Politica Italiana
Manifesto - 25.7.12
L'Europa non c'è più. la Spagna balla da sola - Anna Maria Merlo
PARIGI - La Spagna brucia - anche letteralmente, con l'incendio al confine con la Francia, che ha già ucciso 4 persone (tutti francesi) - il ministro Luis de Guindos è andato a Berlino dall'omologo Wolfgang Schäuble per chiedere che venga fatto «qualcosa», subito, questa settimana, per fermare la speculazione, che ha spinto il tasso di rischio sui bonos spagnoli a oltre il 7%, nella speranza che Madrid ritrovi la «fiducia» dei mercati. Ma, ripete de Gindos, i mercati sono «irrazionali» e «possono mantenere l'irrazionalità più a lungo di quanto tu possa mantenere la solvibilità». Dopo Valencia e di Murcia, ora è la volta della Catalogna di chiedere il rescate, l'aiuto dello stato: i pompieri spagnoli si sono fatti fotografare di schiena con il sedere nudo per denunciare i tagli, mentre le foreste bruciano. La Catalogna, che deve rimborsare a breve crediti per 5,7 miliardi, ha già avvertito scuole e ospedali privati convenzionati che dal mese prossimo sospende le sovvenzioni. Non ha più soldi. Lo stato spagnolo neppure. In questo clima al «qualcosa» da fare, la Spagna ha diffuso la notizia, smentita da Parigi - che non può certo permettersi di prendere troppo le distanze dalla Germania e non ha nessun interesse a porsi alla testa di una cartello dei maledetti del sud - di un appello comune Francia, Italia e Spagna sulla «rapidità» come «condizione essenziale del successo degli atti europei»: i tre paesi, esigerebbero, secondo l'interpretazione di Madrid, «l'applicazione immediata dell'accordo» raggiunto al Consiglio europeo del 28-29 giugno scorso, vale a dire un intervento del fondo salva-stati per venire in aiuto ai paesi in difficoltà. Ma il Fesf, il fondo salva-stati esistente, ha in tasca solo 100 miliardi, una miseria di fronte al rischio default, che non è solo più della Grecia, ma riguarda ormai anche la Spagna, la quarta economia della zona euro, e domani potrebbe contagiare l'Italia, la terza economia. Il Mes, il nuovo salva-stati che in linea di principio avrebbe dovuto entrare in vigore il 1° luglio, resta nei cassetti, in attesa della decisione sulla costituzionalità della Corte di Karlsruhe, sollecitata da varie richieste di parlamentari tedeschi (die Linke, Spd, destra democristiana anti-europea). La sentenza è stata rimandata al 12 settembre. Come si fa allora a fare «qualcosa»? La cancelliera Angela Merkel è in vacanza e Karlsruhe se la prende comoda. La Spagna, con Monti, ha chiesto più volte un intervento sui mercati della Bce, per ridurre i costi insostenibili del finanziamento dei paesi in difficoltà. Ma la Bce continua a rifiutare di finanziare gli stati (c'è il nein del rappresentante tedesco e di quelli dei paesi virtuosi) e per ora si limita a riflettere su un altro tipo di intervento. La Germania però comincia a sentire più vicino l'odore di bruciato dei paesi maledetti. Moody's ha messo sotto prospettiva «negativa», da «stabile» che era, il rating AAA che Berlino condivide ormai con solo 9 paesi europei (Ue e non Ue: Germania, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo, Olanda, Gran Bretagna, Svezia, Norvegia e Svizzera). Anche Olanda e Lussemburgo sono minacciati di perdere le 3 A (la Francia ha perso l'AAA qualche mese fa, eppure adesso prende a prestito anch'essa a tassi negativi, tutto è relativo, Parigi dà più fiducia dei paesi del sud). La Ue continua a intervenire «troppo poco e troppo tardi». Lo si è visto con il piano di aiuto di 100 miliardi per le banche spagnole, che sembra un'iniziativa lontana eppure è di venerdì scorso. Senza effetti sui mercati. Ormai non sono solo più le banche spagnole a dover essere salvate, ma le regioni: il 13 luglio lo stato spagnolo ha varato un Fondo di liquidità autonoma dotato di 18 miliardi per venire in aiuto alle regioni. E già ora i bisogni dichiarati sono di 15 miliardi, a cui vanno aggiunti i deficit autorizzati quest'anno (1,5% del pil). La Grecia è ormai un caso sempre più disperato: ieri è arrivata ad Atene la troika (Ue, Bce, Fmi), che deve stabilire se è il caso di procedere a un terzo piano di aiuti, come reclama la Grecia, che sarà di altri 50 miliardi per allungare i tempi del risanamento di due anni. Ma di rinegoziato del Memorandum se ne riparlerà a settembre, al primo Eurogruppo (il 7) e a quell'epoca Atene potrebbe aver già fatto default poiché deve rimborsare il 20 agosto 4 miliardi di obbligazioni alle banche centrali europee e non ha i soldi. Il «qualcosa» per la Grecia potrebbe essere di concedere di emettere bond a brevissimo tempo per evitare il default.
Lo «stupore» di Monti smentisce Madrid
Palazzo Chigi esprime «stupore» circa l'iniziativa comunicata dal ministero degli Esteri spagnolo. Come la Francia, insomma, Mario Monti smentisce che i tre governi abbiano firmato ieri l'appello per l'immediata applicazione degli accordi presi al vertice Ue di giugno. E dire che comunque ieri la situazione economica non ha dato tregua: l'Italia ha vissuto un'altra giornata di passione, dopo lunedì, soprattutto sul fronte dello spread. Il differenziale tra buoni del tesoro italiani e i bund tedeschi ha toccato quota 537, mentre Piazzaffari ha chiuso ancora una volta in territorio negativo, al -2,7%. Malissimo anche la borsa spagnola: -3,58%. Il comunicato diramato da Palazzo Chigi sul «giallo» relativo alla nota di Madrid è esplicito, quanto quello diffuso poco prima dal governo francese: «Fonti di Palazzo Chigi esprimono lo stupore del governo italiano circa l'iniziativa comunicata dal ministero degli Esteri spagnolo in merito a una pretesa dichiarazione congiunta fra Spagna, Italia e Francia, iniziativa della quale il governo italiano non è al corrente». Il governo italiano, comunque, cerca di dimostrare il proprio impegno per uscire dal guado, anche se - pur non avendo firmato l'appello, come dichiarato, un intervento dell'Europa lo chiede: «Un segnale deve darlo l'Europa ed è ora che lo dia, sia per tranquillizzare i mercati che per raffreddare lo spread», dice il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera: «Urge intervento Ue per tranquillizzare i mercati». Monti, dal canto suo, incontrerà a breve i leader dei partiti. E la gestione della crisi sarà uno dei temi al centro degli incontri tra Mario Monti e i leader dei partiti di maggioranza. Domani a Palazzo Chigi. Il premier incontrerà alle 9.30 il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, e alle 15 il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Giovedì sarà la volta del leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Dai banchi del Parlamento arriva l'appello di Francesco Boccia, del Pd che chiede «l'applicazione dello scudo anti-spread e il divieto assoluto dell'utilizzo dei prodotti derivati non regolamentati che rappresentano un veleno letale per i mercati e l'economia reale». Contro la spending review hanno parlato ieri i sindacati di scuola, università e ricerca di Cgil, Cisl e Uil: secondo il segretario Flc Cgil, Domenico Pantaleo, «la scelta del governo Monti non pensa al futuro del Paese ed è tutt'altro che tecnica. Nasconde invece te- un'opzione ideologica tesa a produrre solo tagli nel settore pubblico. È indispensabile invece cambiare strada, se non vogliamo sprofondare in una drammatica recessione». «La spending review - sostiene il segretario Fir Cisl, Giuseppe De Biase - mette in discussione l'operatività degli enti pubblici di ricerca e rischiano di disperdere e penalizzare le professionalità che il personale tutto esprime». Per Alberto Civica, segretario Uil Rua, «la forza della ricerca è nelle competenze dei lavoratori sia a tempo indeterminato che precari, competenze acquisite in anni di formazione e di investimento da parte degli enti». «Se la parte relativa alla ricerca non verrà tolta dalla spending review - conclude - si continuerà a incentivare la fuga dei cervelli, regalando a paesi competitori le nostre intelligenze». Intanto ieri dalla Confesercenti è arrivato l'allarme che il governo potrebbe decidere di bloccare le tredicesime dei lavoratori pubblici e dei pensionati. Carla Cantone (Spi Cgil) reagisce affermando che «se così fosse non staremo di certo a guardare e reagiremo pesantemente per chiedere conto al governo e ai partiti che lo sostengono dell'ennesimo e gravissimo provvedimento. I partiti non possono continuare a dire che sono per l'equità e poi in Parlamento lasciano passare ingiustizie e iniquità».
La Bce porta la crisi a Berlino - Sergio Cesaratto
Con l'inferno nei mercati e un assordante assenza di leadership europea il destino anche per Italia e Spagna è segnato: un destino di inutili sacrifici prima, di uscita disordinata poi. Bene dunque ha fatto ieri sul manifesto Pitagora a invocare un'uscita ordinata del nostro paese. Questa non solo è possibile, ma realistica. Il realismo dipende dal fatto che un intervento della Bce oggi da tutti invocato sarebbe limitato dai tedeschi a riportare gli spread appena sotto i 500 punti, senza intaccare le cause della crisi. Limitandosi a procrastinare l'agonia, la Bce farebbe semplicemente marcire la situazione. Se dichiarasse ora la sua garanzia illimitata sui debiti sovrani e l'obiettivo di ridurre gli spread ai livelli pre-crisi, i mercati ci crederebbero. In una situazione marcita assai meno. Poco male, qualche massiccio intervento di acquisto li convincerebbe, ma questo sarebbe ancor più difficile da digerire per i tedeschi i quali, comunque, non vogliono adottare le politiche espansive necessarie a riequilibrare l'Europa. Le scelte della Bce degli ultimi giorni remano, peraltro, nella direzione opposta a quella auspicata. Non solo la Bce ha cominciato a rifiutare come collaterale per i prestiti alle banche elleniche titoli di stato o garantiti dallo stato greco, come riferito da Pitagora, ma ciò ha riguardato tutti i paesi (devo ad A. G. questa informazione suffragata da blog specialistici). Qual è il giochetto che la Bce ha interrotto (e che forse ha scatenato la crisi terminale)? I capitali da mesi scappano dai debiti pubblici e dalle banche di Spagna e Italia. Le banche possono ricorrere a ri-finanziamenti dalla propria banca centrale, ma devono versare titoli a garanzia (collaterale). Le banche non avevano più collaterali di qualità come «pezze d'appoggio», quindi stavano per saltare, una ulteriore pressione sugli stati che le devono soccorrere. La Bce però consentiva loro di emettere obbligazioni garantite dagli stati, titoli accettati come collaterale per ottenere liquidità; con la liquidità ottenuta le banche compravano titoli pubblici, a loro volta offerti alla Bce per ottenere ulteriore liquidità e così via. Banche e stati riuscivano così a rifinanziarsi, mentre le banche lucravano la differenza fra il basso costo di rifinanziamento presso la Bce e gli alti tassi che gli stati pagano. Quindi un pessimo surrogato dell'intervento diretto della Bce nel sostegno agli stati perché alla lunga il giochetto rende gli stati insolventi. L'Eurosistema (Bce più banche centrali nazionali) è finito comunque per vantare enormi crediti verso la periferia, ed equivalenti debiti verso coloro che hanno portato capitali in Germania. Se l'euro salta, quei debiti si ritroverebbero sul groppone della Bundesbank. Ma se si blocca il giochetto l'euro salta (damned if you do, damned if you don't). Ecco che si spiega perché Moody's ha assegnato ieri un outlook negativo alla Germania e i Cds sui Bund (una sorta di assicurazione sul fallimento) stanno salendo. Ma se l'Italia uscisse sarebbe impossibilitata a rifinanziare il proprio debito pubblico e lo stato fallirebbe, come sosteneva Federico Fubini lunedì sera su Rai News? Nessuno stato sovrano che emetta la propria moneta può fallire, dunque questo verrebbe anche a garanzia dei crediti tedeschi, che certo varrebbero di meno se ripagati nella nuova-lira, ma solo, ipotizziamo, di un 20% in meno. Questa disinformazione, condita dei più crassi luoghi comuni come nel caso del comizio di Fubini da Mineo (che riesce per lo più a invitare «esperti» di questo tipo), ci rammenta l'importanza che i cittadini vengano informati sulla verità della situazione, come sottolineato nell'opportuno appello di ieri su questo giornale. Infine, che fuori dall'euro l'Italia dovrebbe finalmente diventare un paese maturo, in ogni sua componente. Di questo prima o poi si dovrà anche parlare.
*economisti oltre l'austerity
La grande trappola che cattura il mondo - Vincenzo Comito
La finanza incontrollata continua a dominare la vita economica e politica. C'è poca speranza di uscire dalla crisi, finché non si riformano i meccanismi che governano il settore finanziario. Qualcosa è stato fatto, ma è troppo poco. Andiamo per ordine. La crisi scoppiata nel 2007-2008 ha spinto politici, economisti ed esperti di varie discipline a interrogarsi su come uscirne. Con il tempo si è fatta strada una linea di pensiero che, partendo dalla constatazione che essa aveva origini sia di tipo finanziario che "reale", puntava a individuare interventi rilevanti su ambedue i piani. In estrema sintesi, per quanto riguardava il piano dell'economia reale, i rimedi individuati miravano ad avviare un grande processo di redistribuzione del reddito tra le varie classi sociali da una parte, a indirizzare grandi investimenti in direzione dell'economia verde dall'altra; sul piano finanziario si trattava di intervenire in profondità per ristrutturare un sistema ormai fuori controllo. Ma interventi efficaci sui due fronti non sono stati almeno sino a oggi neanche immaginati dai vari governi interessati e questo dovrebbe contribuire a spiegare, insieme alle specifiche questioni dell'euro, perché oggi ci troviamo ancora immersi nelle difficoltà. Paesi inondati di denaro. Per quanto riguarda in particolare il settore finanziario, a riprova della necessità di un intervento deciso ricordiamo intanto che abbiamo dovuto constatare, nella tragedia greca e in quella spagnola, come le grandi banche internazionali abbiano dapprima inondato di denaro i due paesi, alimentando la speculazione selvaggia e spingendo alla crescita ipertrofica del settore immobiliare, mentre successivamente, vista la mala parata, abbiano cercato di abbandonare precipitosamente la nave, creando ulteriori e gravi scompensi. Recentemente, poi, una serie di scandali finanziari sui due lati dell'Atlantico ha contribuito a ricordare che negli ultimi anni non è cambiato nulla nella sostanza. Si va così dall'accusa di riciclaggio del denaro della droga avanzata nei confronti di diverse banche internazionali, ai comportamenti giudicati incresciosi da parte di Goldmann Sachs verso la sua clientela, alla crisi della Peregrine Capital. Negli Stati Uniti si è scoperto che una delle banche più decise nella lotta contro la riforma del sistema finanziario, la JPMorgan, ha perso una cifra indeterminata - si è parlato all'inizio di 2 miliardi di dollari, ma successivamente il buco è stato stimato sino a 9 miliardi - praticando il vecchio gioco dei derivati. Successivamente, in Gran Bretagna, si è saputo che un'altra grande banca, la Barclays, un'altra istituzione fortemente contraria a riformare il sistema, truccava i dati necessari a fissare il livello del Libor. Ma collaboravano all'impresa ben dodici grandi banche di molti paesi. Alla fine, come ha scritto un giornale britannico (Wolf, 2012:. testo citato da This global financial fraud and its gatekeepers, www.guardian.co.uk, 14 luglio)), l'idea che l'intero sistema finanziario occidentale sia invischiato in una gigantesca frode di tipo sistemico - e che gli attori principali del gioco, le banche, i politici, gli organismi di regolazione, lo sappiano bene e comunque tacciano - appare una conclusione inevitabile. Si è, tra l'altro, preferito, nei momenti di crisi, correre in soccorso del sistema bancario senza mettere in campo delle misure per evitare in futuro un nuovo contagio. Così si sono stanziate somme enormi per il salvataggio degli istituti in Europa come negli Stati Uniti. Parallelamente, tutti hanno potuto constatare che invece i soldi vengono negati per la scuola, la sanità, la ricerca, le pensioni, sotto il pretesto che le risorse non ci sono. Si è mostrato in questa occasione il forte potere di condizionamento che il sistema finanziario riesce a esercitare sul potere politico. Le contromisure boicottate. Dopo lo scoppio della crisi, comunque, i vari governi occidentali e i partecipanti all'accordo di Basilea hanno varato dei provvedimenti sul tema della riforma del sistema finanziario. Così negli Stati Uniti l'amministrazione Obama ha approvato nel luglio 2010 il Dodd-Frank Act. La legge prevede la creazione di nuove agenzie pubbliche (tra le quali una per la tutela dei consumatori), nonché la ristrutturazione di altre già esistenti, nel tentativo di migliorare il sistema di supervisione sul mondo bancario. Si affermano regole apparentemente più stringenti per quanto riguarda la capitalizzazione delle banche, la liquidità, il livello del rischio, la remunerazione dei dirigenti, il governo dei prodotti derivati. La parte più impegnativa della normativa riguarda la cosiddetta Volckler rule, che prevede una rilevante limitazione nelle attività speculative delle banche ordinarie; esse non possono investire più del 3% dei loro mezzi propri in transazioni di borsa, in prodotti derivati, in partecipazioni in hedge funds e fondi di private equity. Le norme a suo tempo decise, senza essere pienamente adeguate alla bisogna, rappresentavano comunque un passo avanti rilevante nello sforzo per mettere sotto controllo il settore finanziario. Ma esse erano farraginose e richiedevano l'approvazione di un grande numero di regolamenti di attuazione, processo che ancora non è stato completato. I repubblicani, poi, spinti anche da una grande opposizione alla legge da parte del sistema bancario, hanno cercato di boicottarla, facendo mancare le risorse necessarie per operare ai vari enti, bocciando vari candidati proposti dall'amministrazione per riempire le cariche degli vari organismi e così via. Intanto sono slittati i tempi di messa in vigore di varie norme. Mancano comunque, anche nel testo originale della legge, interventi su un certo numero di fronti critici. In Gran Bretagna il governo ha istituito nel giugno 2010 una commissione indipendente che nel luglio 2011 ha presentato un rapporto, noto come Vicker's report dal nome del presidente della commissione istituita ad hoc. Tra le proposte avanzate, merita ricordare soprattutto quella di separare le attività di banca commerciale (retail banking) da quelle di banca di investimento (wholesale banking). Ma tale separazione non è totale, perché i due tipi di attività possono essere comunque svolte all'interno di uno stesso gruppo. Il rapporto prevede inoltre il rafforzamento dei coefficienti di capitale, in particolare per le banche più grandi, al di là di quanto individuato da Basilea3. I tempi di attuazione piena della riforma arrivano, come per il regime di Basilea, al 2019. I provvedimenti toccano soltanto alcune delle questioni in gioco. A livello di Unione Europea negli ultimi mesi del 2010 è stato approvata la messa in campo di un sistema di vigilanza finanziaria comprendente tre nuove autorità, una per il settore bancario, un'altra per quello delle assicurazioni e delle pensioni, l'ultima, infine, per le società che prestano servizi di investimento; è previsto anche un comitato con funzioni di vigilanza macro sul rischio sistemico nel settore finanziario. Il piano di Basilea3. Ma gli organismi individuati mancano di risorse e di poteri adeguati, in relazione in particolare alla volontà dei singoli stati di non perdere alcune delle loro prerogative. Peraltro, per quanto riguarda l'autorità per il settore bancario, il varo nel giugno di quest'anno di un organismo di controllo delle banche europee in seno alla EBC pone ulteriori dubbi sulla questione. Sono in corso di messa a punto altre normative, in particolare in tema di derivati. Nel settembre del 2010 è stato pubblicato il piano di Basilea3, modificato poi in alcuni punti nel giugno del 2011. Il nuovo regolamento innalza i livelli di capitale proprio richiesti agli istituti bancari; introduce inoltre dei criteri per proporzionare il capitale all'andamento del ciclo economico; prevede anche degli standard in tema di liquidità. Sebbene il progetto rappresenti un passo avanti rispetto a Basilea2, i livelli di capitale e le misure relative alla liquidità previsti appaiono ancora troppo modesti rispetto alle necessità e la data di entrata in pieno vigore della normativa (gennaio 2019) troppo distante nel tempo: nel frattempo potrebbe succedere di tutto. Nulla di sostanziale è stato deciso per quanto riguarda inoltre il governo del rischio sistemico. In conclusione: una normativa adeguata dovrebbe in linea di principio mirare a ridurre drasticamente il peso complessivo e le dimensioni del settore finanziario e metterlo sotto controllo perché esso, tra l'altro, ritorni al servizio dell'economia reale e non abbia più i mezzi per condizionare pesantemente il potere politico. Per fare questo sarebbe necessario intervenire in modo incisivo su molti fronti contemporaneamente. Rispetto a questi obiettivi di fondo, le decisioni degli stati e degli organismi internazionali sono state, come si è visto, complessivamente molto deboli e frammentarie. Di fronte a un sistema finanziario che opera su scala internazionale, quando non mondiale, è mancato inoltre il necessario coordinamento tra i provvedimenti varati dai singoli stati, ciò che permette, tra l'altro, un facile arbitraggio alle banche e altri organismi finanziari per schivare le normative poco gradite. Anche le ulteriori decisioni che sono qua e là annunciate da vari governi non basteranno certo a riempire i buchi attuali nella normativa. Resta alla fine la sensazione, come già accennato, che il sistema finanziario sia ormai una macchina truffaldina e che i governi siano nella sostanza impotenti o comunque scarsamente vogliosi di rimediare, pronti soltanto a coprire con le casse pubbliche gli eventuali errori delle banche. Un quadro molto oscuro.
(www.sbilanciamoci.info)
Assedio dei sindaci, il governo si blinda - Riccardo Chiari
Fumata nera. «L'incontro con il ministro Giarda è andato malissimo. Ora alle porte c'è il rischio di un pesante conflitto istituzionale e politico, anche nei confronti delle nostre forze di riferimento in parlamento». Dietro le parole del presidente dell'Anci, il democrat Graziano Delrio, c'è tutta la delusione dei sindaci italiani, arrivati a Roma da ogni parte della penisola per protestare contro i tagli lineari dell'ulteriore manovra, spacciata come revisione della spesa, progettata dal governo Monti. Primi cittadini di ogni colore politico, di municipi grandi e piccoli, arrivati a centinaia in piazza Sant'Andrea della Valle. Riuniti a pochi metri da Palazzo Madama, dove il decreto ha iniziato il suo cammino parlamentare, per denunciare il carattere impositivo della cosiddetta spending review. E testimoniare pubblicamente la difficoltà delle amministrazioni locali in un contesto sempre più difficile da gestire. Con risorse che si sono già molto assottigliate in questi ultimi anni, e che ora potrebbero essere ulteriormente tagliate. Mentre quasi ovunque cresce il numero delle famiglie, colpite direttamente dalla crisi, che si rivolgono agli sportelli comunali per accedere a servizi di base diventati ancor più a rischio, visti i due miliardi e mezzo che il governo non intende più inviare ai comuni nei prossimi 18 mesi: «Siamo entrati nella stanza del ministro per discutere dei risparmi di spesa e di lotta agli sprechi - sintetizza Delrio - ma ne siamo usciti sconcertati perché Giarda ha confermato i nostri timori, dicendo che non si tratta di tagli agli sprechi ma di un taglio ai trasferimenti». Anche su bilanci già approvati come quelli dell'anno in corso. Tanti i sindaci riuniti in piazza. Dal romano Gianni Alemanno a Massimo Zedda di Cagliari, dal veneziano Giorgio Orsoni al labronico Alessandro Cosimi. E ancora il varesino Attilio Fontana, il perugino Wladimiro Boccali, il pavese Alessandro Cattaneo. I piccoli municipi sono rappresentati di persona come dall'abruzzese Alessandra Tomaselli di Pratola Peligna e da Franco Floris sindaco di Andora, ma anche dal coordinatore Anci piccoli comuni Paolo Guerra. Per capire il loro disagio bastano due flash: «Giusto ieri - racconta Zedda - mi è stato chiesto di dirottare personale nelle scuole, per garantire il tempo pieno, perché mancano addirittura i bidelli. Ma proprio nel momento in cui la richiesta di servizi sociali è sempre più alta, si vanno a fare tagli che incidono sui servizi sociali e e su quelli essenziali». Mentre Orsoni osserva: «La revisione della spesa non può essere un provvedimento calato dall'alto e costruito su tabelle artificiose che non fotografano la situazione reale e le esigenze delle comunità. Ad esempio a noi a Venezia sono state considerate 'spese per consulenze' gli stipendi dei nostri assistenti sociali, e dei mediatori culturali che tengono in piedi il tessuto sociale cittadino». La richiesta dei sindaci è unanime: «Il risparmio dello Stato deve passare attraverso un metodo diverso da quello che ci stanno imponendo - spiega Alessandro Cattaneo - e che dobbiamo contrastare. La spending review è sbagliata nel metodo e nel merito. In più vengono usate le nostre facce per eliminare servizi essenziali ai cittadini. Troppo comodo chiedere sempre a noi di fare sacrifici». L'Anci ha già pronti i suoi emendamenti. Ma dalla giornata di protesta ottiene solo la promessa dei senatori di una maggiore gradualità della norma sui «residui attivi» - cioè tagliare dai bilanci il 25% delle somme ancora da incassare, fatto che porterebbe molti comuni a non poterli più chiudere - e di possibili emendamenti in aula, ma concordati con il governo, proprio sugli articoli caldissimi della spending review legati a sanità, lavoro e appunto enti locali. Poco per i sindaci. Che in risposta avvertono: «Così il patto di stabilità diventa tecnicamente irrispettabile». E proprio il nodo del patto di stabilità potrebbe infiammare ancor di più i rapporti fra governo e municipi: «La sua eliminazione - avverte Delrio - è l'unica condizione per poter continuare il nostro lavoro». E il leghista Attilio Fontana al pari del democrat Alessandro Cosimi anticipano: «Da settembre tutti i sindaci saranno pronti a sforarlo, perché dobbiamo far vivere le nostre città e i nostri cittadini in modo dignitoso».
A Bologna parte il referendum sugli asili privati - Anna Maria Bruni
BOLOGNA - Prima vittoria per il Comitato Articolo 33 di Bologna. Dopo due mesi di attesa, il Comitato dei garanti del comune ha dato il via libera alla consultazione popolare sulla destinazione dei finanziamenti comunali per la scuole d'infanzia. Il quesito giudicato ammissibile chiederà ai bolognesi se ritengono che i finanziamenti debbano essere destinati alle scuole pubbliche o a quelle private. Il Comitato dei garanti ha deciso a maggioranza sul quesito referendario approvato. Un unico voto contrario, quello del giurista Antonio Carullo, che si schierò contro anche nel primo tentativo presentato poco più di un anno fa. In quell'occasione però mancava il consiglio comunale a seguito del commissariamento della città, ma successivamente al ricorso dei referendari i quesiti furono giudicati inammissibili. Il Comitato non ha mollato la presa, anche perché nel frattempo i tagli alla scuola pubblica hanno dato come drammatico risultato che alle iscrizioni della primavera scorsa, per 465 bambini non c'era posto. Un fatto inammissibile in una città, in una regione, che ha una storia di avanguardia in fatto di scuola d'infanzia. Non per niente il Comitato ha raccolto l'adesione di tutta la società civile. Non solo genitori, ma docenti, precari, studenti, tanti cittadini, sindacati e associazioni. Ed è su questo che contano ora per raccogliere in tre mesi le 9mila firme necessarie per arrivare all'indizione del referendum consultivo. Significativo il timing con cui in consiglio è stato approvato nello stesso giorno il rinnovo della convenzione alle scuole paritarie, scelta che ha spaccato la maggioranza producendo l'alleanza tra Pd, Pdl e Lega, l'astensione di Sel e il dileguamento dall'aula dell'Idv al momento del voto. Unico voto contrario quello del movimento 5 stelle. Non sorprende invece la reazione della Curia, che a Bologna gestisce gran parte delle scuole private. Per bocca del vicario Monsignor Giovanni Silvagni, si legge sul sito del Corriere bolognese, sostiene che «chi firma fa ideologia», e si domanda sorprendentemente «perché si discriminano le scuole private e non la sanità?». «Quel che svolge un interesse pubblico - continua Monsignor Silvagni - è pubblico, anche se è di iniziativa privata. Paesi più laici del nostro lo hanno capito, noi siamo ancora indietro». Ma non il Pd a giudicare dal voto, e il segretario Donini ci tiene a sottolinearlo, dichiarando il sostegno del suo partito a concedere finanziamenti alle private, perché in questo modo si darebbe sicurezza di un «posto alla materna a 1.736 bambini», mentre se quel milione fosse dato alle scuole comunali i soldi «basterebbero per circa 150 bambini», sostiene, glissando così sui posti di lavoro persi. Strano come sia facile chiedere soldi ai cittadini per servizi che li riguardano, come lo stesso contributo volontario ormai ordinario nelle scuole, e come sia ovvio non prendere neanche in considerazione di bussare in Vaticano. Il primo passo comunque è fatto, ed è inutile dire che potrebbe fare... scuola.
Un sindaco dimezzato - Sandro Medici
Cos'altro deve ancora succedere per far capire al sindaco Gianni Alemanno che la sua scellerata proposta di vendere ai suoi amici speculatori le quote comunali dell'Acea è ormai solo spazzatura politica? Non è bastato il pronunciamento della Corte costituzionale che, ricordando l'esito del referendum dell'anno scorso, ha confermato che i comuni non sono obbligati a vendere le proprie partecipazioni nelle aziende locali, come al contrario sostenuto per mesi dal Campidoglio. Ieri sono state rese pubbliche le motivazioni con cui il Consiglio di Stato, su tutt'altro versante, ha accolto il ricorso dei gruppi d'opposizione, che s'erano visti indebitamente annullare i loro ordini del giorno, a migliaia, con cui intendevano esercitare il loro diritto all'ostruzionismo consiliare. Invisa e rifiutata da gran parte della città, sensibilmente indebolita dai giudici costituzionali e infine impallinata dall'Alta Corte della giustizia amministrativa, la delibera che avrebbe dovuto sottrarre al controllo comunale la maggioranza della potente azienda idrica romana, e pertanto privatizzarla definitivamente, è a questo punto uno straccetto puzzolente. Non resterebbe che ritirarla, o quanto meno accantonarla: una persona seria e intelligente dovrebbe rendersi conto che quando la campana suona a morto non resta che ascoltarla. Ma su quest'avventatissima impresa Alemanno ha messo in gioco la sua intera esperienza di governo, la sua sbrindellata maggioranza di figuri e controfigure, e direttamente se stesso, il suo peso politico, i suoi futuri destini, a Roma e non solo. E pertanto non è detto che quest'incresciosa pantomima si chiuda come dovrebbe, con una bella bandiera bianca a sventolare sullo scranno più alto dell'aula Giulio Cesare. In virtù di quanto disposto dal consiglio di stato, l'aula del Campidoglio dovrebbe democraticamente discutere e votare, per un mese e mezzo circa, gli ordini del giorno dell'opposizione. Circostanza che farebbe ampiamente superare il limite del 31 agosto (già prorogato) per l'approvazione del bilancio comunale, la cui mancanza sta completamente dissestando la sgangherata macchina amministrativa e indebolendo ulteriormente la capacità di intervento sociale del Comune. Con tutta evidenza, la delibera Acea non ha dunque alcuna possibilità di arrivare al traguardo. E allora, cosa ci si può inventare per non darla vinta al popolo dell'acqua pubblica, ai partiti dell'opposizione e alla semplice ragionevolezza politica? Siamo sicuri che quest'improbabile sindaco proverà ancora ad agitarsi e strombazzare. Lo facesse pure, ci sarà sempre qualcuno o qualcosa a ricordargli con un sorriso che l'arroganza e la prepotenza si ritorcono sempre contro chi ne fa un uso consapevole, e possono anche trasformarsi in grottesche manfrine. Esattamente le cose per cui Alemanno verrà ricordato, quando questa stagione infelice si sarà consumata.
«Processare Mancino e Dell'Utri» - Marina Della Croce
PALERMO - Se la richiesta di rinvio a giudizio avanzata ieri dalla Procura di Palermo sarà accolta, per la prima volta pezzi importanti delle istituzioni si troverebbero alla sbarra con i capi di Cosa nostra. Per la trattativa Stato-mafia il primo, importante momento di verifica è arrivato ieri quando il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i pm Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del bene hanno chiesto di poter processare quelli che ritengono i responsabili del patto scellerato fatto con criminalità organizzata per far cessare le stragi. L'istanza è stata vistata e non firmata da Francesco Messineo, un particolare tecnico che non significa nessuna presa di distanza del capo della procura dai suoi pm. In tutto sono 12 le persone che i magistrati siciliani chiedono di poter processare. Tra questi figurano mafiosi come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. E poi gli uomini delle istituzioni, ufficiali dei carabinieri come i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il comandante Giuseppe Di Donno, praticamente il vertice dei Ros dell'epoca; l'ex ministro Calogero Mannino e il senatore Marcello Dell'Utri. E, poi, il figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, Massimo. Per tutti l'accusa è di attentato al corpo politico dello Stato (articolo 338 del Codice penale), mentre Ciancimino jr deve rispondere di concorso in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Infine, tra gli imputati, anche l'ex ministro degli interni Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. «Deponendo al processo Mori - scrivono i pm - anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l'impunità, ha affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva». La replica di Mancino: «Preferisco farmi giudicare da un giudice terzo - ha detto l'ex ministro -. Dimostrerò la mia estraneità ai fatti addebitatami ritenuti falsa testimonianza, e la mia fedeltà allo Stato». Mannino ha scelto invece di attaccare il procuratore aggiunto titolare dell'inchiesta. «Questa richiesta di rinvio a giudizio è un capriccio di Ingroia - ha commentato -. Ha capovolto la mia mia posizione: da minacciato prolungatamente dall'incombenza di un attentato mafioso, ad accusato. Insomma da vittima vengo trasformato da Ingroia in ben altro». Quattro anni di indagini, 122 faldoni e 12 indagati. Sono i numeri dell'inchiesta che cerca di far luce su quanto avvenne venti anni fa, quando una parte dello Stato decise di scendere a compromesso con la mafia. Secondo i pm tutto sarebbe cominciato con l'uccisione dell'eurodeputato dc Salvo Lima per non essere riuscito a intervenire in Cassazione sulle pene inflitte ai boss mafiosi al termine del maxiprocesso. Ma Lima non era l'unico politico nel mirino della cosche. Insieme a lui ci sarebbero stati anche Mannino e Carlo Vizzini. Siamo nel marzo del 1992, la strage di Capaci avviene a maggio ed è in quei mesi che sarebbero cominciati i primi contatti tra esponenti dello Stato e i vertici di Cosa nostra intenzionati a ottenere, tra l'altro, l'attenuazione del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, e la sostituzione dell'allora capo del Dap Niccolò Amato. Un patto scellerato, che Paolo Borsellino aveva appreso e che cercò di contrastare in tutti in modi, al punto che Cosa nostra decise di anticipare l'esecuzione della sua condanna a morte. Seguì il periodo delle stragi «in continente», a Milano, Firenze e Roma, fino a quando, nel giugno del 1993, i boss riuscirono a ottenere quanto volevano con la decisione dell'allora ministro della Giustizia Conso di non prorogare 326 provvedimenti di carcere duro. Altre revoche verranno decise nel 1994, evitando così un ultimo attentato nei pressi dello stadio Olimpico a Roma. Tutto questo adesso sarà materia di dibattito processuale se la richiesta di rinvio a giudizio verrà accettata. Intanto ieri a Palermo, accompagnata dall'avvocato Niccolò Ghedini, si è presentata Marina Berlusconi. La presidente di Mondadori e della Fininvest è stata ascoltata dai pm come parte offesa nell'ultima inchiesta che riguarda Marcello Dell'Utri, accusato di estorsione ai danni dell'ex premier. In particolare i pm le hanno chiesto di due bonifici di 362 mila e 775 mila euro fatti a titolo di prestito infruttifero a Dell'Utri dal conto di cui è cointestataria con il padre. Secondo la procura i soldi, una piccola parte dei circa 40 milioni dati tutto a Dell'Utri, sarebbero serviti a pagare il silenzio del senatore del Pdl sui presunti rapporti tra Berlusconi e Cosa nostra.
I pm chiedono il giudizio per Vendola - G.Le.
La Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per il presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, e per l'ex dg della Asl Bari Lea Cosentino. Per entrambi l'accusa è di concorso in abuso di ufficio in relazione al concorso da primario di chirurgia toracica all'ospedale San Paolo di Bari, vinto dal prof. Paolo Sardelli. L'udienza preliminare, al termine della quale si deciderà sulle due richieste, è stata fissata per il 27 settembre dinanzi al Gup del Tribunale di Bari Susanna de Felice. L'avviso di conclusione delle indagini venne reso noto dallo stesso governatore pugliese lo scorso 11 aprile. Appena appresa la notizia della richiesta di rinvio a giudizio, il presidente della regione e leader di Sel ha commentato: «Con la fissazione dell'udienza preliminare per la vicenda Sardelli posso solo dire che finalmente tiro un sospiro di sollievo essendomi così data possibilità di spiegare, dinanzi al giudice, la correttezza dei miei comportamenti». A fare il nome di Vendola ai giudici fu la stessa Cosentino, soprannominata nel tempo Lady Asl, dopo che venne coinvolta nei vari scandali che hanno riguardato l'imprenditore Giampaolo Tarantini, l'ex assessore Alberto Tedesco e i vertici della sanità pugliese. «Sono sereno, Lea Cosentino è spinta solo da rancore». Questa, dopo aver ricevuto la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati, la prima reazione di Vendola, che nell'aprile scorso ricevette un secondo avviso di garanzia in merito ad una transazione da 45 milioni di euro tra la regione e l'ospedale ecclesiastico Miulli. Gli inquirenti contestano al governatore pugliese di aver fatto pressioni su Cosentino affinché fossero riaperti i termini per la presentazione delle domande per accedere al concorso. I fatti riguardano il periodo compreso tra settembre 2008 e aprile 2009. «Quel concorso deve vincerlo Sardelli», avrebbe detto Vendola a Lady Asl, secondo quanto riportato nei verbali dell'interrogatorio della stessa Lea Cosentino. Secondo l'accusa Sardelli venne spinto dal governatore per la sua assunzione quinquennale al San Paolo, «dopo che era stata accertata la non praticabilità del conferimento di un incarico direttivo allo stesso Sardelli presso lo stabilimento ospedaliero Di Venere di Bari, al quale il sanitario aspirava». Sempre secondo quanto dichiarato da Lea Cosentino nei vari interrogatori, «Vendola mi chiese insistentemente di riaprire il concorso» e una volta manifestato al presidente della regione il timore di riaprire la pratica, lo stesso governatore avrebbe dichiarato: «Non ti preoccupare di questa cosa! Ti copro io!», esercitando - sempre a detta della procura - pressione nei confronti dell'allora dg «in assenza di un fondato motivo di pubblico interesse» e «sulla base di una motivazione pretestuosa e in sé contraddittoria (asserita esigenza di un'ampia possibilità di scelta in relazione alla esiguità del numero dei candidati che hanno presentato domanda, in palese contrasto con la dichiarata specifica particolarità della disciplina oggetto della selezione)».
Poliziotti con il vizio della tortura - Filippo Fiorini
BUENOS AIRES - Nuove mele marce sono state scoperte in un cesto, quello della polizia, sempre povero di frutta fresca: siamo tra il giugno e il luglio dell'anno scorso, nella quiete coloniale della cittadina di General Güemes, della provincia argentina di Salta. Mentre fuori la campagna indulge al sole d'inverno e guarda le Ande andare in Bolivia, a pochi chilometri, le mura del commissariato di zona nascondono un gioco strano: due ragazzi stanno in mutande in mezzo al cortile a tremare. Sono magrissimi e ammanettati. Quello in primo piano è Miguel Angel Martinez, detto Vampirito. Ha 17 anni. Un poliziotto grasso che poi si scoprirà chiamarsi Gordillo, lo afferra per i capelli da beatle indigeno e lo mette in piedi. Un altro agente fa delle domande che non si capiscono bene. Gordillo stira e incrocia le braccia come chi sta per perdere la pazienza, poi prende una busta da supermercato e la infila in testa al ragazzo. Sulle prime è solo un cappuccio. Da sotto si sente dire: «non lo so, lo giuro, lo giuro», ma Gordillo non ci crede e stringe la plastica al collo, lasciando fuori l'aria. Vampirito si dimena e poi cade. «Parli?», gli chiede Gordillo, e lui fa «si» con la testa, ma poi patisce uno spasmo che sembra la morte e sviene per un attimo, riguadagnando il respiro. Questo è quello che alcuni chiamano un «sottomarino secco». In secondo piano c'è Mario Luis Rodríguez, 18 anni all'epoca dei fatti. Vedendo quel che accadeva all'amico, ha gridato due o tre volte «basta, basta», distraendosi da ciò che stavano facendo a lui: mentre una guardia gli torce le braccia ammanettate dietro alla schiena, un'altra gli versa secchiate d'acqua in testa, anche in questo caso per fargli dire una cosa di cui molto probabilmente non ha alcuna idea. La scena resta impressa nelle memorie di chi l'ha subita e nelle coscienze strappate dei boia, poi, qualcuno carica su Youtube le riprese realizzate quel giorno e si decide subito che debba stare scritta anche su qualche fedina. Ad intervenire è quell'Argentina che si sta dimostrando capace di processare e condannare i militari che negli anni Settanta furono carnefici di una generazione intera e che ora si sveglia con i nuovi mostri in casa. L'assessore alla Sicurezza di Salta, Eduardo Sylvester, va in conferenza stampa e tralascia gli eufemismi di rito in questi casi, parlando di «un evidente delitto commesso da parte del personale di polizia». In un primo momento, gli arrestati sono 5, poi cade anche il presunto cameraman, considerato anche il responsabile di aver, forse per rimorso, diffuso il video. Tutti appartengono alla narcotici, che a Salta si chiama Division de Drogras Peligrosas. Dai verbali risulta che Vampirito e Mario Rodriguez erano stati fermati con delle accuse di stupro, un campo d'indagine che sembra subito piuttosto strano per chi dovrebbe dare la caccia allo spaccio di droga. La madre del primo dei due ragazzi, Beatriz Palacios, dà alla stampa una pista interpretativa: «Gordillo torturava mio figlio per abitudine, lo portava al fiume Mojotoro, lo picchiava e lo minacciava perché poi non dicesse nulla». Alcuni giornalisti vanno a cercare l'altro torturato, Mario Rodriguez. Lo trovano arrabbiato, non vuole parlare, ma sta in fondo meglio di Vampirito che ha appena tentato di impiccarsi. «Certo, loco», risponde col gergo di strada a chi gli chiede se quella delle botte fosse un'abitudine, «ci portavano al rio Mojotoro e ci pestavano di continuo». E allora si capisce che quanto successo a Salta è solo la fotocopia di ciò che i prepotenti fanno sempre e in tutto il mondo quando credono di poter restare impuniti: sfogare le loro frustrazioni sui deboli. Poiché ciò è accaduto e soprattutto perché non torni ad accadere, il governatore della provincia di Salta, Juan Manuel Urtubey, ha deciso di dare una spinta alla Legge Organica di Polizia, una riforma delle norme operative delle forze dell'ordine, ferma da qualche anno nell'assemblea legislativa locale, in cui si propone di introdurre alcuni principi legati al rispetto dei diritti umani (già contenuti nella Costituzione argentina e in altri trattati internazionali), ma soprattutto, in cui si crea un ufficio di controllo all'operato della divisione disciplinare, ossia si mette un cane da guardia al cane da guardia del cane da guardia. Le organizzazioni di militanza di base, quelle che cercano le tracce dei desaparecidos e tante altre sigle attive nella difesa dei diritti, che in questi giorni sono state protagoniste di una grandinata di comunicati di condanna per i fatti di General Güemes, però, non si accontentano delle misure prese dalla politica e chiedono il carcere per i colpevoli, nonché l'istituzione di misure di prevenzione. «Ufficialmente in questi casi si parla di abusi, di gravi irregolarità e si evita la parola tortura: è uno stratagemma per tenere basse le pene in tribunale», spiegano dalla Correpi, un'Ong che lotta contro le violenze nelle carceri e nelle istituzioni in genere. «In paese come il nostro, con una storia segnata da dittature e massicce violazioni dei diritti umani, è necessaria una profonda riforma delle forze di sicurezza», aggiunge la Correpi, eppure, secondo Amnesty International, l'80% dei casi di tortura avviene nei paesi del G20.
Giordania, la vita precaria dei profughi della guerra siriana - Domenico Chirico*
AMMAN - Firas, architetto di Damasco è appena arrivato ad Amman: «Mercoledì il conflitto è arrivato nelle strade della città. Spari ovunque, finché l'esercito non ha cominciato a bombardare alcuni quartieri in mano all'esercito libero siriano dal monte che sovrasta la città. Sono fuggito subito, ma la strada per Amman era chiusa, dopo un lungo giro sono arrivato al confine e da lì attraverso i buchi nella rete mi sono messo in salvo in Giordania». Dall'autunno del 2011 nel nord della Giordania arrivano migliaia di siriani. All'inizio l'accoglienza è stata informale attraverso le reti familiari. Poi sono stati creati dei centri dal governo, dai quali si esce solo con uno sponsor giordano. Ma in questi giorni, in cui infiamma il conflitto in Siria, i numeri dei rifugiati sono aumentati vertiginosamente: 34.000 secondo le Nazioni Unite, che censiscono solo coloro che si registrano; circa 100.000 secondo le Ong giordane ed internazionali. Nei centri e nei primi campi allestiti, tra cui anche uno stadio solo per uomini, la situazione è già difficile. Emergono i rischi di ogni emergenza: violenze sulle donne, sfruttamento, episodi di tratta con alcuni matrimoni forzati. Fuori dai centri, tutti i rifugiati hanno problemi di sussistenza: casa e lavoro innanzitutto. Per fortuna, rispetto all'accoglienza riservata ai rifugiati iracheni nel 2006, il governo giordano ha scelto di offrire cure mediche gratuite ai siriani e di aprire le scuole ai bambini, anche se non raggiungendo tutti. E con buoni esempi, come il programma di classi di recupero, in corso in questi giorni, per tutti i minori che con la fuga hanno perso l'anno scolastico. Ma l'aumento dei rifugiati in questi giorni rischia di far saltare il precario processo di accoglienza esistente. Il sistema degli sponsor ha sinora garantito che i siriani stessero poche settimane nei centri e poi ne uscissero, usufruendo dell'assistenza delle Ong e delle strutture pubbliche. Ora invece le autorità stanno preparando dei campi profughi che potrebbero essere chiusi e sorvegliati dalle forze di polizia. Luoghi dove si rischia che si moltiplichino episodi di violenza e sfruttamento. E' in costruzione un campo che potrà ospitare circa 150.000 persone, in pieno deserto. Alcune Ong giordane hanno già espresso forti perplessità su questa operazione che rischia di creare dei ghetti. Un Ponte per... con la Jordanian Women Union sta lavorando ormai da gennaio per i rifugiati, con particolare attenzione alle donne e ai bambini. Attraverso un servizio psicologico e legale vengono identificati i casi di violenze subite in Siria o durante la fuga, per poi attivare un sistema di protezione che prevede la fuga in case protette per le donne a rischio. Quattro centri medici forniscono quotidianamente cure di base e indirizzano le persone verso le strutture sanitarie. A oggi si sono rivolte ai centri centinaia di persone, non tutte per casi gravi ma sempre bisognose di una prima assistenza. E tutto il lavoro è andato avanti con pochi fondi del governo svizzero, molto volontariato e qualche donazione privata. Troppo poco rispetto all'egemonia degli aiuti garantiti dalle moschee e dai Paesi del Golfo. Mentre il Ministero degli esteri italiano ha scelto di allestire con l'esercito giordano un ospedale al confine e di sostenere con dei kit medici le Nazioni Unite, che lamentano in ogni caso la scarsezza delle risorse: il piano regionale di emergenza è finora finanziato solo al 21,4%. Ed esistono, come sempre, situazioni di enorme vulnerabilità come quella dei palestinesi siriani ai quali non è permesso uscire dalla Siria, o che vengono chiusi, senza possibilità di uscirne, in centri al confine. I siriani incontrati raccontano che non vogliono rimanere in Giordania, o negli altri paesi confinanti, e vorrebbero rientrare al più presto in patria. La logica dei campi potrebbe deteriorare la situazione e l'assenza di aiuti rischia di far esplodere anche i paesi confinanti, in primo luogo il Libano. Oltre la retorica dei summit, oggi la comunità internazionale sembra più interessata a sostenere le parti armate nel conflitto siriano che l'emergenza.
*www.unponteper.it
Le guerre nascoste tra coltan e petrolio - Francesco Martone
Secondo l'ultimo, recentissimo Global Peace Index, l'«Indice globale della pace» stilato dall'Institute for Economics and Peace, l'Africa subsahariana sembrerebbe avviarsi verso un futuro di pace, giacché per la prima volta da quando questo osservatorio è stato lanciato nel 2007 ha perso il primato di regione «meno pacifica», che va invece al Medio Oriente e al Nord Africa. Il continente africano a sud del Sahara sarebbe dunque è «un po' più pacifico» che in passato, dice il peaceIndex 2012. Ma poi, a scanso di equivoci, avverte che il primo paese al mondo in termini di violenza e conflittualità è la Somalia, seguito da Afghanistan, Sudan, Iraq e Repubblica Democratica del Congo. Eppure nel nostro paese alla parola guerra il pensiero va all'Afghanistan, la Libia o la Siria, e ciò che avviene in Africa raramente fa notizia, né suscita indignazione o chiama all'iniziativa. Forse perché una rilettura in chiave post-coloniale delle relazioni con l'Africa non è ancora sviluppata, o perché quei conflitti sottaciuti rifuggono una lettura tradizionale delle guerre. Basta prendere l'esempio della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e in particolare la regione del Nord Kivu, che vive oggi il rischio di un'escalation militare. In questa regione si muovono varie milizie tra cui ilM23, un gruppo ribelle tutsi (già Congrès National pour la Defence du Peuple) che, secondo un accordo stipulato con il governo il 23 marzo 2009, avrebbe dovuto essere integrato nell'esercito regolare. Secondo molti osservatori la mancata attuazione dell'accordo, assieme alla decisione dei governo di Kinshasa di dar seguito al mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale contro il leader del M23, generale Bosco Ntaganda, sarebbe causa del recente ammutinamento del generale e dei suoi fedeli. Giovedi 13 luglio scorso per la prima volta alcuni elicotteri delle Nazioni Unite e della Rdc hanno attaccato posizioni ribelli nei villaggi di Rumangabo e Bukuna. Tre giorni prima la Missione Onu (la Monusco) aveva inviato nella zona truppe ghanesi e forze speciali di Guatemala, Egitto e Giordania, mentre a Goma veniva inviato un battaglione governativo addestrato dagli Stati Uniti, fino ad allora usato contro il Lord Resistance Army di Joseph Kony. E questo segue a un duro scambio di accuse tra Ruanda e Rdc, all'indomani della pubblicazione di un dossier confidenziale delle Nazioni Unite fatto trapelare alla stampa a giugno, secondo il quale il governo e i militari ruandesi avrebbero appoggiato l'M23 con armi e reclute. Denuncia poi amplificata dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani Human Rights Watch e Global Witness, che puntano il dito su due elementi in particolare: il reclutamento per procura di bambini soldato e il legame tra conflitto e risorse naturali. A metà aprile Bosco ed i suoi (circa 600 miliziani) hanno iniziato una frenetica campagna di reclutamento, anche di minori. Secondo Global Witness, Ngaganda e altri membri del M23 si sarebbero arricchiti contrabbandando attraverso il Ruanda minerali quali il coltan e lo stagno. La rivolta del M23 non è la sola fonte di destabilizzazione del paese. La città di Pinga è sotto il controllo di un'altra milizia, l'Apcls, mentre a ovest di Goma un gruppo ribelle Mai Mai del Sud Kivu, Raia Mutomboki, ha stretto alleanza con un altro gruppo, i Mai Mai Kifuafua. Da allora sarebbero morte almeno 111 persone. C'è poi la caccia a Joseph Kony, capo della Lord Resistance Army («esercito di resistenza del Signore»). Da aprile a giugno l'Lra avrebbe compiuto almeno 9 attacchi armati nel'est della Repubblica Centrafricana e ben 62 nella Rdc. Da alcuni mesi una squadra mirata di forze speciali di Washington (la Special Forces A) sta operando insieme agli eserciti di Sud Sudan, Uganda e Repubblica Democratica del Congo alla caccia di Kony, suscitando qualche imbarazzo riguardo la presenza di soldati americani in Uganda, il cui presidente Museveni non è certamente esempio di integrità e democrazia o di rispetto dei diritti umani. Nonostante i ripetuti appelli e condanne da parte del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, gli Stati Uniti non si sono mai impegnati a contribuire alla soluzione dei conflitti in Rdc, perché sostengono il governo ruandese, vedendo nel presidente tutsi Paul Kagame un elemento di stabilità nella regione e poi perché sono impegnati con Africom (il comando africano dell'esercito Usa) nella lotta al terrorismo qaedista nel Sahel. Ciò lascia spazio alla soluzione panafricana. Solo di recente, ai margini del vertice dell'Unione Africana di Addis Abeba, che ha eletto per la prima volta una donna ai suoi vertici, Nkosazana Dlamini Zuma, i presidenti della Rdc e del Ruanda si sono parlati trovando accordo sulla possibile soluzione. Gli stati membri della Conferenza Internazioale della Regione dei Grandi Laghi lavoreranno assieme alle Nazioni Unite ed all'Unione Africana per creare una forza internazionale con l'obiettivo di «sradicare il M23, il Fdlr e tutte le altre forze negative (sic!) nella regione est della Rdc». Spostandosi verso est, lungo quello che viene definito «arco di instabilità» del continente africano, troviamo di nuovo il mix di tensioni etniche, interessi geopolitici «esterni», controllo ed utilizzo di risorse naturali strategiche, povertà indotta e commercio di armi. E' il caso del Sudan e del neonato stato del Sud Sudan, nato con difficoltà e sempre sull'orlo di una nuova guerra. Molti sono stati infatti gli episodi di conflitto armato tra i due paesi nel corso dell'ultimo anno, per la difficoltà di definire i dettagli dell'accordo di pace, e in particolare lo status della città di Abyei, zona ricca di petrolio Sud Sudanese (che rappresentava i due terzi del petrolio prodotto in tutto il Sudan). Nei mesi scorsi, il governo di Khartoum decise di intercettare il petrolio sudsudanese in transito attraverso gli oleodotti posti sul suo territorio, di fatto privando il governo del Sud Sudan del 98% delle sue entrate e facendo precipitare il paese in una grave crisi. A questo si aggiunge l'emergenza umanitaria causata al afflusso di migliaia e migliaia di profughi che dal Sudan entrano nel Sud Sudan (almeno 170mila). Ora il conflitto precipita. Nell'aprile di quest'anno il Sud Sudan ha ripreso il controllo dei giacimenti di petrolio di Heglig scatendando furiosi combattimenti. L'Unione Africana ha condannato la mossa come occupazione illegale, e l'Onu ha minacciato sanzioni se i due Sudan non riusciranno entro il 2 agosto ad accordarsi sui dossier che riguardano la frontiera ed il petrolio. Nei giorni passati sempre ad Addis Abeba i leader di Sudan e Sud Sudan si sono incontrati per riaprire un dialogo diretto dopo le violenze dei mesi scorsi, senza però giungere a un accordo che possa risolvere definitivamente le tensioni. Nel frattempo si è riacceso il conflitto intertribale in Darfur, dove 60 persone sono morte in scontri tra gruppi etnici del Darfur Orientale e del Sud Kordofan. Infine c'è la Somalia, paese dilaniato dalla guerra tra le milizie di Al Shaabab e l'esercito del governo di transizione, guerra che ha coinvolto direttamente e indirettamente Eritrea ed Etiopia e ora vede sempre più impegnato il Kenya, e di riflesso gli Stati Uniti. Insomma, dalla Nigeria, al Mali, al Niger, attraverso la Repubblica Democratica del Congo, la regione dei Grandi Laghi, fino al Sudan e al Corno d'Africa l'Africa continua a essere attraversata da conflitti irrisolti, legati l'uno all'altro in un intreccio mortale e che sfuggono alle analisi convenzionali. A fronte di un certo protagonismo dell'Unione Africana fa riscontro l'inadeguatezza della risposta europea. Nel corso dell'ultima riunione del maggio scorso dell'iniziativa UE-Africa per la prevenzione dei conflitti si discusse di Somalia, Sahel, Sudan, ma la Repubblica Democratica del Congo era assente dall'agenda. Qualche giorno dopo le armi hanno iniziato a sparare. Sul fronte antiterrorismo-antipirateria invece il quadro cambia. A maggio di quest'anno per la prima volta le forze della task force anti-pirateria europea stazionate al largo della Somalia hanno bombardato l'entroterra contro presunte posizioni di pirati, di fatto marcando un'escalation nel conflitto. E nei giorni scorsi il Consiglio dei Ministri dell'Unione europea ha approvato l'invio di un contingente civile europeo di 50 unità per l'addestramento delle forze di sicurezza del Niger contro il terrorismo e la criminalità nella regione del Sahel. La missione, inizialmente prevista per due anni al costo di 87 milioni di euro, potrebbe essere estesa a Mauritania e Mali - paese in cui si sta prospettando un intervento militare internazionale contro l'insurrezione tuareg. Attanagliata nella sua crisi, nei suoi Fiscal Compact ed affini, l'Unione Europea pare ingessata in un approccio alla gestione delle crisi essenzialmente «securitario». Anche in questo andrà misurata la costruzione di un'Europa politica, da contrapporre a quella dei mercati, che sia in grado di svolgere un ruolo responsabile all'altezza delle sfide globali.
La Stampa - 25.7.12
Tra i bazooka della Bce c'è anche l'acquisto dei bond delle società - T.Mastrobuoni
È vero, la Banca centrale europea ha strumenti straordinari a disposizione, alcuni ancora inutilizzati, per far fronte alla crisi. Ma senza una piena copertura politica dei Paesi dell'Eurozona, alcuni di essi rischiano di rimanere sul tavolo. O, peggio ancora, di essere controproducenti. I titoli di Stato. È il programma straordinario avviato nel 2010 dall'ex presidente della Bce, Trichet, ma che è costato le polemiche dimissioni di due banchieri tedeschi: Axel Weber e Jürgen Stark. La Bce compra sul mercato secondario (cioè non direttamente alle aste) i bond statali per raffreddarne i tassi di interesse. Il piano, che da agosto dello scorso anno era concentrato sui titoli spagnoli e italiani, è stato interrotto da venti settimane. Ma da tempo ai vertici dell'Eurotower si discute se riprenderlo. I problemi, però, sono due. Il primo è che i falchi - tedeschi in testa -, sono fortemente contrari. Anche al vertice europeo di giugno, quando i leader europei hanno parlato della possibilità che il fondo salva-Stati garantisse per le eventuali perdite dei bond acquistati dalla Bce, l'idea è stata affossata da loro. Invece, sarebbe stata una delle poche novità in grado di regalare una forza prorompente a questo strumento: sarebbe diventato il vero «bazooka» contro i mercati. Il messaggio sarebbe stato che la Bce avrebbe fatto scudo all'Eurozona comprando titoli in maniera illimitata per proteggerla da rendimenti troppo alti sul debito, ma con il paracadute dell'Esm. In altre parole, con la copertura politica dei governi. Una differenza importante rispetto a quanto accaduto sino a 20 settimane fa, quando la Bce agiva autonomamente ed era sempre costretta a puntualizzare che gli acquisti dei titoli erano «limitati» e «temporanei». Anche per calmare i tedeschi, agitati per i rischi di eventuali default spalmati sull'Eurosistema e, dunque, in proporzione maggiore sulla Germania. Svanita - per ora -, questa «pallottola d'argento» per fermare la crisi dell'euro, è prevedibile che i tedeschi dell'Eurotower si metterebbero di traverso, se Draghi insistesse per riprendere il programma con la stessa modalità di 20 settimane fa. Ma c'è un secondo problema: quando si è decisa la ristrutturazione del debito greco, la Bce ha goduto di condizioni più favorevoli degli altri detentori di "sirtaki bond". Il rischio, del quale nel board sono perfettamente, consapevoli è che riprendendo gli acquisti, in virtù di questo "privilegio" il resto degli investitori cominci a scaricare i bond, temendo di rimanere col cerino in mano. I bond aziendali. La Bce, in teoria, ha ancora uno strumento del tutto inedito che può utilizzare: acquistare obbligazioni di società non finanziarie. Anche questa sarebbe una forma, come l'acquisto dei bond statali, di «quantitative easing». Dal 2009 a oggi, per rimanere in ambito europeo, l'ha utilizzato per due volte la Bank of England. Serve, ovviamente, a bypassare il problema delle banche che non prestano soldi alle aziende: in questo modo le società a corto di liquidità possono approvvigionarsi direttamente presso l'Eurotower. Una misura molto efficace nel caso di credit crunch ma che nell'attuale quadro di grave recessione potrebbe non essere sufficiente. Un altro strumento straordinario che Draghi potrebbe risfoderare, ma che al momento nei corridoi della Bce tendono ad escludere, è una terza operazione di finanziamento alle banche a tre anni, un terzo "ltro" all'1%. Il problema è che al momento le banche tendono ancora a ridepositare questa liquidità presso la Bce, nonostante i tassi a zero sui depositi. E quelle che hanno utilizzato quelle risorse per comprarsi bond spagnoli e italiani per guadagnare dalla differenza degli interessi, ora sono considerate più a rischio. I tassi di interesse. Anche sugli strumenti convenzionali la Bce ha ancora qualche margine di manovra. Sabato scorso Draghi ha detto che l'inflazione scenderà sotto il 2% prima della fine dell'anno, prima di quanto previsto finora, e sembra aver confermato la possibilità di un abbassamento ulteriore del costo del denaro. Una mossa che farebbe scendere ulteriormente l'euro contro il dollaro dando sollievo all'export - l'unico indicatore che può alleviare la recessione europea. E non è neanche escluso che imiti la Banca centrale danese che ha di recente portato i tassi di interesse sui depositi sotto zero. Al momento sono già stati tagliati a zero per scoraggiare gli istituti di credito che parcheggiano il denaro "overnight"per paura di prestarseli a vicenda. Obbligare le banche a pagare la Bce per parcheggiare denaro potrebbe essere un'ulteriore spinta per dirottarli verso l'economia reale.
L'equilibrio tra politica ed economia - Vittorio Emanuele Parsi
Chissà se tra le letture di Angela Merkel figurano anche i romanzi di Agatha Christie... Tra questi, uno particolarmente famoso è «10 piccoli indiani», che racconta della progressiva eliminazione da parte di un misterioso padrone di casa dei suoi ospiti, tutti collegati tra loro per una particolare vicenda. Le vittime facilitano il compito dell'assassino perché sono incapaci di coordinare una comune azione di difesa: uccisi uno a uno a causa della loro diffidenza reciproca. Come i dieci piccoli indiani della novella, anche i diciassette Paesi dell'euro sembrano non riuscire a compiere quei passi, politici, che gli consentirebbero di poter contrastare più efficacemente gli attacchi della speculazione. Da più parti si sostiene con ottime ragioni che solo un'Unione che appaia più profonda e irreversibile può convincere la speculazione che si guadagna di più scommettendo a favore dell'euro e sul suo futuro invece che contro. Perché ciò possa avvenire, però, i nostri diciassette piccoli indiani dovrebbero iniziare a ricordarsi di appartenere a una sola medesima tribù, quella di Eurolandia, e comportarsi di conseguenza. Dovrebbero soprattutto iniziare a capire che sotto attacco da parte della speculazione non c'è solo la moneta unica, la stabilità finanziaria, le prospettive economiche delle future generazioni. In gioco c'è la stessa democrazia poiché, come osservava ieri Mario Deaglio nel suo commento per La Stampa, nel «duello tra finanza e democrazia» un principio deve essere mantenuto fermo: che «le democrazie hanno il dovere di pagare i debiti ma anche il diritto alla non interferenza dei creditori nei loro affari». Non basterà certo l'accordo tra i soli Paesi della zona euro a ridefinire i rapporti tra politica ed economia, tra la democrazia e il mercato. Affinché possano essere adottate le misure necessarie per evitare che la speculazione finanziaria finisca per affossare le economie reali, le società che le esprimono e le istituzioni politiche che governano le une e le altre occorrerà che tutti i Paesi dell'Unione e, dopo le elezioni di novembre, anche gli Stati Uniti si muovano in maniera coordinata, rammentando che proprio l'aver saputo mantenere in equilibrio democrazia e mercato, le ragioni dell' oikos e quella della polis , fu alla radice dello straordinario successo arriso all'Occidente nel secondo dopoguerra. Se consideriamo il periodo che va tra il 1929 e il 1989 come una sola grande stagione - aperta dalla crisi del sistema capitalista internazionale e chiusa dal crollo della sua proposta antagonista rappresentata dal comunismo - è possibile osservare una spinta alla redistribuzione della ricchezza (fino al termine degli Anni 70 negli Usa e in Europa occidentale) associata a un progressivo allargamento della partecipazione politica libera ed effettiva (la cui ultima ondata coincide col crollo del Muro di Berlino). A un modello di economia liberale «temperata» (in cui le istituzioni pubbliche limitavano gli effetti più devastanti delle oscillazioni del mercato) era associato un modello politico fondato sulla democrazia di massa, capace di sconfiggere i paradigmi autoritari di destra (prima) e quello totalitario di sinistra (poi) che avevano offerto delle alternative illiberali alla sfida dell'inclusione dei ceti popolari nel circuito politico. I due modelli - quello economico e quello politico - si sorreggevano e si integravano vicendevolmente. In altri termini, le scelte di politica economica adottate per uscire dalla crisi innescata dal «giovedì nero» del 1929 furono tutt'altro che indifferenti per il consolidamento del modello democratico come «standard» politico occidentale. Oggi, le modalità con cui usciremo da questa lunga crisi, le scelte e le non-scelte di politica economica che adotteremo o scarteremo, avranno ripercussioni decisive sullo «standard democratico» con cui l'Occidente si governerà nei decenni a venire. Finora, al riparo dei loro spread, i Paesi finanziariamente più solidi hanno prestato orecchio da mercante a queste argomentazioni. Paradossalmente, il declassamento dell'outlook economico generale di Germania e Olanda da parte di Moody's potrebbe iniziare a far capire anche ai loro governanti che solo muovendoci insieme e tempestivamente potranno evitare che il Bundestag e il suo omologo olandese siano semplicemente gli ultimi due Parlamenti europei a dover ammainare la bandiera della democrazia politica per non averla saputa rifondare su scala continentale quando ancora era possibile. Può apparire provocatorio riaffermare la necessità di un primato della politica in un Paese come il nostro, in cui i partiti che appoggiano il governo Monti si baloccano con l'idea demenziale di elezioni anticipate, adducendo la speciosa spiegazione che «il quadro si va logorando», cioè che loro potrebbero decidere di far saltare il banco. Ma il tempo delle scelte decisive è ora, ora o mai più. Perché se è vero che «lo statista guarda alle prossime generazioni mentre il politico alle prossime elezioni» occorre pur ricordare che la speculazione, purtroppo, si accontenta di guardare alle prossime 24 ore...
Un cammino pieno di ostacoli - Francesco La Licata
Per la Procura di Palermo, dunque, nel 1992 - dopo il trauma del feroce assassinio dell'eurodeputato Salvo Lima - lo Stato italiano scese a patti con Cosa nostra, che chiedeva un «ammorbidimento» del carcere duro in cambio della fine della strategia stragista e, in particolare, della programmata «mattanza» di uomini politici già nel mirino e sottoposti, addirittura, a controlli propedeutici al loro assassinio. E' un passo, grave, che i pubblici ministeri palermitani compiono certamente non a cuor leggero e per la portata delle accuse rivolte alle autorità del tempo e per il clima politico-istituzionale che accoglie la loro iniziativa, certamente non del tutto favorevole alle tesi della pubblica accusa. Tra i personaggi proposti per il rinvio a giudizio (insieme con capimafia di ampio spessore) spiccano gli ex ministri Nicola Mancino e Calogero Mannino, il cofondatore di Forza Italia sen. Marcello Dell'Utri -, tre ufficiali dei carabinieri: nomi pesanti, il cui coinvolgimento certo non alimenta il senso di credibilità nello Stato. La storia della trattativa con la mafia ha radici antiche, anche se fino a un certo punto è stata liquidata più come «chiacchiera indimostrabile» o fantasia giornalistica che come vicenda realmente accaduta. Si pensi soltanto che Giovanni Brusca - il collaboratore che per primo parlò del «papello», la lista delle richieste di Cosa nostra allo Stato - la consegnò alla magistratura nel lontano 1997. E l'anno successivo se ne dibatteva alla Corte d'Assise di Firenze, senza che, poi, venisse mai presa in seria considerazione. Oggi che ritroviamo le tesi della Procura in una richiesta di rinvio a giudizio, non si può più credere sia soltanto una «chiacchiera». I magistrati palermitani sono convinti che la trattativa sia esistita e sia stata originata dall'allarme lanciato dall'allora capo della Polizia, Vincenzo Parisi, nel lontano marzo 1992. Dopo Salvo Lima, Riina voleva uccidere Calogero Mannino, Carlo Vizzini ed altri politici «per lanciare un messaggio»epretendereun trattamento meno duro per il popolo di Cosa nostra. Anzi, secondo i pm, sarebbe stato proprio Mannino ad intervenire presso le strutture investigative (servizi segreti e Ros) perché cercassero un contatto che potesse fermare il progetto della mafia. Un modo per salvarsi la vita e per bloccare la deriva stragista di Totò Riina. Così l'allora col. Mori e il cap. De Donno (con la copertura del comandante del Ros Antonio Subranni) - sempre secondo i pm - cercarono e trovarono l'aggancio con l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, uno dei pochi in grado di «parlare» con la mafia corleonese. Per dirla in breve, la trattativa qualche effetto l'avrebbe avuto: Mancino prende il posto di Scotti al ministero dell'Interno, Martelli lascia la Giustizia a Conso, e al vertice delle carceri arrivano Capriotti e Di Maggio. Sostengono i magistrati che tutto il movimento produce il mancato rinnovo di 328 decreti di 41 bis per altrettanti mafiosi. E' una storia inquietante, questa. Soprattutto perché proprio mentre va in scena il dramma segreto descritto dai pm palermitani, alla luce del sole esplode la tragedia immensa degli attentati a Falcone e Borsellino. E' questo, crediamo, il nodo che ha fatto esplodere la contrapposizione recente fra le istituzioni e i familiari delle vittime. Ed è, forse, questo lo stato d'animo che ha motivato il lavoro dei pm palermitani. Ma la strada della loro inchiesta non sembra delle più facili. Non aiuta lo scontro che la Procura ha voluto intraprendere col Quirinale per la vicenda delle intercettazioni tra il sen. Mancino e il consigliere giuridico del Capo dello Stato, Loris D'Ambrosio. Una vicenda adesso ferma, in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sul conflitto d'attribuzione sollevato dal presidente Napolitano. Non si può dire che questo groviglio non abbia avuto un peso, anche rispetto alla coesione interna del gruppo dei pm. La richiesta di rinvio a giudizio, depositata ieri, non porta la firma del Procuratore capo, Francesco Messineo. E non ha firmato neppure un altro sostituto, Paolo Guido, perché in disaccordo con le conclusioni dei colleghi. Ad indebolire la «squadra» anche il fatto che soltanto uno dei sostituti che hanno firmato, Francesco Del Bene, fa parte della Procura distrettuale antimafia. Per non parlare dell'ulteriore «complicazione» rappresentata dall'annunciata volontà di Antonio Ingroia di trasferirsi per un anno in Guatemala. Insomma, non mancheranno ostacoli sul «cammino di verità e giustizia», per dirla con le parole del procuratore aggiunto Ingroia. Uno che viene già paventato riguarda un problema di competenza. C'è chi sostiene che il processo sia destinato ad essere trasferito a Caltanissetta o a Firenze, visto che la trattativa era un espediente per interferire in qualche modo nella strategia delle stragi mafiose. Stragi che si sono verificate e rappresentano, dunque, il reato più grave rispetto a quelli contestati ai protagonisti della trattativa. Da qui l'attribuzione della titolarità agli uffici giudiziari che si occupano delle stragi. Un'eventuale decisione in questo senso contribuirebbe di certo ad accrescere il dolore provocato dalle stragi e alimenterebbe le perplessità di quanti non credono di poter mai ottenere verità e giustizia.
Trattativa stato-mafia. Il teorema della Procura: "Così cambiò l'accordo"
Guido Ruotolo
ROMA - E alla fine, le trame che hanno segnato la storia degli ultimi vent'anni, intossicato i rapporti e le relazioni tra istituzioni, tra uomini delle istituzioni, distrutto vite innocenti, trasformato servitori dello Stato in martiri, per certi versi modificato la Costituzione materiale che regola la vita della nostra Repubblica, della nostra democrazia, queste trame, messe sotto accusa dalla Procura di Palermo, si sviluppano tutte nell'arco di appena tre anni. Dall'omicidio di Salvo Lima alla nascita del primo governo Berlusconi. In fondo è questa la tesi della procura di Palermo: «Quella che definiamo trattativa in realtà è la ristrutturazione del patto di convivenza di Cosa nostra con lo Stato». Una ristrutturazione che ha vissuto momenti tragici, drammatici, non sempre lineari ma che ha visto in prima fila esponenti politici attivare pezzi di apparati per conoscere gli obiettivi di Cosa nostra, e prendendo atto che questa «ristrutturazione» non sarebbe stata indolore, attivare disperatamente una trattativa per soddisfare le richieste della mafia. Questa stagione muove i suoi primi passi con la decisione della Cassazione sul maxiprocesso, che Cosa nostra vive come la rottura di quel patto di «convivenza» con lo Stato. Con l'omicidio di Salvo Lima, i politici siciliani si rendono conto che quel rapporto di convivenza è stato rescisso unilateralmente e Calogero Mannino, allora potente ministro per il Mezzogiorno, temendo di essere finito nella lista dei politici da eliminare (effettivamente era così) cercò di cambiare il suo destino attivandosi per capire le successive mosse dei Corleonesi. Poi c'è Capaci e a seguire via D'Amelio. La trattativa oggettivamente produce un colpo d'accelerazione nell'esecuzione di Paolo Borsellino che, sicuramente, sapeva della trattativa e non la condivideva. Anche la vicenda della sostituzione del ministro dell'Interno Scotti con Nicola Mancino e, per via dell'avviso a comparire di Mani pulite, del Guardasigilli Claudio Martelli con Giovanni Conso rientrano dentro quella «linearità di strategia trattativista», per dirla con la Procura. Di nuovo ridiventano attuali gli interrogativi sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina (gennaio '93), o della mancata proroga da parte del ministro Conso del novembre del '93 di 334 provvedimenti di 41 bis. Cosa è che tiene unito il cambio di strategia stragista che porta Cosa nostra dall'eliminazione dei nemici agli attacchi contro i simboli dello Stato e della Chiesa (gli attacchi del '93) alla mancata cattura di Bernardo Provenzano (Mezzojuso, 95)? Perché Nicola Mancino è reticente quando nega di non sapere della trattativa in corso tra Mori e Ciancimino? E Marcello Dell'Utri perché garantisce che con il governo Berlusconi le richieste di Cosa nostra troveranno risposte? La cattura di Totò Riina fu frutto positivo della intesa con l'area di Provenzano? Antonio Ingroia e Nino Di Matteo in questi vent'anni, sono sempre stati in prima fila nelle indagini per svelare le contiguità pericolose tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra. Convinti di essere dalla parte della ragione anche nella vicenda delle intercettazioni indirette del Capo dello Stato, che andranno distrutte, aspettano la decisione della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sollevato dal Presidente Napolitano. E intanto chiedono all'attuale governo Monti di costituirsi parte civile nel processo sulla trattativa, avendo individuato come parti offese - il reato contestato è quello di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, i governi che si sono succeduti a partire dal '92 fino al '94 - persino il governo guidato da quel Giulio Andreotti indagato, imputato (e assolto) per i rapporti con Cosa nostra, dalla procura di Palermo. Dal governo Andreotti al primo governo di Silvio Berlusconi, l'offensiva eversiva e sanguinaria di Cosa nostra ha cercato di condizionare il potere politico in carica per modificare leggi e regimi carcerari, le regole dei processi e gli stessi reati. Ingroia, però, a fine ottobre andrà in Guatemala, su richiesta delle Nazioni Unite, per un anno sabbatico A molti sembra una rinuncia. Ma l'indagine è chiusa. Adesso spetterà ai pm del dibattimento convincere i giudici.
Europa - 25.7.12
Ma c'è centro e centro - Montesquieu
Capita - inopinatamente - di dover parlare del centro, a proposito della politica italiana. E capita di parlarne con accenti in parte nuovi: alla vigilia del voto più difficile, mentre la tenuta dello stato è sottoposta a prove di resistenza sotto sforzo, nella prospettiva di ancora sconosciute difficoltà per la maggioranza delle famiglie, tra fantasiosi creativi che mettono allo studio una nuova generazione di specchietti per le allodole per i troppi creduloni, e tra abituali combinazioni politiche che si dissolvono, il centro potrebbe essere la sorprendente sorpresa positiva. E, maggiore novità, non solo per sé. Nelle rare democrazie che ne consentono una decorosa esistenza (non la Francia, non il Regno unito, non gli Stati Uniti, per capirci), il centro può normalmente definirsi il luogo del grigio: colore che si ottiene attingendo dal bianco e dal nero dei due schieramenti principali ed opposti, badando a custodirne la reciproca incomunicabilità, ammiccando con equilibrio alternato all'uno e all'altro. Una posizione geometrica, che diventa politica all'indomani delle elezioni, quando un vincitore non autosufficiente sia costretto a recarsi sul mercato, per l'appunto, dell'offerta politica. Una collocazione, quindi, per forza di cose ambigua, ma anche una tradizionale specialità del nostro sistema, che combina una certa vocazione trasformistica con meccanismi istituzionali fatti su misura per metterla a frutto. Conosciuto nella prima parte della repubblica come fenomeno interno alla maggioranza di governo obbligata, per assenza di alternative, addirittura interno a singoli partiti, è riuscito a farsi largo nella seconda, quando sembrava spacciato a causa dell'introduzione di un sistema bipolare e di un meccanismo elettorale maggioritario. Così, almeno, lo aveva immaginato con entusiasmo la grande maggioranza degli italiani. Se oggi se ne può parlare in termini diversi rispetto al tradizionale luogo delle convenienze, lo si deve ad alcuni fattori. Innanzitutto, c'è centro e centro, anche se un giudizio sostanzialmente benevolo non ne esclude nessuno, neanche quello che risponde più degli altri alla descrizione iniziale e consueta. Potremmo parlare di una riproduzione miniaturizzata di un centro centrodestra, di un centro centro e di un centro centrosinistra. Il primo nasce dall'esperienza prima esaltante, poi soffocata, impressa alla propria posizione politica dal presidente della camera, fin troppo nota per ritornarvi, se non incidentalmente. A questa destra diventata, per forza di cose e di compatibilità, un pezzo del centro, si devono le più nitide ed equilibrate interpretazioni delle esigenze di laicità, di legalità, di accoglienza, di difesa istituzionale del parlamento, in perfetta solitudine quest'ultima, pur essendo il nostro un sistema bicamerale con due presidenti. Posizioni coraggiose nell'ambiente politico praticato, come si è ben visto, poi d'un tratto abbandonate, con la rinunzia alla grande e meritata rendita politica che, specie in tempi di antipolitica, avrebbero portato con sé. Oggi di questa esperienza resta, accanto alla stordita memoria, soprattutto l'apparizione nella politica e attorno ad essa di un paio di personaggi che in parte compensano la desolante mediocrità del panorama politico, e la fanno giudicare, l'esperienza stessa, comunque utile. Un professore di Perugia, Alessandro Campi, animatore della fase esaltante ed estraneo a quella successiva, e l'attuale capogruppo alla camera, Benedetto Della Vedova, portatore della propria formazione radicale accanto alle qualità personali. Un lascito da non disperdere. Riconosciuto il fondamentale e consapevole contributo dell'esperienza finiana alla interruzione dell'esperienza berlusconiana, resta da esplorarne l'apertura in termini di alleanze, in un momento in cui le posizioni ideologiche debbono lasciare il campo alla capacità di coesione sui temi della crisi, non solo economica, ed al rigetto di nuove avventure. La sinistra del centro: nasce dalla fuoriuscita dal Partito democratico di un suo fondatore, senza il corollario, consueto a tutte o quasi le scissioni, di una eccessiva immedesimazione nelle logiche utilitaristiche del nuovo approdo. Come è dimostrato dal buon viso fatto all'esperimento di relazione politica più lungimirante e spregiudicato di questi tempi di piccoli, minuziosi, opportunistici passi, la nascita dell'asse Pisapia-Tabacci. Un esponente equilibrato della sinistra detta radicale, e un centrista per caso, o per necessità, ma come nessuno alternativo al modello dell'uomo di centro italiano. Provvisto di spiccata vocazione programmatica, di concretezza, privo del germe molle della moderatezza e del politicismo, laico quanto basta, oggetto di stima diffusa fino ad essere generalizzata. L'unico ad avere l'ardimento di parlare di sinistra centro, vero test del coraggio del riformatore italiano. Questo schema si ripropone a livello nazionale, e finisce dritto fin dentro le primarie. O questo non è centro, o il centro ha lasciato per strada le sue ambiguità. A proposito delle quali, si deve passare al corpaccione del centro. In materia di utilità marginali, le dimensioni sono relative. Oggi si devono segnalare alcune novità, dalla quasi - tenue residuo di ambiguità - dichiarata scelta preelettorale delle alleanze, peraltro favorita se non resa necessaria dalla confusione del centrodestra, alla piena comprensione delle priorità del paese economiche ed istituzionali, all'abbandono di certe posizioni in tema di giustizia e, auspicabilmente, di questioni etiche. Rimane l'incertezza sulla disponibilità a non esaurire lo sguardo a sinistra laddove finisce il Partito democratico: ma qualche abilità il segretario del Partito democratico dovrà pur dimostrarla, traghettando insieme la capra centrista e i cavoli della sinistra sinistra. Resterebbe il centro virtuale, la bolla montezemoliana, lungi dal configurarsi come qualcosa di concreto, di cui ci si potrà occupare quando il coraggio della discesa in campo dovesse prevalere sulle paure che la frenano, e che non sono il migliore sintomo dell'utilità di un nuovo concorrente.
Una breccia nella cortina di Assad - Alberto Tetta
Mehmet guarda fisso davanti a sé e non dice una parola. «Si è chiuso nel silenzio dopo aver visto la polizia politica di Assad picchiare a morte i ragazzi che nel giugno scorso manifestavano pacificamente contro il regime a Jisr al-Shuhur, il paese nel nord della Siria da dove è scappato con la sua famiglia » spiega Fidel, la maestra che insegna turco ai bimbi del campo profughi di Altinozu a una manciata di chilometri dal confine con la Siria: «Mentre con tutti gli altri bambini che ho seguito sono riuscita a stabilire un rapporto positivo e a insegnargli abbastanza turco perché possano iscriversi alla prima elementare, con lui non c'è stato niente da fare: quello che ha visto lo ha profondamente traumatizzato». Altinozu è stato uno dei primi campi a essere aperti in Turchia. Fino a pochi mesi fa ospitava per lo più rifugiati provenienti dal nord della Siria. Ma dopo che sono stati allestiti i nuovi campi di Kilis e Islahiye, nel provincia di Gaziantep, molti ospiti sono stati trasferiti. Altinozu è diventato il rifugio di siriani provenienti da ogni angolo della Siria, spiega il direttore del campo. «A noi non piace definirli rifugiati - aggiunge il funzionario turco - i nostri fratelli siriani sono ospiti». Al di là delle questioni lessicali la scelta di dare ai rifugiati lo status di "ospite", non previsto dalla legislazione turca, anche se evita ai cittadini siriani la lunga trafila per ottenere lo status di rifugiato, non dà loro diritto a una piena libertà di movimento. Infatti, se gli "ospiti" siriani possono uscire dal campo per qualche ora, per andare nella vicina Hatay devono ottenere invece un permesso speciale. A sentire i rifugiati le condizioni di vita nel campo di Altinozu sono accettabili: «Non abbiamo mai avuto nessuno problema, i figli di molte mie amiche sono nati qui, per noi gli operatori del campo sono come parenti» racconta Meryam, una donna velata dall'aria decisa e il viso sereno. Molto diversa la situazione nell'affollato campo profughi di Kilis nella provincia di Gaziantep dove il 17 luglio si è scatenata una violenta rivolta. Per disperdere la manifestazione organizzata dai rifugiati che lamentavano una scarsa distribuzione di acqua e cibo è dovuta intervenire la polizia con cariche e uso di gas lacrimogeni. Durante gli scontri tra forze dell'ordine e manifestanti due poliziotti sono stati presi in ostaggio per poi essere liberati qualche ora dopo. Alcuni rifugiati hanno persino ammainato la bandiera turca all'entrata del campo per issare quella dei ribelli siriani. «Negli ultimi tempi episodi di questo genere stanno diventando sempre più frequenti - spiega il direttore del campo di Boyunyogun, uno delle tre tendopoli allestite dalla Mezzaluna rossa turca nei pressi di Altinozu -. Le rivolte sono legate al sovraffollamento e alla condizione di stress a cui sono sottoposti i rifugiati che, nonostante i nostri sforzi, vivono in condizioni precarie da ormai più di un anno e la preoccupazione per i parenti che non sono riusciti a fuggire con loro in Turchia non fa che rendere la loro condizione psicologica ancora più precaria. Intanto il flusso di persone in fuga dal conflitto che trovano rifugio al di là del confine turco aumenta di giorno in giorno, sono ormai più di 43 mila i profughi ospitati nei campi allestiti dalle autorità di Ankara. Se un anno fa, all'inizio dell'emergenza le tendopoli erano solo tre, la Mezzaluna rossa turca è stata costretta, negli scorsi mesi, ad allestire sei ulteriori campi. La situazione nei campi, nonostante le rivolte, rimane relativamente tranquilla, ma pochi chilometri più a sud la tensione è altissima dopo che la scorsa settimana i ribelli siriani hanno assunto il controllo di tre posti di frontiera con la Turchia. Domenica, militanti del libero esercito siriano hanno conquistato il valico di al-Salama a nord di Aleppo e la risposta dell'esercito turco non si è fatta attendere: Ankara ha subito schierato la sua contraerea lungo il confine. Un treno carico di missili terra-aria è arrivato presso Nusaybin cittadina di frontiera a pochi chilometri dalla Siria, nella provincia turca di Mardin. Il confine tra i due paesi è quindi sempre più militarizzato. Dopo l'abbattimento di un jet turco da parte della contraerea siriana il mese scorso, infatti, l'esercito di Ankara aveva già schierato 150 mezzi pesanti lungo il confine. Al-Salama è il terzo posto di frontiera passato nelle mani del Free syrian army negli ultimi giorni dopo quelli di Bab al-Hawa e Jarabulus. Il controllo della frontiera è molto importante perché consente un più facile afflusso di armi destinate ai ribelli fornite sottobanco da Arabia Saudita e Qatar con la supervisione delle autorità di Ankara. Intanto da giovedì la polizia di frontiera turca non consente più il transito in entrata di veicoli e persone provenienti dalla Siria. All'origine di questa decisione la notizia che dalla parte siriana del confine, presso il valico di Bab al-Hawa, nove camion turchi sarebbero stati dati alle fiamme e una ventina saccheggiati giovedì. Mistero sui responsabili dell'accaduto. Se i camionisti accusano i militanti della resistenza siriana, il portavoce del Consiglio nazionale siriano da Istanbul ha smentito questa versione parlando invece di «atto deplorevole compiuto da criminali comuni». Sempre secondo i camionisti aggrediti, i ribelli, dopo aver assunto il controllo dei posti di frontiera, chiederebbero ora un "contributo per la rivoluzione" di circa 700 dollari per ogni Tir. Intanto ad Antakya, il capoluogo della provincia che ospita la maggior parte dei profughi, la vita scorre tranquilla. Nella piazza principale da giorni si tengono celebrazioni e concerti per festeggiare il settantatreesimo anniversario dell'annessione di questa ex-provincia siriana alla Turchia. Neanche la recente minaccia di Damasco di usare armi chimiche contro i paesi che sostengono i ribelli preoccupa più di tanto gli abitanti della città, secondo Fidel: «Antakya non è in pericolo, la maggior parte dei cittadini è di origine araba e molti di noi hanno parenti dall'altra parte del confine, la Siria continua a considerarci parte del loro territorio e non ci attaccherebbe mai».
Repubblica - 25.7.12
Noi, appesi come foglie d'autunno - Barbara Spinelli
Nessuno di noi sa quel che voglia in concreto il governo tedesco: se vuol salvare l'euro sta sbagliando tutto. Se gioca allo sfascio ci sta mettendo troppo tempo. Nessuno sa come intenda procedere la Banca centrale europea. Draghi ha detto a Le Monde che l'euro è irreversibile, che la Bce "è molto aperta e non ha tabù". Ha detto perfino che "non siamo in recessione". Ma venerdì scorso ha deciso che non accetterà più titoli di stato greci in garanzia, dando il via alle danze macabre attorno a Atene e votandola all'espulsione. Decisione singolare, perché qualche giorno prima Jörg Asmussen, socialdemocratico tedesco del direttorio Bce, aveva detto alla rivista Stern che bisogna "aver rispetto per gli sforzi greci". Una contrazione di 5 punti di pil sarebbe tremenda per chiunque, Germania compresa: "Dovremmo almeno dire a Atene: ben fatto, buon inizio". La maggioranza nella Bce non sembra d'accordo: smentendo che siamo in recessione, si allinea non tanto alla Merkel ma all'ala più dura del suo governo. Nessuno sa infine a che siano serviti 19 vertici di capi di Stato o di governo. Dicono che gli Europei stanno correndo contro il tempo. Ben più tragicamente l'ignorano, vivono nella denegazione del tempo, dei fatti. Se tutte queste cose non le sappiano noi, figuriamoci i mercati: il caos che producono è il riflesso molto fedele del caos che regna nelle teste, negli atti, nelle parole dei capi che pretendono governare l'Unione. Il tempo imbalsamato, mentre la storia precipita. La nefasta lentezza con cui si muovono politici e Bce: nei libri di storia, se finisse l'euro, si parlerà di strana disfatta dovuta a questo tempo che s'insabbia: strana perché il tracollo, essendo politico più che economico, poteva essere evitato. La Grecia esce, non esce? Lo sapremo a settembre, quando parlerà la trojka (Commissione, Bce, Fmi). Il Fondo salva-Stati nascerà, anche se con pochi soldi? Da settimane, l'intero Sudeuropa sta appeso alla decisione che la Corte Costituzionale tedesca prenderà, il 12 settembre, su Fondo e Patto di bilancio (Fiscal Compact). I due accordi sono compatibili con la costituzione tedesca, e in particolare con il principio di democrazia che nell'articolo 20 fa discendere il potere dello Stato dalla sovranità del popolo e del Parlamento? Fino ad allora resteremo appesi, come d'autunno le foglie sugli alberi. La foglia greca già è semi-staccata, ma la morte va inflitta a fuoco lento. Alcuni dicono che l'espulsione serve a sfamare il sotterraneo bisogno tedesco di punire, più che di aggiustare. Di sfasciare e comandare, più che di ricostruire e guidare. Anche per questo, incerti più che mai sulla voglia europea d'esistere, i mercati impazziscono. Non sono dilemmi secondari, quelli trattati a Karlsruhe: sono in gioco la sovranità del popolo, il suo diritto inalienabile a influire sui bilanci nazionali. Da anni la Corte tedesca se ne occupa, e certo gli occhiali che inforca sono nazionali: non conta nulla la sovranità del popolo europeo, rappresentato con flebile forza dal Parlamento europeo ma pur sempre rappresentato. Tuttavia è troppo facile tacciare lei, e i tedeschi, di nazionalismo. Il fatto è che da quasi vent'anni la Corte s'accanisce su materie essenziali per noi tutti. Che sovranità possiedono esattamente gli Stati, e com'è esautorata dall'Unione? Il Parlamento europeo ha la forza e le prerogative per incarnare un interesse generale europeo, una sovranità parallela cogente come quelle nazionali? L'unica certezza, nell'odierno turbine monetario, è che gli Stati sono ormai un ibrido: non più sovrani, non sono ancora federali. Di questo si parla a Karlsruhe: non solo di democrazia tedesca, ma del profilo giuridico, costituzionale, politico che dovrà darsi l'Unione: sempre che la si voglia salvare. Che si voglia dire ai popoli il mondo caotico che abitano e come evolverà. La cosa grave è che la Corte discute, sentenzia, in totale isolamento. Nessun'altra Corte, o partito, o governo, ragiona in Europa su tali problemi. Ci si lamenta del peso abnorme dei giudici tedeschi, ma su Unione e sovranità democratica non circolano idee alternative, né tantomeno comuni. Neppure il Parlamento europeo è scosso da accordi (Fiscal Compact, Meccanismo di stabilità ovvero Esm) che di fatto estromettono i deputati di Strasburgo, non essendo Trattati comunitari ma inter-nazionali. L'Unione già si trasforma, influenzando sempre più le vite dei cittadini, ma fino a quando non saranno sciolti i due nodi vitali - quello della democrazia, quello di una Bce che non può intervenire come la Banca centrale americana o giapponese, perché nessuno vuole affiancarle un governo federale - la sua sovranità sarà considerata illegittima, non credibile, sia dai cittadini sia dai mercati. L'indipendenza della Bce è importante, ma a che serve se l'Unione - a differenza dell'America, del Giappone, dell'Inghilterra - non ha il dominio della propria moneta? Uno scettro è stato tolto agli Stati, e giace per terra nella polvere. Solo in Germania è forte, in alcuni dirigenti, l'esigenza di codificare le presenti mutazioni: lo impone il principio di non contraddizione (è impossibile che due proposizioni divergenti abbiano lo stesso significato). Per questo la Corte costituzionale sta lì e si rompe il cervello. Il ministro Schäuble, monotonamente chiamato il falco, lo ha detto in piena crisi dell'euro, il 18 novembre a Francoforte: "Dall'8 maggio 1945 la Germania non è mai stata sovrana (...) Da almeno un secolo la sovranità è finita ovunque in Europa". Di qui la necessità di una sovranità federale superiore: prospettiva invocata in Germania da molti, gradita da pochissimi. Non a caso Schäuble evita la parola sovranità: usa l'indecifrabile termine governance. Ecco un altro concetto senza peso costituzionale. Se è governance, non è vero governo federale. Anche ai vocabolari siamo appesi. Neppure Schäuble tuttavia ha il senso del tempo, così come non lo ha Hollande sullo Stato-nazione. Quel che né Parigi né Berlino vedono, è che il problema della sovranità politica e democratica europea non va risolto in un secondo momento, superata la crisi. Essendo all'origine della crisi, è ora che va risolto. L'interrogativo di fondo (che sovranità spetti all'Unione, come ricucire Nord, Est e Sud) va posto in mezzo al tifone degli spread, prima di espellere un paese del Sud dopo l'altro. Altrimenti non staremmo ad aspettare il verdetto di una Corte costituzionale che mette al centro non i deficit pubblici, ma sovranità e democrazia. Naturalmente l'Europa federale non si farà subito. Ma si può fissare una scadenza, come avvenne con l'euro. Il Parlamento può farsi assemblea costituente, come già negli anni '80. La Bce può riflettere sull'impotenza cui oggi è condannata. I mercati devono capire, finalmente, se l'Unione vogliamo farla o disfarla pezzo dopo pezzo. Cominciando col cacciare la Grecia non avremo un'Unione tedesca. Avremo una non-Unione. Intanto l'unità del continente torna a essere quella degli esordi: una questione di pace o guerra civile, di odii - anche razziali - che crescono per forza di inerzie mostruose. Proprio perché è l'unico paese a pensare costituzionalmente, la Germania ha primarie responsabilità. Non può insistere sull'unione politica, e poi imporre il dogma nazional-liberale della "casa in ordine". Un dogma che sta facendo proseliti: "Abbiamo fatto i nostri compiti: come mai i mercati ci colpiscono lo stesso?". Ci colpiscono perché il compito casalingo non è tutto. Ha detto il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco: "200 punti di spread sono colpa nostra, il resto è dovuto ai problemi comuni dell'euro". È l'Unione che non fa propri compiti. Quando li farà, quando avrà una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, casa in ordine significherà qualcos'altro. Non diminuiranno gli obblighi di ognuno, ma la casa sarà europea e il suo volto muterà.
Bersani, lungo colloquio con Monti. "Stato di allerta, situazione molto seria"
ROMA - "Abbiamo riflettuto assieme su una situazione generale molto molto preoccupante, c'è l'esigenza di dare seguito alle decisioni del vertice europeo e la necessità di uno stato di allerta da parte di tutte le istituzioni". Così Pier Luigi Bersani al termine dell'incontro con il premier Mario Monti. Un colloquio tra il segretario del Pd e il presidente del Consiglio durato circa un'ora. "C'è l'esigenza che si dia seguito alle decisioni del vertice europeo e che ci sia uno stato d'allerta di tutte le istituzioni - sottolinea Bersani - A cominciare dalla Banca centrale europea perché possiamo essere in una situazione veramente molto seria". A complicare il quadro, oltre alle pressioni che arrivano dai mercati, c'è naturalmente la fase di difficoltà interne e in particolare i ritardi nella riforma elettorale e il clima di contrapposizione interno alla maggioranza. "Vorrei richiamare tutti al senso di responsabilità - dice il laeder democratico - non so se non c'è più una maggioranza o ne abbiamo addirittura due. Se vediamo, come ieri, riproporsi la vecchia maggioranza, questo non è certo salutare né per stabilità né per il governo né per nessuno". Bersani definisce quindi "vergognosa" l'approvazione da parte di Pdl e Lega del semipresidenzialismo. Banco di prova sarà la nuova legge elettorale. "Non intendiamo essere portati a spasso", mette in chiaro il segretario del Pd. "Abbiamo presentato proposte, siamo flessibili e pronti a stringere, ma non accetteremo che la prossima settimana il Senato vada in vacanza, si deve discutere di legge elettorale". "Arriveremo presto a un punto di chiarimento", aggiunge. Sullo sfondo continua a rimanere comunque l'ipotesi di elezioni anticipate. "A settembre-ottobre vediamo com'è, non sappiamo come passiamo agosto. Il dibattito su voto anticipato è stravagante - taglia corto Bersani - Diamoci una legge elettorale per permettere all'Italia di decidere, degli strumenti per governare il Paese e poi si vede". Ma se i rapporti con il Pdl si vanno facendo sempre più tesi, motivi di attrito non mancano neppure con il governo. Riferendo dell'incontro con Monti, Bersani precisa che "abbiamo parlato in particolare della 'spending review', ho fatto presente che ci sono cose che sosteniamo e vogliamo rafforzare e cose che vanno corrette". "Contiamo in questi giorni - prosegue - che su un paio di punti ci sia una riflessione molto attenta, innanzitutto sul tema degli enti locali e sui risparmi della sanità. Così non va bene. Risparmiare si può, ma non così, non in questo modo. Tenendo i saldi, perché non siamo agit prop, siamo un partito di governo".
Padri divisi nella fabbrica di cioccolato. "Lascio il posto a mio figlio, anzi no"
Jenner Meletti
SAN SISTO (PERUGIA) - Un bicchiere di bianco al bar, a fine turno. "A me questa proposta piace. Mio figlio ha 29 anni e non trova nulla da fare. Un call center prima, la consegna di lettere per una posta privata, tutto il giorno in giro a sue spese per portare a casa venti euro quando va bene... Con la proposta della Nestlé, io avrei meno soldi ma anche meno ore di lavoro, e lui avrebbe finalmente uno stipendio, sia pure basso, e anche i contributi". Fa discutere molto, l'idea della Nestlé, di trasmettere quasi in via genetica parte del lavoro dei padri ai figli disoccupati. I sindacati, compatti, hanno già alzato le barricate, e dicono che "solo qualche disperato può accettare una cosa come questa". "Facendo i conti - dice Sara Palazzoli, della Flai Cgil - si scopre che tagliando lo stipendio del papà e chiamando al lavoro il figlio a paga ridotta, invece di produrre ricchezza "famo du poveri", creiamo due poveri". L'uomo che beve il bianco non la pensa così. "Nessun nome, per favore. Qui ci conosciamo tutti e l'altro giorno in assemblea tutti abbiamo detto no alla Nestlé. Domani faremo anche sciopero. Ma io credo che per mio figlio entrare qui sarebbe un passo avanti. Sei assunto per pochi mesi ma intanto ti fai conoscere, e se la crisi passa hanno già il tuo nome". Anche A., una sua collega, vorrebbe lasciare una fetta di lavoro e di busta paga alla figlia. "Ho 57 anni, tagliare 10 ore alla settimana non sarebbe male. Il lavoro non è pesante ma si fanno i turni, giorno e notte. E poi la mia ragazza vorrebbe mettere su casa". "Quanti sono quelli che possono passare il lavoro ai figli? Noi - raccontano Andrea Rosigni e Marco Ballerani, della Rsu - non abbiamo nemmeno fatto i conti, tanto la proposta l'abbiamo respinta. Ma in questi ultimi anni quattrocento lavoratori, i più anziani, sono andati prima in mobilità e poi in prepensionamento (e fra di loro ci sono anche molti esodati). Noi pensiamo che l'età media sia sui trentacinque anni, e che i lavoratori che potrebbero chiamare qui i figli non siano più di una quindicina". Voci diverse, e soprattutto numeri diversi, arrivano dal quartier generale della Nestlé a Milano. "A noi risulta - dice Gianluigi Toia, direttore Industrial Relation della multinazionale - che l'età media di chi è assunto a tempo pieno e indeterminato (è a loro che facciamo la nostra proposta) sia di 50 anni. E secondo i nostri conti sono almeno 100 i figli dei dipendenti che potrebbero entrare in azienda. La Perugina è una fabbrica di cioccolato, e il prodotto, per essere venduto, deve essere fresco. Per questo abbiamo bisogno di più gente in un periodo più limitato, quello prima della consegna. Ci sono operai che aspettano la pensione e con le nuove leggi non possono riposare. Allo stesso tempo impediscono l'ingresso di forze fresche. Perché non chiedere loro di ridurre le ore settimanali da quaranta a trenta, con la possibilità di offrire uno stipendio ai loro figli? Si fa presto a fare i conti: il padre perde il 25% del salario ma il figlio ha uno stipendio pari al 75% di quello a tempo pieno. In pratica, in una famiglia, invece di uno stipendio ne arriva uno e mezzo". Non si fermerà a Perugia, la proposta della Nestlé. "In Italia - dice Gianluigi Toia - abbiamo 5.600 dipendenti e fra di loro, anche qui in centrale, ci sono quelli che sognavano di andare a casa a 55 anni e invece debbono aspettare una decina d'anni. Anche a loro faremo discorsi simili a quelli di Perugia, magari non legati soltanto al passaggio dai padri ai figli. Potranno fare anche i tutor dei giovani, seguirli nei primi mesi... L'accusa di fare entrare in azienda solo i figli dei dipendenti? Non è automatico. Chi accetta la riduzione d'orario chiede l'ingresso del ragazzo ma saremo noi a valutare. Se non va bene, il figlio resta a casa, il padre continua a lavorare al 100% e tutto è come prima". Entri nella "Fabbrica del cioccolato" - nata nel 1907 - e sembra davvero di essere dentro un film. Chi visita il museo storico (ingresso 5 euro) cammina su una lunga passerella che dall'alto mostra ogni momento della lavorazione. Nastri trasportatori pieni di Baci Perugina, cioccolatini che vengono messi nelle scatole da ragazze e signore con grembiule bianco... Per gli operai la fabbrica è stata anche un sogno. Ci sono l'asilo nido, il centro estivo per i figli dei dipendenti che chiude soltanto quando finisce il turno in fabbrica, alla mensa puoi scegliere fra tre primi e tre secondi. Ci sono anche i polipetti al guazzetto e il tutto costa 60 centesimi di euro. "E adesso - raccontano gli operai Alessio e Loris - questa grande multinazionale salta fuori con questa proposta degna di un supermercato. Compri due, paghi uno, solo che qui tutto è rovesciato. Paghi uno e fai lavorare due. E non è solo questione di stipendio: se accetti, ti mangi anche un bel pezzo di pensione. Questo è un discorso da bottegai, non da multinazionale". Più che rabbia, c'è delusione. "I lavoratori - dice Sara Palazzoli - si sentono messi da parte, come se da 105 anni non contribuissero a fare grande la Perugina. Credo che il passaggio padre-figlio sia solo uno specchietto per le allodole. Nello stesso piano la Nestlé ha proposto cose ben più pesanti. Per la bassa stagione, da marzo a giugno, ha chiesto i contratti di solidarietà. Si lavora meno, si lavora tutti, e si porta a casa il 40% in meno. Quando la produzione si alza, ecco allora l'orario 6 per 6, sei ore al giorno per sei giorni. Così lavori anche il sabato e non ti pagano lo straordinario. Resti in fabbrica per 36 ore e per essere pagato le 40 del contratto devi metterci tu quattro ore di ferie. Anche in passato abbiamo accettato contratti come il 6 per 6, ma solo per certi reparti, come le uova di Pasqua, che avevano bisogno di crescere. Ora si vogliono soltanto tagliare i costi. E non si fanno progetti veri. La Nestlé investe 500 milioni nel caffè in cialde in Spagna, Inghilterra e Germania, e nulla qua da noi. Queste sono le cose da discutere". Finisce un altro turno. "Non voglio rinunciare ai miei diritti", dice Gianna. "A mio figlio continuerò a passare parte del mio stipendio". C'è ancora orgoglio, nella fabbrica del cioccolato. "Ma lo sa che i Baci si fanno a colata, non con lo stampo? Lo sa che nessuno è uguale all'altro?".
Corsera - 25.7.12
Un'antica diversità - Ernesto Galli della Loggia
Almeno un merito alla crisi economica che oggi squassa l'Unione Europea va riconosciuto: quello di obbligare a ripensare dalle fondamenta il modo in cui essa è nata e cresciuta. Solo così sarà possibile trovare una via d'uscita. Ma è un compito che tocca alle opinioni pubbliche, agli studiosi e agli osservatori indipendenti, dal momento che le leadership politiche europee lo evitano accuratamente, impegnate come sono ad impiegare il proprio tempo unicamente nel rimbalzare da un vertice all'altro, indicato ogni volta come risolutivo e ogni volta, però, destinato a non risolvere nulla. Ripensare la costruzione europea, dunque. Oggi è chiaro, ad esempio, che alla sua origine vi fu un atto di temeraria cecità geopolitica. La conclusione della II Guerra mondiale e il sequestro da parte dell'Unione Sovietica dell'intera parte orientale del continente furono l'elemento decisivo che portò a considerare Italia, Francia, Germania e Benelux come realtà omogeneamente «europee ». In verità esse lo erano solo per un motivo: perché tutte erano allora gravitanti nella sfera d'influenza degli Stati Uniti, non per altro. Solo la riconosciuta egemonia americana da parte delle loro classi dirigenti dell'epoca conferiva insomma a quell'organismo un carattere «occidentale». La concezione dell'Europa alla base dei Trattati di Roma cancellava di fatto almeno due aspetti decisivi: l'esistenza da un lato di un'«Europa mediterranea » (allora soltanto l'Italia, ma che con Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro sarebbe poi divenuta una realtà di rilievo), e dall'altro di un'«Europa tedesca » incentrata sulla Germania ma in realtà estesa dalla Scandinavia all'Olanda, all'Austria, alla Slovenia. Quella concezione cancellava l'esistenza di due Europe con storie, società, tradizioni assai diverse. Due Europe da secoli unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti: con la differenza, però, che i primi erano patrimonio quasi esclusivo di ristrette élite, mentre i secondi, invece, avevano radici vastissime e profonde. Due Europe, la cui esistenza effettiva la Comunità prima (la Cee) e la Unione dopo (la Ue) sono riuscite ad occultare, per anni e anni, servendosi sia di un fragile mantello ideologico - l'«Occidente» - sia di una apparentemente più solida prospettiva generale, l'economia: tutta l'area comunitaria s'identificava infatti con il capitalismo, era interessata al suo sviluppo, si riconosceva nelle sue regole. Ma sia il mantello ideologico che la prospettiva generale appaiono oggi in frantumi: finito lo scontro Usa-Urss, l'«Occidente» è divenuto una categoria sempre più evanescente; mentre l'economia, sottoposta alle tensioni della globalizzazione, si sta rivelando un fattore assai più di scollamento che di unificazione. E così oggi riprendono il sopravvento la geografia, la politica e con esse la storia. Sulla finta capitale Bruxelles riprendono il sopravvento le capitali vere del continente: Berlino, Parigi, Madrid, Roma. E torna a prevalere una diversità antica. Oggi, infatti, riappare in tutta la sua drammatica evidenza la diversità tra l'«Europa tedesca » e l'«Europa mediterranea » (con la Francia a metà tra le due); a complicare ulteriormente le cose ci si aggiunge pure, grazie al dissennato allargamento a Est, la radicale diversità dell'«Europa balcanica». Qui da noi, nell'«Europa mediterranea », la modernità democratica è nata assai di recente dovendo fare i conti non solo con passati fascistico-autoritari - dalla Grecia alla Spagna, all'Italia appunto - ma con società dai caratteri per più versi ostili ovvero estranei ai suoi valori, nelle quali dominavano antiche e diffuse povertà, una debole cultura civica, legami personali soverchianti e insieme l'individualismo più restio, particolarismi tenaci, una tradizione di governo lontana dallo Stato di diritto. Tutti questi elementi hanno consentito, sì, che i meccanismi consensualistico- democratici si affermassero, ma al prezzo di un ruolo crescente e pervadente dell'intermediazione politica. A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare fin dall'inizio, e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando uno spirito pubblico conseguente. Così come le sue classi politiche sono state progressivamente spinte a occupare spazi collettivi di ogni tipo (spesso addirittura a crearli) facendosi forti per l'appunto delle risorse di cui avevano la disponibilità. La bancarotta della Grecia, la drammatica crisi finanziaria esplosa contemporaneamente in molte, importanti autonomie locali di Italia e Spagna, unitamente all'immane debito pubblico e privato di entrambi i Paesi, sono di certo un fatto di malcostume e di leggerezza dei loro governanti. Ma non solo. Rappresentano anche la realtà di una condizione storica: della condizione storica in cui si è affermata la democrazia in questa parte del continente. È ovvio che i «mercati» non se ne curino più di tanto. È invece sbagliato che noi, cittadini dell'Europa mediterranea, a cominciare da noi italiani, non facciamo nulla per spiegare queste cose ai nostri amici europei, ai nostri amici tedeschi: che per esempio non impegniamo in questo senso la nostra diplomazia con un'appropriata azione culturale. Sia chiaro: non per invocare impossibili indulgenze (con la mafia e la corruzione, per esempio, dobbiamo solo impegnarci più che mai a farla finita), ma per ricordare che in Europa la democrazia non è una pianta autoctona. Per radicarla c'è stato bisogno qualche volta di un deficit di duemila miliardi, altrove il prezzo è stato Auschwitz, quasi dappertutto è stato necessario il vento d'oltreoceano. I conti dell'Europa con la democrazia non cominciano con la Cee o con la Ue. Vanno fatti su archi cronologici un po' più ampi, perché vanno fatti con la storia. E allora forse si vedrebbe che ad averli davvero in ordine quei conti siamo in pochissimi.
Squinzi: siamo nella tempeste e serve coesione
«La situazione è complicata e abbiamo bisogno di molta coesione, siamo su una barca nella tempesta e dobbiamo remare tutti nella stessa direzione» avverte il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Un appello all'unità politica che è ripreso anche dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani che martedì ha incontrato il premier Mario Monti: «La situazione generale è naturalmente molto preoccupante e c'è bisogno di uno stato d'allerta da parte di tutte le istituzioni. E penso che se le cose peggiorano ancora, la Banca centrale europea dovrà pensare a intervenire» avverte Bersani. NESSUN BISOGNO DI AIUTI - A margine del premio Imprese per l'innovazione, Squinzi precisa che « l'Italia non è come la Spagna - continua Squinzi - credo che l'Italia sia molto più forte della Spagna: come paese siamo molto più competitivi e molto più forti». «Stiamo fronteggiando un momento difficile, con un impatto diretto sull'economia reale e probabilmente sull'occupazione, ma non prevedo aiuti per l'Italia come ci sono stati per la Spagna, perchè anche se la situazione è molto complessa abbiamo delle fondamenta più robuste». Anche la Germania «non può pensare di sopravvivere da sola», di sopravvivere «a una dissoluzione dell'euro e dell'Europa», conclude Squinzi. SPREAD - «L'aumento dello spread, in mancanza di misure incisive da parte dell'Europa, può avere una sua logica. La mia preoccupazione più grande è che continui l'attacco della speculazione internazionale contro l'Europa ed evidentemente contro l'Italia» dice Squinzi. «Quello che ripeto da un po' di tempo è che dobbiamo guardare con più decisione verso gli Stati uniti d'Europa» aggiunge il presidente di Confindustria rispondendo sulla questione del declassamento del fondo salva stati. COESIONE - Ma Squinzi guarda anche all'Italia, alle responsabilità della politica per uscire dalla crisi. In questo momento così delicato per il Paese, il presidente di Confindustria auspica che la politica dimostri «coesione e compattezza». Rispondendo a chi gli chiedeva se pensa che Monti possa arrivare a fine legislatura, Squinzi ha sottolineato: «Io personalmente i problemi della politica non li conosco e non posso esprimermi. Certo la situazione è complicata e abbiamo bisogno di molta coesione, di molta compattezza». «Siamo su una barca nella tempesta - aggiunge Squinzi - e dobbiamo remare tutti nella stessa direzione». PUNTARE SULL'INNOVAZIONE - «Il nostro paese ce la può fare, basta saper coniugare la parola dell'innovazione» dice il presidente di Confindustria. «Sono convinto che il nostro Paese ce la possa fare se sarà capace di coniugare innovazione e ricerca. Ci stiamo battendo nelle sedi naturali perchè l'impegno delle aziende a fare ricerca non venga penalizzato o messo in un angolo. La disponibilità dei fondi è prossima allo zero assoluto, ma dobbiamo continuare a batterci come imprenditori e investire su ricerca e innovazione» conclude Squinzi.