suo ruolo di avvocato, cosa che invece era auspicata dagli altri compagni, nel tentativo di dare fiducia agli inquilini meno combattivi.

Un giorno successe che un inquilino, evidentemente in disaccordo con la lotta di massa, lo apostrofò bruscamente chiedendogli se lui fosse veramente un avvocato; alla imbarazzata risposta affermativa di Sergio, l’inquilino replicò „se lei fosse davvero un avvocato non andrebbe distribuendo volantini porta a porta“

3)   e poi come potrei dimenticare Luigi Francioli, partigiano, operaio metalmeccanico tante volte licenziato per motivi politici, ed infine disoccupato dopo la chiusura della Linotype, impresa ormai tecnologicamente obsoleta. Impegnato a tutte l’ore con le sue nuove molteplici attività economiche di agricoltore, pescatore, giardiniere, piazzista, ma purtuttavia sempre presente a tutte le riunioni ed assemblee.

Colto e autodidatta, irrispettoso, terrore di tutti i tromboni in doppiopetto che venivano in quartiere per ipnotizzare i proletari col loro solito bagaglio di frasi fatte e che lui metteva a tacere con poche e impietose battute in dialetto milanese, piene di saggezza, di sapienza politica.

Aveva la capacità di piazzare i suoi interventi come fossero delle sciabolate che colpivano a morte la vanità dei suoi interlocutori ed al tempo stesso sapevano raccogliere l’ammirazione del pubblico.

Ebbene cari compagni, se oggi siete, anzi se mi permettete di dirlo, se siamo cresciuti, e sia pur dopo molte sconfitte ed alcune vittorie, abbiamo compiuto alcuni progressi sulla strada della realizzazione di un vecchio sogno: quello di collegare le lotte di fabbrica con quelle di quartiere,

se il vostro impegno sindacale ed organizzativo ha prodotto dei risultati concreti a favore dei proletari, non dobbiamo dimenticare l’esempio e la lezione di coerenza e di altruismo che questi compagni ci hanno dato, e non dobbiamo mai dimenticare una verità che non teme smentita:

anche le riforme e le conquiste sindacali sono soltanto il sottoprodotto di una tensione rivoluzionaria sottesa al raggiungimento di ideali che alcuni si ostinano a definire utopistici.

Ma compagni, cos’è in fondo l’utopia?

Ce lo dice in maniera ineguagliabile Eduardo Galeano: L’utopia è come l’orizzonte, chi crede in essa cerca di raggiungerla, ma essa si sposta esattamente della stessa distanza che faticosamente avevamo percorso per raggiungerla…

E’ allora l’utopia un miraggio inutile?

Neanche per sogno; essa serve a farci camminare

 

Buon lavoro compagni per il vostro congresso!

Avanti nel nostro cammino di lotta contro il privilegio e lo sfruttamento.




Data notizia20.03.2005