Politica Italiana
Manifesto - 26.7.12
La rottura del meccanismo monetario - Joseph Valevi
Le politiche di austerità condotte in Grecia, Italia e Spagna stanno aggravando la crisi e la stessa situazione debitoria dei paesi summenzionati. Questo stato di cose comporta la rottura del meccanismo di trasmissione monetaria nell'eurozona. Al grande pubblico non se ne parla ma negli organi più specializzati la rottura monetaria dell'eurozona viene sottolineata ai massimi livelli. La settimana scorsa il governatore della Banque de France Christian Noyer ha concesso un'intervista al quotidiano finanziario tedesco Handesblatt, riportata per intero in francese sul sito della Banque de France (http://www.banquefrance.fr/uploads/tx_bdfgrandesdates/HandelsFR_final.pdf). Dopo aver espresso la sua fedeltà all'euro, Noyer afferma che «la modificazione dei nostri tassi d'interesse centrali (della Bce) non si sta ripercuotendo sull'economia. Per i mercati il tasso applicato alle varie banche dipende dal costo del finanziamento dello Stato e non dai tassi fissati dalla banca centrale». E qui appare la giustissima osservazione che avrebbe dovuto ottenere titoli di prima pagina: «Ciò significa che la trasmissione della politica monetaria non è operante». Vale a dire, la Bce non riesce più a dirigere la politica monetaria dell'eurozona. Noyer sottolinea che tale fenomeno «è inaccettabile per una banca centrale in un'unione monetaria». Il sistema monetario europeo non è dunque più tale. L'unica misura che ottiene la fiducia dei mercati è l'elargizione di soldi direttamente alle banche. Tuttavia, sostiene Noyer, «in futuro non possiamo appoggiarci indefinitivamente su un sistema ove la banca centrale finanza massicciamente il sistema bancario e riceve massicciamente liquidità dall'altro lato del suo bilancio». L'euro è pertanto diventato una mucillagine. Possiamo ora raffrontare le ineccepibili constatazioni di Noyer con l'affermazione con cui Mario Draghi chiude l'intervista a le monde di ieri 24 luglio. L'euro non è in pericolo, afferma Draghi senza addurre alcuna spiegazione economica. Tira invece in ballo l'insindacabilità della classe politica. Citiamolo integralmente: «Si vedono degli analisti immaginare scenari di esplosione della zona dell'euro. Ciò equivale a misconoscere il capitale politico che i nostri dirigenti hanno investito nell'unione e l'appoggio dei cittadini europei. L'euro è irreversibile». Certamente, fino alla sua putrefazione totale, visto che il sistema monetario di cui è espressione non funziona proprio più nelle sue arterie e centri nevralgici principali.
Da Bruxelles via libera al salvataggio delle banche
MADRID - Non è ben chiaro se sia una vittoria o una sconfitta, ma quel che è certo è che dall'Europa arriva il via libera per gli aiuti al sistema bancario spagnolo, ormai in ginocchio nonostante gli eufemismi usati fino a poco fa dal governo del Partido Popular. Respingendo le obiezioni sull'incompatibilità con la normativa comunitaria, la Commissione europea ha infatti approvato ieri mattina il piano di salvataggio che porterà, - una tantum, secondo le intenzioni - nella casse del Frob (Fondo de Reestructuración Ordenada Bancaria) 100.000 milioni di euro: 30.000 arriveranno già entro questo mese. Una boccata d'ossigeno che dovrebbe tamponare le falle di un sistema bancario lacerato dallo scoppio della cosiddetta bolla immobiliare. Il salvataggio, tuttavia, verrà concesso a condizioni molto severe, raccolte in 20 pagine che dovrebbero cambiare il volto della finanza del Paese. Eppure, secondo lo Spagnolo socialista Joaquín Almunia, commissario europeo per gli affari economici e monetari, si tratterebbe solo della «prima pietra angolare sulla quale ricostruire il sistema finanziario su basi più solide». Una pietra pesantissima, però, che si abbatte anche sulla politica economica e sulle istituzioni spagnole che, in cambio del prestito, cedono all'Unione una significativa parte d'autonomia. Sia il sistema finanziario che quello fiscale, infatti, saranno soggetti a ispezioni trimestrali da parte della troika formata da Ue, Bce e Fmi. Parallelamente, su indicazione dell'Unione europea, il ministero dell'economia dovrà cedere alla Banca di Spagna le facoltà sanzionatorie e vari poteri tra cui quello di concedere licenze per nuove entità bancarie. Previsti anche, secondo la volontà di Berlino e Bruxelles, nuovi tagli e ulteriori aumenti della pressione fiscale (in autunno Iva dal 18 al 21%, per esempio). Colpite, ovviamente, in modo diretto, anche le banche: tra le condizioni dettate dalla Ue vi è, infatti, lo stop ai dividendi e ai super stipendi per le banche che ricorrano all'aiuto, le quali, contrariamente alle aspettative del governo, potrebbero essere messe in liquidazione nel caso di perdite troppo ingenti. Si prospettano dunque 18 mesi - questo è il tempo previsto per il pagamento della totalità dei 100.000 milioni del prestito - di grandi assestamenti. Un anno e mezzo durante il quale, ha dichiarato il ministro dell'economia Luis de Guindos, «dovremo sfruttare al massimo il tempo per risanare il sistema bancario». E lo stesso de Guindos, dopo aver incontrato martedì il ministro dell'economia tedesco Wolfgang Schäuble, si è riunito ieri con il suo omologo francese Pierre Moscovici. In Spagna c'è paura e tutte le possibilità sono prese in considerazione: dal fallimento all'uscita dall'euro. Rajoy, da parte sua, ricorre a tutte le sue risorse affinché la Spagna resti in Europa senza dover chiedere il famigerato rescate (salvataggio), che sarebbe letale non solo per l'economia, ma anche per il suo governo.
Barcellona sull'orlo del default punta tutto sull'autonomia fiscale - Paola Lo Cascio
BARCELLONA - All'indomani della richiesta di salvataggio catalana, il parlamento di Barcellona ha votato ieri un documento che chiede a Madrid anche una revisione profonda dei meccanismi di finanziamento della regione. La proposta, presentata dal governo nazionalista di centrodestra, si basa sull'idea che le cosiddette chiavi della cassaforte (cioè dell'agenzia tributaria), siano in mano al governo autonomo e che solo in un secondo momento quest'ultimo trasferirà allo stato le risorse necessarie a pagare i servizi direttamente erogati dal governo centrale, più un cosiddetto contributo di solidarietà interterritoriale. Il voto di ieri è arrivato dopo un lungo negoziato che ha subìto un'accelerazione significativa nelle ultime ore e che ha portato all'accordo in aula degli ecosocialisti e dei nazionalisti di sinistra, l'astensione e il voto contrario nei punti più polemici -quelli, appunto che fanno riferimento ad un'emarginazione di fatto dell'agenzia tributaria centrale-, di socialisti e popolari (che pure, però, hanno votato parti significative del testo). Per ora si tratta solo di un documento che, si dice nel testo, servirà come base per qualsiasi negoziato fiscale con il governo di Madrid e che lo stesso presidente del governo catalano Artur Mas, ha dichiarato in aula di essere cosciente che la proposta sarà difficilmente accettata a Madrid. L'approvazione del testo tuttavia sembra molto significativa da un punto di vista politico almeno per tre ragioni. In primo luogo perché rappresenta una rottura forte che potrebbe cambiare, manuali di scienza della politica alla mano, la stessa configurazione istituzionale dello stato spagnolo, avvicinandolo alla confederazione. I sondaggi hanno il valore che hanno però bisogna ricordare che per la prima volta nella storia, e stando ai dati dell'ultimo barometro del Centro Studi d'Opinione (della Generalitat) di fine giugno, i favorevoli all'indipendenza sono più del 50%, e molti di essi, dichiarano di esserlo per ragioni chiaramente economiche. Questo potrebbe spiegare la seconda ragione dell'importanza del voto di ieri: secondo la maggioranza dei partiti catalani l'enorme buco che ha portato alla richiesta di aiuto dei giorni scorsi, deriva non da una cattiva gestione delle risorse, ma dalla cosiddetta «rapina fiscale» di cui è vittima la Catalogna, che, si dice, contribuisce molto, ma riceve troppo poco. In altre parole, il governo e il parlamento sembrano voler seguire la tendenza registrata dai sondaggi e dire: se le chiavi della cassa le avessimo avute noi ora non saremmo in questa situazione. Infine, il voto di ieri sembra importante perché nel marasma politico e finanziario delle ultime settimane, significa che i catalani hanno una volontà chiara di differenziarsi, di presentarsi direttamente all'Europa, senza il filtro spagnolo, considerato pernicioso. In realtà, quest'aspetto già era sembrato chiaro da tempo. In quel 2011 in cui la politica spagnola sembrava paralizzata di fronte alla crisi, il governo catalano era stato il primo a tagliare, con determinazione e in settori sensibili: sanità, scuola e stipendi dei lavoratori pubblici. Il ragionamento era stato: la responsabilità istituzionale ci impone di tagliare, proprio come fanno i governi degli stati europei ed il governo spagnolo invece non ha il coraggio di fare. L'ultima e forse più clamorosa manifestazione di questa volontà è stata, nei giorni scorsi, proprio il fatto che il governo di Barcellona abbia dato l'annuncio della richiesta di salvataggio attraverso due colossi dell'informazione continentale come France Presse e la Bbc, non attraverso un media spagnolo. Come per dire, a volte la forma è sostanza.
Incentivi a patto di non delocalizzare - Anna Maria Merlo
PARIGI - Incentivi per 490 milioni per favorire l'auto pulita e l'innovazione, in cambio all'impegno a non delocalizzare la produzione, con una dose di domanda di protezionismo europeo, con le accuse alla Corea di «concorrenza sleale», mentre Cédric Klapisch e Luc Besson gireranno degli spot per invitare a comprare auto made in France: ieri, il ministro del rilancio produttivo, Arnaud Montebourg, ha presentato il «piano auto» del governo, mentre Philippe Varin, pdg di Psa, spiegava ai sindacati le ragioni del programma di soppressione di 8mila posti di lavoro alla Peugeot-Citroen. In strada, gli operai di Aulnay, la fabbrica destinata alla chiusura nel 2014, hanno manifestato sotto le finestre della sede parigina di Psa e minacciato: «Saremo il vostro incubo». Aulnay è per tradizione la fabbrica più combattiva di Psa.
Il governo ha presentato un piano per venire in soccorso del settore auto, che in Francia impiega un lavoratore su dieci, anche se, come ha ricordato Montebourg, oggi nel paese si produce un milione di auto in meno di sette ani fa. È un mix di incentivi per favorire l'innovazione e di richieste di contropartite: i bonus per le auto pulite aumentano (da 5mila a 7mila euro per l'auto elettrica, su cui ha puntato Renault, da 2mila a 4mila per l'ibrida, specialità di Peugeot) e dovrebbe essere in parte compensati dai malus su auto inquinanti. Come vera nuova spesa ci sono 120 milioni per la piccola e media impresa dell'indotto auto, dove rischiano di essere persi 3 posti di lavoro ogni riduzione di personale nelle case automobilistiche. Lo stato, poi, si impegna a comprare écolo (il 25% delle nuove auto saranno elettriche o ibride), e viene sovvenzionata anche l'industria di riciclaggio, che dovrebbe permettere nuove assunzioni. Il piano di Montebourg si inserisce nell'ormai troppo lunga serie di sovvenzioni e incentivi che, nel corso degli anni, non sono riusciti a fermare il declino dell'industria automobilistica francese, affetta da un mercato ormai maturo (ci sono 38 milioni di auto che circolano in Francia e gli incentivi non fanno che anticipare le decisioni di acquisto), da case di dimensioni troppo piccole (Renault e Psa) e da una concentrazione nell'offerta di veicoli di piccole dimensioni, che danno meno margini di guadagno ai produttori. Il pdg di Psa, Philippe Varin, ha accolto con sollievo il «piano» che favorisce l'auto pulita - «una cosa eccellente» - e, sotto la pressione del governo, dopo giorni di forti tensioni e rimproveri, ha promesso che cercherà «una soluzione per ogni dipendente» degli 8mila che perderanno il posto e che farà il possibile, senza altre precisazioni, per la «reindustrializzazione» del sito di Aulnay (dove non si produrrà più la C3 dal 2014). La Peugeot ha i conti in rosso, rivela Varin: ha accumulato 819 milioni di euro di perdite nel primo semestre di quest'anno, il fatturato è calato di più del 5% e sono necessarie economie per 1,5 miliardi. I sindacati hanno ottenuto la nomina di un esperto per analizzare la situazione: «Questo rimanda almeno la macchina dei licenziamenti» ha commentato Jean-Pierre Mercier, della Cgt di Aulnay. Per il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, «il governo ha scelto l'offensiva» per frenare le perdite di lavoro nel settore auto. Secondo Marie-George Buffet del Pcf, invece, è solo «un piano parziale». L'ex ministra si chiede: «Cosa dice il governo rispetto al piano di ristrutturazione di Psa? Niente». La destra si rallegra per il fatto che gli incentivi di Sarkozy vengono rilanciati, ma insiste sul fatto che il governo non fa nulla per abbassare il costo del lavoro. È questa una delle cause della crisi, secondo la direzione di Psa, smentita però dalle statistiche europee: in Francia il costo del lavoro non è più alto che in Germania, paese dove l'industria automobilistica è in attivo.
Hollande alla Bce: «Fate presto» - Anna Maria Merlo
PARIGI - La Bce è messa sotto assedio dagli Stati in difficoltà, ora appoggiati dalla Francia. Dopo la gaffe della Spagna, che ha attribuito martedì anche a Francia e Italia un comunicato dai toni più guerrieri che diplomatici (i tre paesi «esigono» l'applicazione degli accordi del Consiglio europeo di fine giugno), ieri il ministro delle finanze di Madrid, Luis de Guidos, in un incontro a Parigi con l'omologo Pierre Moscovici, ha ottenuto dalla Francia l'appoggio a favore di un «negoziato veloce» per il meccanismo di supervisione bancaria: nel comunicato dopo l'incontro parigino è stata aggiunta la precisazione «entro fine anno», che mancava invece in un analogo testo che de Guidos aveva sottoscritto con Wolfgang Schäuble a Berlino due giorni fa. Guindos e Moscovici invitano a «ritrovare la strada per una crescita sostenibile» e assicurano che «è in programma una road map per un'unione economica e finanziaria vera e propria con proposte ambiziose per creare condizioni di solidarietà e al tempo stesso di integrazione». Il comunicato di Bercy fa seguito all'intervento di François Hollande, ieri mattina, che uscito dal suo torpore ha chiesto di «applicare subito i provvedimenti decisi al Consiglio europeo» di fine giugno. La Commissione si è sentita in dovere di rassicurare: «Procediamo a tutta velocità», ha detto un portavoce di Barroso, precisando che il testo per una supervisione unica bancaria sarà pronto all'inizio di settembre. Hollande è accusato in patria dalla destra di «immobilismo» sul fronte europeo. Ma il presidente francese è costretto ad andare avanti con i piedi di piombo, perché non ha ancora messo ai voti il Fiscal pact. Avrà bisogno dei voti della destra per la molto probabilmente necessaria riforma della Costituzione, visto che i Verdi voteranno contro. Il Front de Gauche milita per un referendum sul Patto di bilancio, riesumando la profonda divisione che nel 2005 spaccò il Paese (e la sinistra in particolare) e che si concluse con la bocciatura popolare del Trattato costituzionale. L'appello a fare in fretta è rivolto alla Bce, l'unica struttura in grado di agire con velocità, visto che per il varo del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) bisogna aspettare, se tutto va bene, la sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe, prevista per il 12 settembre e il Fesf (l'attuale fondo salva-stati) non ha quasi più soldi in tasca. Ieri, per di più, Moody's ha rivisto con «prospettiva negativa» il rating Aaa del Fesf. La Bce è stata già sollecitata da più parti, dall'Fmi, che la spinge ad agire, dall'Ocse, dove il segretario Angel Gurria, ha invitato l'istituto di Francoforte a tirar fuori i «bazooka» per mettere uno stop allo spread che subiscono le economie più deboli. La Bce non può comprare debito pubblico direttamente e ultimamente Mario Draghi è molto tirchio anche negli interventi sul mercato secondario. Le pressioni aumentano: la Bce è accusata da alcuni di non rispettare i propri statuti, perché il suo compito è quello di operare per la stabilità dei prezzi: generalmente, si intende l'inflazione, ma degli economisti alzano la voce e affermano che anche i tassi di interesse sono dei «prezzi». Compito della Bce è assicurare la stabilità finanziaria e ormai è sempre più chiaro che un crollo della Spagna, dopo la Grecia, significherebbe un terremoto per tutti, Germania compresa. Lo scontro è forte all'interno della Bce. Ieri, Ewald Nowotny, membro del consiglio dei governatori, ha affermato che «ci sono argomenti favorevoli perché il Mes ottenga una licenza bancaria, il dibattito è in corso», vale a dire possa intervenire direttamente sul debito pubblico dei paesi in difficoltà che stanno facendo «i compiti a casa» (Grecia esclusa, evidentemente, ma non la Spagna, se anche Schäuble è arrivato ad ammettere che «i livelli dei tassi di interesse non riflettono i fondamentali dell'economia spagnola, il suo potenziale di crescita e la sostenibilità del debito pubblico»). Ma per gli ortodossi dare al Mes una licenza bancaria è semplicemente «pornografia». Moody's, mettendo in «prospettiva negativa» il rating Aaa di Germania, Olanda e Lussemburgo, ha di fatto affermato che Berlino corre il rischio di venire «contagiata» dal degrado dei paesi maledetti: è questa purtroppo la tesi della destra euroscettica, che ormai si diffonde in Germania e spinge verso l'egoismo nazionale.
Insieme per forza, avanti senza meta - Micaela Bongi
Avanti fino al 2013, sì ma... Mario Monti in mattinata riceve a palazzo Chigi il segretario del Pd Pierluigi Bersani e, nel pomeriggio, quello del Pd Angelino Alfano. Il presidente del consiglio vuole capire dai leader dei partiti (non da Pier Ferdinando Casini, perché non ne ha bisogno) fino a che punto e con quanta convinzione intendano ancora sostenere l'azione del governo, soprattutto in un momento di pesante instabilità, con lo spread tornato a schizzare (ieri è solo leggermente calato, a quota 520). Da Bersani prima, da Alfano poi, Monti si sente dire e ripetere che una nuova manovra è fuori discussione. Proprio ieri palazzo Chigi ha dovuto smentire di aver pensato al congelamento delle tredicesime di statali e pensionati. Ma al premier Bersani chiede anche di modificare la spending review soprattutto per quanto riguarda i tagli agli enti locali e alla sanità, perché «risparmiare si può, ma non così». E sulla revisione della spesa invita al confronto con i sindacati. Il leader del Pd chiede anche di «dare seguito a tutte le decisione del vertice europeo di fine giugno», invita a battere i pungi sul tavolo con la Germania, e solennemente chiama allo «stato di allerta tutte le istituzioni», a cominciare dalla Bce. Dal canto suo, il premier cerca di ridimensionare la gravità del momento, e dice di confidare nei suoi prossimi appuntamenti europei. Quanto alla tenuta della maggioranza, «non so se abbiamo ancora una maggioranza o ne abbiamo due, ne abbiamo in abbondanza», commenta il segretario del Pd. Perché a palazzo Madama Pdl e Lega vanno avanti e approvano definitivamente in prima lettura la fanta-riforma istituzionale che prevede il semipresidenzialismo e il senato federale. E a sera, dopo l'incontro tra Alfano e Monti, l'aula della camera approva il decreto sviluppo con mezzo Pdl assente (84 più 7 in missione su 209 deputati). Il provvedimento passa con 382 sì. Il partito di viale dell'Umiltà del resto è sempre più in subbuglio e Silvio Berlusconi (che per evitare di sbilanciarsi sui temi all'ordine del giorno diserta la conferenza stampa con Alfano sulle riforme) studia tutte le opzioni in campo, compreso il voto anticipato e una eventuale riedizione delle larghe intese che non lo escluda. Dunque, Alfano non può più di tanto fornire rassicurazioni a Monti. Anche se, in conferenza stampa dopo il colloquio con il premier, spiega di aver garantito l'appoggio al governo fino al 2013, aggiungendo comunque che «noi diremo no a manovre di sacrifici». E su questo Monti avrebbe tranquillizzato gli interlocutori. Il segretario del Pdl nega invece che il premier abbia messo sul tavolo l'eventualità di elezioni anticipate, che però resta in campo. Secondo le voci dei palazzi Monti avrebbe detto a Giorgio Napolitano che il suo mandato è «pressoché esaurito», tuttavia non può avere certezze su una crisi pilotata per un suo ritorno a palazzo Chigi. Solo Casini insiste su quello che chiama «patto di serietà e responsabilità» anche per il futuro, sostenendo che «non bisogna tornare a feticci di coalizioni dell'uno contro l'altro». Viva il partito unico di Super Mario, insomma. Ma Bersani - che a differenza di Alfano non esclude un ritorno alle urne in novembre ma anzi dice «diamoci una legge elettorale e poi si vede» - non si iscrive a quel partito. «La gente ci chiede dopo Monti cosa c'è - dice - perché pensa che questa è una situazione eccezionale. E non è questione di Monti, ma è questione che serve una maggioranza politica univoca, che prende una strada e la percorre fino in fondo». Le diverse opzioni si riflettono ovviamente nella discussione sulla legge elettorale, che per Bersani deve contenere un premio di maggioranza tale da «determinare un rilevante, rilevantissimo azionista di riferimento intorno al quale costruire il governo». Anche a Monti il leader del Pd assicura la volontà di modificare il Porcellum. Del resto il pressing del Quirinale è incessante. Ma l'intesa tutti i giorni sembra a portata di mano, e poi subito torna in salita. Tanto che stessi ospiti di palazzo Chigi, Bersani e Alfano, nel pomeriggio incrociavano pubblicamente e sonoramente le spade sulla questione. Il segretario del Pd si è intrattenuto lungamente con Casini e Gianfranco Fini sulla riforma, e si parlava di un'intesa almeno tra i tre. A questo punto - mentre il «provincellum» sembrava a portata di mano - nel Pdl si temono trappoloni e si rompono le comunicazioni. Alfano torna pure a insistere sulle preferenze, per evitare - si dice - la rottura con gli ex An pronti a imboccare la porta. Ma soprattutto è ancora il premio di maggioranza e la sua entità a dividere. Il Pdl, che parte svantaggiato e teme di restare nell'angolo, non lo vuole troppo alto e chiede che sia attribuito non alla coalizione, ma al primo partito. Insomma, la giornata del «quasi-accordo» finisce in rissa. E così dopo il suo primo giro di orizzonte Monti deve prendere atto che la sua maggioranza è sempre più strana.
Una città nella crisi dei trent'anni - Gabriele Polo
TORINO - Renato C. osserva le «offertissime» del giorno. Al supermercato Lidl di via Carlo Alberto oggi si va da un euro al chilo per i pomodori a 99 centesimi per 250 grammi di tortelloni ripieni. Niente male anche il chilo di spaghetti a 65 cent: «I tuoi simili li incontri qui, al supermercato, e li riconosci da come guardano i prezzi». Renato è un ingegnere laureato al Politecnico, poco più di cinquant'anni, vive da sempre nel centro di Torino a due isolati dal «salotto» cittadino, piazza San Carlo. Da sei mesi è disoccupato, licenziato da una microimpresa della subfornitura meccanica andata in tilt. Ogni giorno viene qui, sotto casa, in un discount che per pudore si chiama supermercato. E ci passa almeno un'ora - «tanto di tempo ne ho» - a scegliere le convenienze per tirare avanti cercando di spendere il più lentamente possibile quel che resta della liquidazione e ciò che arriva da qualche lavoretto in nero (l'ultimo a maggio). Lì, a cinquanta metri dall'hotel Sitea, quattrostelle da 200-250 euro a notte e a cento passi da Eataly, il negozio-ristorante del mangiar bene con i pomodori a 4,50 euro al chilo, la pasta ripiena a 22, gli spaghetti a 5,60. Mondi frequentati un tempo, per alloggiar clienti e pranzarci assieme. Non ora, non più. Adesso i suoi luoghi sono scaffali grigi e un po' vuoti ma almeno più sicuri rispetto al SisalMatchpoint, aperto proprio lì di fronte, con le scommesse a perdere, le slot machine e la disperazione di chi ci entra ed esce con lo sguardo vuoto come le tasche o la nevrosi del colpo mancato d'un pelo. Scaffali-rifugio contro la tentazione di uno qualsiasi tra i sessanta «compro oro e pago in contanti» che segnano la città del debito, intascando collanine o anelli di un passato dignitoso in cambio di 38 euro il grammo per pagare una multa che s'è gonfiata troppo o un dente che proprio non si può far a meno d'aggiustare. Luoghi in cui non vuole cadere - per scampare il pericolo delle illusioni. Non ora, non ancora. Tra qualche giorno l'ingegnere disoccupato metterà un altro tassello alla sua strategia del risparmio e traslocherà in periferia, in un appartamento più piccolo e più economico, più adatto a chi è stato lasciato da moglie e figli, prima che il padrone di casa chiami l'ufficiale giudiziario, cosa ormai frequente, visto che Torino - con 105.000 vani vuoti, tra alloggi e negozi - è al secondo posto in Italia in quanto a sfratti per morosità (2.523 nel 2011), ma in rapporto al numero di abitanti supera Roma e conquista la vetta della classifica. Vecchi e nuovi poveri. Renato C. è un «nuovo povero», uno dei 10.000 censiti nell'ultimo anno dalla Caritas. Un «soggetto a rischio», più dei «tradizionali» clochard perché non è abituato alla povertà, caduto improvvisamente e in quella caduta ha perso gran parte delle sue relazioni sociali. A Torino ci sono 100.000 poveri, il 12% della popolazione: 2.000 vivono per strada, sono i «poveri assoluti», senza alcuna risorsa se non la carità: più di 60.000 sono quelli che vivono con 3/400 euro al mese, molti pensionati, disabili, anziani soli che hanno un alloggio e integrano la miseria con i sussidi e ricorrendo alle mense. Poi ci sono i «relativamente poveri», quelli che secondo l'Istat in Italia sono più di otto milioni, appena sotto la soglia di povertà (1.011 euro per una famiglia di due persone): a Torino sono più di 40.000, tra loro i «nuovi» come Renato, persone che hanno già perso il lavoro o sono sul punto di perderlo non avendo prospettive una volta consumati i risparmi o la cassa integrazione. «Ma, attenzione - mette in guardia Pierluigi Dovis, direttore della Caritas cittadina - qui a Torino la "caduta" è iniziata prima dell'ultima grande crisi economica, da almeno vent'anni assistiamo a un aumento qualitativo e quantitativo della vulnerabilità sociale». Vuol dire che 100.000 poveri sono la dote sociale con cui Torino si presenta alla grande crisi di oggi «causa la perdita di competitività industriale e culturale di un bacino produttivo che dal capoluogo si estende ad Alessandria e a tutto il nord Piemonte», spiega Dovis. Dall'industria alla rendita. Scorrono nella mente trent'anni di tagli. Il dimagrimento portato all'anoressia della Fiat (dai 24.000 operai espulsi nell'autunno '80, fino all'ultima cassintegrazione di Mirafiori, passando per la cancellazione persino dalla memoria di tutti gli altri stabilimenti dell'auto e non solo, da Lingotto a Rivalta, dalle officine ferroviarie alla siderurgia); la caduta uno a uno di «grandi carrozzieri» come Bertone e Pininfarina (la prima conquistata per due soldi da Marchionne, la seconda trasformata in De Tomaso e appena truffata da Rossignolo); la fuga altrove di stilisti come Giugiaro (verso la Germania); lo svuotamento industriale, poi persino finanziario, fino alla cancellazione del marchio Olivetti di Ivrea, con l'ex cuore dell'informatica italiana ridotto ad archelogia industriale (oggi la Confindustria del Canavese è non casualmente presieduta da un fabbricatore di gabbiette per tappi da spumante). La lista potrebbe continuare a lungo, ricostruendo un'era di grandi dismissioni e relative riconversioni alla rendita fondiaria, il tutto felicemente mascherato con i miti della città - di volta in volta - «turistica», «culturale», «olimpica». Di certo c'è che l'aver mandato in soffitta la vecchia monocultura industriale targata Fiat non ha liberato le menti a sufficienza da poterla sostituire con qualcosa di altrettanto «pesante». Così la sensazione di «leggerezza» degli anni '80 e '90 ha, secondo Dovis, «generato in città una doppia illusione: da un lato quella che, liberata la città dalla monocultura dell'auto, prima o poi sarebbe spuntato un nuovo sviluppo industriale; dall'altro che i servizi e l'edilizia avrebbero compensato ciò che si stava perdendo. E le classi dirigenti hanno coltivato e nutrito questa illusione». Per questo Torino arriva in pessime condizioni all'appuntamento con la grande crisi globale. E le figure a rischio come Enrico C. sono destinate a prolificare. L'illusione di cui parla il direttore della Caritas la ritrovi in cemento e asfalto lungo la «spina» che taglia in due la città, da nord a sud, seguendo quella che un tempo era l'area industriale sorta attorno e insieme alla linea ferroviaria oggi «interrata». Una traiettoria curva - in rottura con al pianta ortogonale della città - ancora piena di lavori in corso, tra boulevard più rumeni che francesi tanto assomigliano a tangenziali, grattacieli in costruzione, stazioni ferroviarie che interrandosi lasciano sopra si sé cumuli di terra secca, parchi teconologici utilizzati a singhiozzo e parchi verdi che sembrano piazze d'armi, milioni di metri cubi di cemento per dar corpo a caseggiati - spesso bruttini e molto disabitati - e centri commerciali addossati gli uni agli altri. «Ma bisogna immaginare il tutto tra una decina d'anni, quando le opere saranno completate, le abitazioni riempite e gli alberi cresciuti», spiega l'ex sindaco Sergio Chiamparino uno dei governatori di questa trasformazione. E avrà pure ragione ma, per ora, i vuoti sono più d'uno: dai 3,3 miliardi di rosso del bilancio cittadino ai tanti vani sfitti, dalle strade che sembrano portare verso il nulla all'assenza di un'idea che sia una di nuovo sviluppo, visto «che - come ammette lo stesso Chiamparino - per vent'anni abbiamo tenuto su la città con gli investimenti pubblici per risanare il territorio, far crescere il turismo e i servizi. Ma non si può andare avanti così e ora bisogna saper attrarre nuovi investimenti per il rilancio della manifattura». Quella giudicata troppo pesante e senza futuro nei progetti degli anni '90. Quando Valentino Castellani, ingegnere del Politecnico, diventato sindaco per il centrosinistra, cementificò l'ideologia degli anni '80 - da company town a città dei servizi - con la moltiplicazione delle volumetrie per rendere più convenienti gli investimenti pubblici e privati che dovevano riempire almeno cinque dei dieci milioni di aree industriali dismesse. In buona parte dalla Fiat - nelle sue varie versioni - che con il cambiamento di destinazione d'uso dei terreni di sua proprietà (da industriale a commerciale) ha messo in cascina un bel po' di valore aggiunto. Bello sarebbe sapere quanto, non ci fossero società di comodo e scatole cinesi a insabbiare tutto. Camminando nel vuoto. «Teksid, Ferriere, Officine Savigliano, Grandi Motori, Michelin.... dove c'era l'industria ora c'è solo rendita. E non funziona neanche un granché». Il panorama tra corso Mortara e via Cigna conferma le parole di Marco Revelli. Basta entrare nel guscio - rimasto intatto - delle ex Officine Savigliano, tra negozi, bar e sale giochi che non trovano clienti o giocatori; o guardare il vuoto dello scarno parco di fronte su cui incombono quintali di materiale che le Fs non hanno ancora smaltito e sistemato (come da patto, non scritto, con il Comune) dopo l'interramento della stazione Dora; oppure censire i tanti alloggi vuoti tra tre megacentri commerciali addossati l'uno sull'altro. Il passante ferroviario - con i suoi 2 miliardi di spesa - è stato il volano di tutto questo. «Che idea c'era alla base di quest'operazione di riurbanizzazione?- si chiede Revelli - Essenzialmente speculativa». E racconta quando, in consiglio comunale, arrivarono gli uomini di Franco De Benedetti a chiedere il cambio di destinazione d'uso, da industriale a commerciale, dei terreni su cui c'era la «sua» Superga, con annessa triplicazione delle volumetrie. In cambio prometteva di ricollocare in un outlet - in tutt'altra parte della città - gli 80 dipendenti della fabbrica in chiusura, passandoli anche loro da «industriali» a «commercianti» (ribasso contrattuale compreso). Cosa che trovò il consenso dei sindacati «per causa di forza maggiore». E' questa riconversione della città che ha creato le premesse per la lunga crisi sociale denunciata dal direttore della Caritas. Un'illusione di postfordismo trasformata in rendita e cemento che però oggi presenta il conto. Anche se non tutti sembrano rendersene conto. Lo denuncia Giorgio Airaudo, che come sindacalista metalmeccanico di recriminazioni ne può fare parecchie: «Mentre la Fiat se ne va e dall'estero si fa shopping nell'indotto, la città e soprattutto le sue elites rifiutano di guardare in faccia il declino e preferiscono insistere sulla vecchia strada e sui vecchi miti di cui la Tav è emblema e feticcio». Lo lamenta Maurizio Magnabosco, che come manager un tempo dell'auto e oggi dei rifiuti, qualche confronto tra ieri e oggi può farlo: «Mirafiori era un catalizzatore fortissimo di energie economiche. E' illusorio pensare che possa sparire trovando fuori dal manifatturiero qualcosa che ne sostituisca i volumi e la densità. Servirebbe una programmazione che mescoli industria, ricerca, servizi. Ma oggi sono in crisi tutte le forme di rappresentanza, politica e sociale. Difficile trovare una via d'uscita e così stiamo semplicemente consumando ciò che avevano accumulato i nostri padri». Il consumo di cui parla Magnabosco è documentato anche dai numeri che accompagnano la crisi attuale, quella che farà lievitare il numero degli Enrico C. Il Pil italiano quest'anno chiuderà in negativo, e molto sopra la previsione ufficiale del 2,5%: in via riservata il presidente di Confindustria Squinzi parla di un -3,5%. In Piemonte andrà pure peggio, basta pensare che il primo trimestre dell'anno ha segnato un meno 3,6% (a Torino città meno 3,9%) e col passare dei mesi la situazione (insieme agli ordinativi e al fatturato dell'industria) sta peggiorando. Torino è ormai scivolata al 26° posto della classifica della ricchezza italiana (26.130 euro il valore aggiunto procapite). Il saldo tra natalità e mortalità d'impresa nel primo trimestre 2012 è stato negativo (-3.215), con un incremento dei fallimenti e la tendenza a investire poco. La spesa delle famiglie per i consumi è diminuita dell'1% e quella per investimenti in macchinari e attrezzature dell'8 per cento. Il saldo tra import ed export è peggiorato, era di quasi 4 milioni nel 2000, l'anno scorso è stato di 2 milioni 900.000. Le ore di cassa integrazione in provincia di Torino nel 2011 sono state più di 92 milioni, quasi tutte straordinaria o in deroga, cioè di imprese al limite della chiusura (dieci anni fa le ore di cig erano state 15 milioni, soprattutto ordinaria, cioè momentanea).Cresce il tasso di disoccupazione: 9,2% in provincia di Torino (dieci anni fa era al 5,1%), 7,6% in Piemonte (nel 2002, 4%). Tutti numeri brutti, cui si aggiunge una cambiamento degli equilibri economici che vede in costante regresso il peso dell'occupazione industriale, 308.000 tra operai, impiegati e artigiani nel 2011, 348.000 dieci anni fa: 40.000 posti in meno nella manifattura, che coincide con il totale dei posti di lavoro persi nel torinese. Ecco la casella statistica dove collocare la storia di Renato C: l'aumento della disoccupazione arriva quasi interamente dall'industria, dove l'entità della cig (che a un certo punto finisce) prelude a una nuova ondata di persone «parcheggiate fuori dal circuito lavorativo», di «nuovi poveri» per tornare alla Caritas e al suo direttore: «C'è un'intera generazione, oggi tra i 45 e i 60 anni d'età, che con il lavoro rischiano di perdere la famiglia, le relazioni e cadere in depressione. Un decadimento che li blocca sotto ogni punto di vista - continua Dovis - anche perché in questo dopoguerra la cultura industriale prevalente ha insegnato a gestire il lavoro, l'impresa o parte di essa, ma non a "fare impresa" o a costruire il proprio lavoro. Dal nostro osservatorio notiamo che i nuovi poveri non socializzano tra loro, non si coalizzano, tendono a isolarsi. Basta un esempio: il 70% delle richieste per il microcredito d'impresa che abbiamo istituito con Dieci Talenti, viene dagli stranieri. Gli italiani si lasciano andare». Tutto perfettamente coerente con gli investimenti che hanno cambiato la faccia di Torino senza creare socialità o nuovo lavoro (se non provvisoriamente con l'edilizia e i grandi eventi), «senza creare rete», per usare il linguaggio di Dovis. Cui oggi - attraverso la Caritas e l'Ufficio Pio della Compagnia di san Paolo (2 e 11 milioni, i rispettivi bilanci) - il pubblico chiede sempre più di supplire per l'assistenza: la regione Piemonte quest'anno ha ridotto la spesa assistenziale da 180 a 60 milioni di euro (risaliti a 170 «rubando» alla sanità), il prossimo anno promette solo 44 milioni; il comune di Torino, con tutte le sue passività, annuncia un taglio di 20 milioni. Come se non bastasse il freno costituito dalla «vergogna» (a volte si finisce dagli strozzini per nascondere la propria condizione), i vincoli di bilancio rendono quasi impossibile la vita ai nuovi poveri, cacciandoli in un circolo vizioso: «L'emarginazione dal lavoro e il sentirsi un peso ti spinge giù. Guardi in basso, con gli occhi e con l'anima. Quando cammini per strada e quando cerchi qualcuno con cui parlare eviti chi sta meglio di te, semmai cerchi chi sta peggio». La vergogna di Renato C, secondo Dovis la provano a loro modo anche le istituzioni cittadine, che «non vogliono vedere la povertà, la negano, considerano un danno parlarne, fare qualcosa per riconoscerla e contenerla. Non è solo un freno che arriva dai bilanci in difficoltà. E' un'ipocrisia coerente con l'immagine che si vuol dare della città». Quella delle Olimpiadi, dei grandi eventi, del 150° dell'Unità italiana. La città della cultura, del turismo e del tempo libero. Ma nonostante tutti gli sforzi promozionali fatti (e il miliardo e 300.000 euro di investimenti olimpici) non abbiano lasciato molto. Torino resta indietro nella classifica turistica nazionale con 1,4 milioni di arrivi nel 2011 (per dare un'idea a Roma ce ne sono stati 10,4, a Firenze 4,2, ma anche Bologna è messa meglio con 1,6 milioni), quasi tutti italiani, il 63% piemontesi. Ci si viene essenzialmente per visitare il Museo egizio con un turismo «veloce» - presenza media 2 giorni - segnalato anche dal mancato decollo dell'Aeroporto di Caselle, «i cui transiti - ricorda Maurizio Magnabosco, che nell'intermezzo tra la Fiat e i rifiuti ha amministrato lo scalo - sono essenzialmente per motivi d'affari». In termini relativi la cultura a Torino produce il 5,6% del Pil cittadino e il capoluogo Sabaudo è al 14° posto nel «Rapporto Symbola» sull'industria della creatività italiana, preceduta non solo dalle altre grandi città, ma anche da centri minori - ma molto più attivi culturalmente - come Macerata, Arezzo, Vicenza, Treviso, Pisa, Pordenone. Non più, non ancora. Non più manifatturiera, non (almeno non ancora) città del terziario «alto», che fare di Torino per attutire la crisi che sta esplodendo? Mentre l'attuale amministrazione comunale è alle prese con i debiti, il deficit di bilancio e la necessità di rientrare nel patto di stabilità che ha dato il via alle dismissioni, l'ex sindaco Sergio Chiamaprino, oggi a capo della Fondazione san Paolo dice che dalla sua attuale posizione può far poco: «La Fondazione contribuisce con 130 milioni l'anno per la ricerca, la formazione, le attività culturali, un po' di sanità. Sono gocce nel mare, in una fase di grande difficoltà del credito e dei suoi istituti. Servirebbe un ritorno all'industria. Servono nuovi capitali che creino nuovo valore. L'auto qui è ancora una cultura: spero che la Fiat ci metta qualcosa, altrimenti meglio chiamare i tedeschi». Per ora la Fiat - anzi Chrysler - ci mette solo 35 milioni in tre anni per la scritta Jeep sulle maglie della Juventus. Nell'altro palazzo della finanza cittadina, la banca Intesa san Paolo - che presto potrà godersi il suo grattacielo di 166 metri, appena più basso della Mole, per non offenderla troppo - si fanno meno illusioni industriali: «Se confronti con l'oggi la città degli anni '60-'70 - dice un autorevole dirigente - ti viene l'ansia. Ma Torino ha un sacco di cose. Più piccole, ma ci sono. Ha tanti centri, un'Università con 100.000 studenti, dei servizi che funzionano e una rete d'imprese attive. Certo non ci potrà mai essere qualcosa di simile a ciò che è stata la Fiat, ma una città policentrica non è necessariamente un male. Se amministrata bene, sarà possibile viverci bene». Sarà. Nell'attesa Renato C. ha finito di scorrere le «offertissime Lidl». Sceglie, va alla cassa ed esce. Stasera tortelloni, in bianco.
(1-continua)
Il dilemma tarantino tra lavoro e morti d'amianto - Massimiliano Del Vecchio
La realtà industriale tarantina è stata quanto mai vessata da plurime morti sul lavoro, per infortuni o malattie professionali. Vi insistono, difatti, da cinquanta anni, a ridosso della città, uno dei più grandi stabilimenti siderurgici di Europa, una importante raffineria di idrocarburi e un cementificio, dai cui impianti si sprigionano notevoli quantità di agenti patogeni. In quasi venti anni di contenzioso legale i lavoratori hanno visto riconoscere da un lato, nei confronti delle imprese, cospicui risarcimenti del danno differenziale a favore delle vittime del lavoro e dall'altro, nei confronti dell'Inail, centinaia di malattie professionali, tra le quali segnaliamo, sul fronte delle neoplasie: mesoteliomi, carcinomi polmonari, della laringe e asbestosi; carcinomi renale, dello stomaco, della vescica, dell'intestino, della prostata; leucemie e linfomi. Gli ambienti di lavoro e tutta la città di Taranto, come si è avuto modo di appurare ufficialmente nei recenti accertamenti probatori disposti dalla procura, sono difatti pregni di fibre di amianto, idrocarburi policiclici aromatici, diossina, ammine aromatiche, cadmio, metalli pesanti e veleni di ogni genere che costituiscono fattori di rischio specifico per l'insorgenza di tumori. Già con la ordinanza del Gup di Taranto dell'11/5/2009, R. Gip 6392/08, sono stati rinviati a giudizio i più importanti manager della siderurgia pubblica nazionale e i direttori dello stabilimento siderurgico di Taranto che si sono succeduti dalla fine degli anni '60 alla prima metà degli anni '90, in quanto ritenuti responsabili del decesso di sedici lavoratori a cagione delle più varie neoplasie ascrivibili al mix di sostanze cancerogene che si sprigionano dagli impianti di Taranto - la prossima udienza si terrà il 23/11/2012. Il secondo processo «tumori» che concerne quindici decessi solo per mesoteliomi e carcinomi polmonari per esposizione al rischio da amianto, si terrà in sede dibattimentale il 3/10/2012. Il capo di imputazione confermato dal decreto del Gup n. 3390/10 R. Gip è circoscritto al singolo rischio cancerogeno e è stato assistito da una efficace e tempestiva indagine, che perviene sino alla gestione privata dello stabilimento Ilva. L'amianto, in effetti, è ancora presente in enormi quantità nello stabilimento siderurgico di Taranto e non è un materiale volatile del quale sia difficile indicarne la provenienza, per cui, diversamente rispetto al primo grande processo di cui si è detto, ove gli oneri probatori sono più complessi, nessuno può contestare che detta esposizione vi sia stata; l'eziologia dei tumori ricollegabili e denunciati, del resto, è ormai scientificamente acclarata. In questo rovente clima giudiziario si inserisce l'incidente probatorio conclusosi il 30 marzo 2012 con il quale si è accertata l'esistenza di un disastro ambientale provocato dallo Stabilimento siderurgico Jonico e la ascrivibilità di centinaia di decessi tra la cittadinanza all'inquinamento industriale. Gli atti di questa indagine sono confluiti, su conforme richiesta della procura e dei difensori delle parti civili, nei due grandi processi che hanno ad oggetto l'imputazione di plurimi omicidi colposi. Si determina così una situazione veramente complessa nell'ottica di un bilanciamento di interessi apparentemente contrapposti: quelli occupazionali, da un lato e quelli di tutela della salute, dall'altro, giacché potrebbe essere emessa una ordinanza cautelare di sequestro dello Stabilimento o di una sua parte al fine di impedire la protrazione delle emissioni inquinanti e del reato. Probabilmente una revisione della autorizzazione ambientale dello stabilimento, la adozione immediata di rimedi come la copertura dei parchi minerali, delle linee di trasporto dei minerali ed un'accurata vigilanza sul funzionamento e sulla efficacia dei filtri delle ciminiere e del sistema di deflusso dei fanghi di acciaieria consentirebbe invero se non di soddisfarle entrambe, quantomeno di contemperare tutte le esigenze in attesa che sia studiata e approntata una concreta alternativa economica alla produzione siderurgica, i cui impianti oggi invero nessuno stato civile consentirebbe di installare nelle adiacenze delle città.
Luciano Muhlbauer*: «Il centrosinistra deve agire subito, come se si votasse domani mattina» - L.Fazio
MILANO - Le opposizioni chiedono elezioni subito. Non l'abbiamo già sentito troppe volte?
In realtà è persino noioso ripetere oggi la richiesta di dimissioni di Roberto Formigoni. Si tratta della stessa richiesta reiterata tutte le volte che diverse indagini lo hanno coinvolto con accuse molto pesanti, per fatti di corruzione e anche per presunta contiguità con la criminalità organizzata. Per non parlare dei suoi ex assessori indagati per fatti accaduti nella legislatura 2005-2010. L'avviso di garanzia cambia le carte in tavola? L'avviso di per sé non rappresenta certo una sorpresa, lo sapevano tutti che era indagato, il Corriere della Sera lo aveva anche sbattuto in prima pagina. L'unico a negare con forza era lui, Formigoni, ma lo faceva solo per portarsi avanti con l'autodifesa e togliere forza all'effetto sorpresa. Da settimane si discute di questa indagine e lui si è sempre difeso alzando il tiro, è arrivato a dire che si tratta di un tentato golpe giudiziario. Tutto è già stato detto e non credo che Formigoni cambi idea e strategia in proposito. Direi che oggi l'unica curiosità sta nel capire come si muoverà la Lega, visto che sono dieci anni che i leghisti governano insieme a lui al Pirellone. Difficile che la Lega decida di sfidare le urne correndo il rischio di perdere la regione più importante. La Lega è sempre stata attaccatissima alle sue poltrone e oggi lo è ancora di più a causa della gravissima crisi di consenso che sta vivendo, ma è anche vero che noi abbiamo il dovere di incalzarla su un argomento così delicato visto che proprio blaterando di legalità e scope per fare pulizia Roberto Maroni sta cercando di ribaltare la situazione. Ma il vero problema, lo sappiamo, è un altro: sono le opposizioni. Appunto. Al di là dell'atto giudiziario, il sistema di malaffare è sotto gli occhi di tutti eppure non sembra che ci sia una alternativa politica qui in Lombardia. Questa è la stessa domanda inevasa di sempre. Cosa fa la sinistra, cosa fa il centrosinistra? In questi ultimi mesi è apparso evidente che l'unica vera opposizione a Formigoni è la Procura della Repubblica di Milano, la quale, intendiamoci, fa solo il suo dovere. Ma dobbiamo avere ben chiaro che anche la migliore procura non potrà certo risolvere il nodo del collasso del sistema politico formigoniano. Questa impasse è un dramma per la Lombardia in un periodo di forte crisi come questo. Formigoni non di dimette. Allora come se ne esce? Il centrosinistra deve avviare immediatamente un percorso che porti alla definizione di un'alternativa di governo, con primarie vere e inclusive che allarghino la partecipazione ai tutti i movimenti e alle associazioni lombarde. Solo con un dibattito aperto possiamo arrivare ad un candidato credibile. Siamo all'anno zero o ci sono già rumors su chi potrebbe sfidare la destra in Lombardia? Nomi ne circolano anche troppi, ma non è il caso di dargli credito, il punto è che fino ad oggi le opposizioni non hanno voluto giocare fino in fondo questa partita che è tutta politica. Non è solo una questione di nomi. Deboli o incapaci? Diciamo che diciassette anni di formigonismo hanno fatto breccia anche nel campo delle opposizioni. Non mi riferisco solo al caso di Filippo Penati, il potente uomo che del Pd del nord a sua volta indagato con l'accusa di corruzione, parlo di una sudditanza di tipo culturale che riguarda anche il modo di gestire il potere. Il nodo irrisolto è cosa dovrebbe esserci dopo Formigoni. Cambiamo solo la guida del Pirellone o cerchiamo un'alternativa al cosiddetto modello lombardo? E come lo ridefiniamo il rapporto tra pubblico e privato? Questo nodo non è stato sciolto dalla forza politica più consistente, il Pd. L'unico modo per poterlo fare è consegnare ai cittadini un processo aperto e partecipato per costruire un'alternativa. Un conto è dirlo... Non c'è tempo da perdere, bisognerebbe cominciare questo processo di definizione di un'alternativa a partire da settembre, il centrosinistra dovrebbe lavorare come se le elezioni fossero domani mattina. Sfido chiunque a sostenere che in questa situazione sia possibile trascinarsi fino al 2015. Siamo già nell'era dopo Formigoni, ma più lenta sarà l'agonia più gravi saranno i danni per una regione già colpita dai tagli del welfare, dalla disoccupazione e della crisi delle attività produttive. E l'idea che il Celeste se ne vada in parlamento approfittando delle prossime elezioni del 2013? In questo momento Formigoni, come quasi tutto il ceto politico del Pdl, è ostaggio della crisi del centrodestra, e in assenza di sbocchi alternativi farà di tutto per aggrapparsi alla poltrona. Proprio per questo il suo inarrestabile declino rischia di essere tutt'altro che breve. Ma mettiamoci in testa la magistratura non può bastare.
*esponente del Prc milanese
La partita si gioca ad Aleppo - Michele Giorgio
Ieri si combatteva per le strade di Aleppo, città per storia e cultura troppo importante per essere lasciata dal governo nelle mani dei ribelli sunniti. È ad Aleppo che si sta sviluppando la fase più acuta della guerra civile che negli ultimi dieci giorni - con l'assalto (respinto dai governativi) di 5mila ribelli a Damasco - ha subito una drammatica escalation, segnata dall'attentato di una settimana fa che ha ucciso alcuni dei più stretti collaboratori del presidente Bashar Assad. Il nord è l'obiettivo immediato dei ribelli armati che intendono strapparlo al controllo del governo e proclamarlo subito «territorio liberato». Uno sviluppo che segnerebbe una sconfitta forse irreparabile per il presidente siriano. Per questo la battaglia di Aleppo potrebbe rivelarsi persino più cruenta di quella di Damasco. L'esercito ha spostato verso questa bellissima città, patrimonio dell'umanità, migliaia di uomini e decine di mezzi corazzati per respingere l'assalto dell'Esercito libero siriano (Els), la milizia dell'opposizione. Nei combattimenti ad Aleppo i governativi possono contare anche sull'appoggio degli elicotteri ma i ribelli ora hanno armi per contrastare la maggiore potenza di fuoco delle forze armate regolari: razzi anticarro, lanciagranate, mitragliatrici pesanti, bombe. E sono sempre più motivati, grazie anche allo stipendio mensile che ricevono dagli sceicchi del Golfo, decisi a far cadere il nemico Assad. L'Els ha conquistato Arar, cittadina non lontana dalla frontiera con la Turchia, mentre l'esercito ha ripreso il controllo di Tel, a ridosso di Damasco. Secondo dati non ufficiali dal 15 luglio sono morti almeno 1.261 siriani, tra i quali anche civili, mentre Amnesty International torna a denunciare le esecuzioni sommarie compiute da regime e ribelli. Proseguono anche le defezioni. Le ultime due riguardano gli ambasciatori negli Emirati e a Cipro che sono passati all'opposizione. Il fenomeno è in crescita ma riguarda in quasi tutti i casi siriani sunniti, a conferma delle caratteristiche sempre più settarie del conflitto. Per questo non sono pochi coloro che vedono una Siria frantumata con la caduta di Assad. Il presidente siriano è ancora in sella ma deve affidarsi sempre di più ai reparti dell'esercito composti in prevalenza da membri della sua setta, quella alawita e sull'appoggio silenzioso della maggioranza dei cristiani. Sa che con l'afflusso continuo di armi destinate ai ribelli, per le forze armate regolari sarà sempre più difficile tenere il controllo delle aree del paese a maggioranza sunnita. È plausibile che, di fronte all'emergere di una entità sunnita più o meno omogenea sotto il controllo dell'Els, Assad sia costretto a trasformare l'ovest del paese, la zona di Latakiya, a maggioranza alawita, in una enclave ben difesa e con l'accesso al mare. Una soluzione resa concreta dal timore che gli alawiti hanno di vendette sunnite in caso di caduta del regime. Per loro sarebbe preferibile la resistenza ad oltranza in un piccolo territorio a una vita sotto il tallone sunnita. Il sostegno degli alawiti è un patrimonio di eccezionale importanza sul quale Assad potrà contare in ogni circostanza. Ha perciò ragione Robert Fisk quando scrive, come ha fatto nei giorni scorsi, che solo la perdita dell'appoggio alawita, alquanto improbabile, può segnare la sconfitta senza appello di Assad. Questo però è solo un pezzo del puzzle della Siria frantumata che rischia di venire alla luce tra qualche mese. Non è solo una teoria la possibilità che le regioni kurde siriane si rendano autonome sul modello del Kurdistan iracheno separato da Baghdad, voluto dagli Usa dopo il primo attacco al regime di Saddam Hussein nel 1991. Ma kurdi sono anche quelli che combattono la Turchia e non è un mistero che Bashar Assad stia dando spazio ed appoggi al Pkk per ricambiare la «cortesia» ricevuta dal premier turco Erdogan, il più rapido ad abbandonarlo e a dare aiuto e accoglienza ai ribelli armati e al Consiglio nazionale siriano (opposizione). Il Pkk potrebbe usare il territorio di una Siria spaccata in più parti per tenere sotto pressione Ankara che, a sua volta, finirebbe per creare una zona cuscinetto in terra siriana come ha fatto negli anni passati al confine con l'Iraq. E il Golan occupato da Israele? C'è chi lo vede trasformato in un contenitore per siriani in fuga dai futuri padroni di Damasco. Israele, in ogni caso, non lo ha ridato al regime baathista e non lo darà a nuove autorità siriane, ammesso che queste ultime intendono chiederne la restituzione.
Il prete che lavora per la pace: «Che le armi tacciano» - Marinella Correggia
A Damasco si temono, scrive l'agenzia cattolica Fides, vendette sui civili che potrebbero essere trattati come «traditori» perché non si sono schierati con l'opposizione: l'allarme giunge a Fides da alcune famiglie nei quartieri di Qassaa e Jaramana, dove vivono oltre 100mila fra cristiani e drusi (e molti rifugiati iracheni). Molti sono chiusi nei sotterranei delle case, altri le hanno lasciate e dormono nelle scuole, altre famiglie ancora sono fuggite dalla città. Ma intanto a Homs e in altre città silenziosamente prosegue un'opera disperata e piena di speranza, «Mussalaha», riconciliazione dal basso. Padre Michel Maaman, sacerdote sirocattolico, ex parroco della cattedrale di Santo Spirito a Homs, è una delle anime di questo movimento informale a cui partecipano religiosi e laici, «anche dei capi tribali che sono venuti a farci visita da altre aree e ci stanno aiutando». Mussalaha cerca di recuperare quella convivenza e solidarietà etnica e religiosa che hanno sempre caratterizzato la Siria e che adesso sembra sgretolarsi nella frammentazione settaria. Gli incontri di pace a partire dalle famiglie, dai clan, dalle diverse comunità della società civile siriana, stanca del conflitto, si accompagnano ad azioni di mediazione riuscite. Un servizio della tivù francese TF1 mostra padre Michel al lavoro per far uscire dal centro antico di Homs diverse famiglie là intrappolate, cristiane e musulmane (www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=2C46PBC0P5o). Tratta con l'opposizione che controlla i quartieri e alla fine riesce a ottenere l'ok alla liberazione di decine di persone stremate. Il governatore della città, intervistato, spiega che la Mezzaluna Rossa siriana più volte aveva chiesto di entrare, ma i ribelli avevano sempre negato l'accesso e l'evacuazione dei civili, per evitare l'assalto. La Croce Rossa internazionale ha confermato di non aver potuto entrare nella città vecchia di Homs, ma non ha voluto indicare perché («siamo neutrali»). Parliamo al telefono con padre Michel a Homs. E' cautissimo, non parla di politica e rimane fermamente neutrale: «Una parola in più e qui si rischia la vita». Circa i civili dei quali ha ottenuto la liberazione dice che «no, non erano scudi umani, ma insomma tenuti dai ribelli come protezione...». Il padre ripete: «Vogliamo che le armi tacciano, per far parlare le persone». Ma come è possibile aiutare Mussalaha? Lui riflette: «Più che l'aiuto umanitario, servire che ci si lasci in pace, e i siriani sapranno ricostruire la Siria». Lasciare in pace significa anche non fornire più appoggio in armi dall'esterno? «Ovvio! Qui si soffia sulle polveri. A forza di parlare di guerra civile, di odio etnico, eccoli. Ci sono interessi enormi, e un barile, uno solo, di petrolio sembra valere più di un vita». Quanto alle persone, sono in crisi di coscienza, diffidenti, più nessuno si fida di nessuno. Nel quartiere Hamidieh c'erano 50mila cristiani, dice, adesso saranno un'ottantina i rimasti. Invece bisogna «aprire il cuore». E cosa pensa di delegazioni, corpi civili di pace e altro per appoggiare Mussalaha? «Finché le armi, sparano nessun gruppo internazionale potrà portare la pace. Sono i siriani a dover agire. E poi l'Onu, gli osservatori, le delegazioni, sono così burocratici. Stanno negli hotel». Ma un appoggio politico servirà. L'irlandese Mairead Maguire, Premio Nobel per la pace nel 1976 con Betty Williams e leader del movimento «The Peace People», ha espresso sostegno a Mussalaha. E così Gregorio III Laham, patriarca dei greco-melkiti di Damasco, che confida nella lunga storia di convivenza dei siriani. «Se funzionerà a Homs, la riconciliazione, funzionerà ovunque», conclude padre Michel.
Groenlandia senza ghiaccio - Marina Forti
All'inizio hanno pensato a un errore dei computer che decodificano le foto inviate dai satelliti. Poi hanno dovuto arrendersi all'evidenza. A far sobbalzare gli scienziati della Nasa, l'agenzia spaziale degli Stati uniti, sono i dati inviate il 12 luglio dai satelliti che sorvolano la regione artica: risultava che la quasi totalità del territorio (il 97%) non aveva alcuna copertura di ghiaccio. Solo quattro giorni prima, le mappe derivate da tre satelliti indipendenti mostravano che solo il 40% della superficie ghiacciata era sciolta. Insomma, la Groenlandia si è sciolta in appena quattro giorni: si capisce che gli scienziati non volessero crederci. E' ben noto che la regione artica è un punto critico, dal punto di vista del cambiamento del clima, dove il processo di riscaldamento si sta mostrando più rapido che altrove: ma non a questo punto. Si tenga conto ogni estate circa metà della superficie dello strato di ghiaccio che ricopre la Groenlandia si scioglie. In alta quota (e nell'interno) di solito l'acqua di ricongela rapidamente dove sta, mentre sulla costa va a finire in mare. Gli scienziati non hanno ancora potuti stabilire se e quanto l'episodio di scioglimento di questa estate avrà contribuito ad alzare il livello degli oceani. Cosa ha provocato uno scioglimento così esteso, estremo, e rapido? Gli scienziati della Nasa ipotizzano che sia dovuto a una massa particolarmente forte di aria calda, o «cupola di calore», arrivata sulla Groenlandia questo mese seguendo altre, meno intense, che avevano dominato il clima nella zona fin dal maggio scorso. L'ultima «cupola» ha cominciato a muovere sull'isola l'8 luglio; circa tre giorni dopo si era assestata sull'intera coltre di ghiaccio groenlandese, prima di cominciare a dissiparsi il 16 luglio. E' dunque la «cupola di calore» che ha provocato un disgelo così rapido ed esteso. Ha mostrato segno di disgelo perfino la zona intorno alla Summit Station, la stazione di ricerca meteorologica della National Oceanic and Atmospheric Administration (degli Stati uniti), situata a 1.600 metri sul livello del mare nel centro della Groenlandia - al punto più alto della coltre di ghiaccio che ricopre l'isola. Si tratta di una zona che non si scioglieva dal 1889, a quanto si può stabilire dall'analisi delle stratificazioni del ghiaccio. Eppure, i ricercatori là hanno registrato per parecchie ore, tra 11 e 12 luglio, temperature superiori o nell'ambito di un grado dal punto di scioglimento. Lora Koenig, glaciologo del Centro spaziale Goddard della Nasa, ha spiegato che dall'analisi degli strati di ghiaccio in quella zona è stato stabilito che un evento simile - la «cupola di caldo» - avviene una volta ogni 150 anni in media: se l'ultima volta è stato nel 1889, i tempio sono rispettati. «Ma se continueremo nei prossimi anni a osservare scioglimenti come questo, allora bisognerà preoccuparsi parecchio». Lo scioglimento dei ghiacci di metà luglio è il secondo fenomeno anomalo registrato in Groenlandia quest'estate. La settimana scorsa un gigantesco iceberg, grande due volte l'intera isola di Manhattan a New York, si è staccato dal ghiacciaio Petermann ed è andato alla deriva in mare (proprio come nel 2010, quando si era staccato uno dei più grandi iceberg mai registrati). Secondo gli scienziati, quegli iceberg sono un effetto del riscaldamento del clima. Ormai non si può più parlare di variazioni naturali. Tom Wagner, direttore del programma Nasa per la criosfera, dice che la «cupola di caldo», sommata agli altri fenomeni anomali, è parte di una storia complessa: «Le osservazioni via satellite ci aiutano a capire come questi eventi sono collegati tra loro e con il sistema climatico globale».
La Stampa - 26.7.12
Ilva verso il sequestro imminente. Duemila operai fuori dalla fabbrica - G.Ruotolo
TARANTO - Oltre 2mila operai hanno lasciato il posto di lavoro e alle 14 sono usciti dai cancelli dello stabilimento Ilva di Taranto: il corteo punta dritto verso la città con l'obiettivo di raggiungere la prefettura. Si è sparsa la voce, infatti, che la Procura della Repubblica sta eseguendo le misure cautelari, previste dall'ordinanza del gip Patrizia Todisco, nei confronti di alcuni indagati nell'inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici della grande fabbrica. Secondo un'emittente televisiva locale, che ha dato l'allarme, sarebbero otto arresti domiciliari oltre alla chiusura e al sequestro di intere aree produttive dello stabilimento. Un destino che Taranto già aspettava alla vigilia della decisione. Secondo indiscrezioni, il gip Todisco si è pronunciata con molta durezza sull'inquinamento della più grande acciaieria d'Europa che provoca morte. Intanto, 8mila operai sono pronti a manifestare sulle statali Appia e 106 e i sindacati di categoria Fim, Fiom e Uilm stanno preparando la mobilitazione avendo avuto sentore che possa essere ormai imminente la notifica del provvedimento da parte dei carabinieri.
Ilva, la rivolta degli operai: "Lasciateci l'industria" - Guido Ruotolo
TARANTO - Non deve essere abituata ad urlare, la generazione 35. Brillantino fissato all'orecchio, i ragazzi delle discoteche dell'hinterland milanese si confonderebbero con loro. Tute blu, operaie delle ditte appaltatrici, in migliaia e migliaia sono uscite silenziose dai cancelli e hanno occupato la via Appia e la Statale 106, isolando Taranto per un paio d'ore. "Non ce la facevo più. Lo stress dell'attesa - dice Daniele, Acciaieria 1 - provoca una certa instabilità. La tensione deve esplodere e abbiamo deciso noi di fare il primo passo". Generazione 35 anni, è questa l'età media dei disperati, e nello stesso tempo consapevoli operai dell'acciaieria più grande d'Europa. Senza di loro, senza la fabbrica, la città è destinata a morire ma con gli altiforni, le cokerie e l'area agglomerato i cittadini muoiono. Gracchia il megafono: "Taranto non ha futuro senza la sua industria". Come se un corteo potesse modificare una decisione già presa da un giudice. Come se quel giudice fosse un irresponsabile magistrato che non sa che deve solo applicare la legge, e non certo trasformarsi in politico, amministratore, dirigente di fabbrica. E se la decisione presa dal gip non fosse "suicida" ma soltanto "giusta"? Ingresso direzione, ore 10. Esce il primo turno. Sono forse cinquemila. Anche gli uomini della azienda, i capi, non si sono opposti a questa manifestazione. Fa caldo e l'asfalto brucia. Sciopero preventivo, in attesa che il gip Patrizia Todisco decida la sorte della fabbrica. Forse è la prima volta di un "avvertimento" operaio, di un tentativo di ingerenza dichiarata sulla decisione, drammatica, che si trova a dover prendere (che ha preso) il gip. Disastro ambientale doloso, violazione delle norme a tutela dei lavoratori, avvelenamento di sostanze destinate ad alimentazione. I capi di imputazione. Cinque gli indagati: il patriarca della dinasty Riva, Emilio, suo figlio Nicola, tre dirigenti dello stabilimento. E solo adesso - ma forse è troppo tardi - il vecchio Riva ha sostituito Nicola con l'ex prefetto Bruno Ferrante, che ha assunto l'incarico di amministratore delegato dell'Ilva. Nelle ultime settimane è stato un susseguirsi di scongiuri, di suggerimenti, di invocazioni, di minacce, di impegni. Da ministri a sindacati, dalla Confindustria alla Regione Puglia, un coro bipartisan: "Sarebbe un delitto chiudere lo stabilimento adesso che le cose...". Adesso che? Quanti apprendisti stregoni ballano la danza funebre davanti al feretro, alla fabbrica. Nei mesi scorsi, agli amici il procuratore Franco Sebastio ripeteva: «Non dovevano metterci nelle condizioni di intervenire...». Il più grande "assumificio" della Puglia, l'Italsider delle Partecipazioni statali e della Democrazia Cristiana che fu, negli Anni Sessanta e Settanta ha trasformato un'intera generazione di braccianti del Metapontino, della Basilicata fino alla Calabria, in operai siderurgici. Poi, a metà degli Anni 90 è arrivato padrone Riva. Pensionamenti forzati e assunzioni. Ristrutturazioni durissime e incidenti sul lavoro, morti e inquinamenti e risanamenti ambientali. Riva ha iniziato a pagare anche per la tutela dell'ambiente quando, per esempio, ha rifatto l'impianto di cokeria sequestrato dalla magistratura. E' la nuova generazione di operai che oggi si ritrova all'angolo. Che sa che si muore in fabbrica ma anche fuori per colpa dell'acciaieria. Adesso la Puglia di Nichi Vendola grida a squarciagola che la regione ha approvato tre, anzi quattro leggi all'avanguardia per la difesa dell'ambiente, come quella contro la diossina e il benzapirene. Il governo, il ministro dell'Ambiente Clini - di concerto con Regione Puglia ed Enti Locali e naturalmente Ilva - sta per varare un piano di bonifica del territorio, con centinaia di milioni di euro da investire. Viene da dire perché tutto questo solo oggi? La buona volontà, il circolo virtuoso messo in atto, i cambiamenti e gli investimenti per la cosiddetta "ambientalizzazione" sono cose vere. Ma quel maledetto "incidente probatorio", sottovalutato dalla vecchia direzione Ilva, è una condanna a morte per la fabbrica. Perché i luminari scelti dal gip, hanno scritto nelle loro perizie che morte e fabbrica sono l'una dipendente dall'altra. Centinaia di vite innocenti negli anni sacrificate per il lavoro, la ricchezza di questa terra. Perché, per la Procura di Taranto, l'immenso territorio dell'Ilva è forse diventato il più grande corpo di reato con cui fare i conti. Per 40 giorni gli uomini del Noe dei carabinieri hanno "intercettato" l'intera fabbrica, registrando le immagini di tutte quelle "emissioni irregolari". Insomma, il problema dell'Ilva non è solo l'area a caldo o l'area dove si concentrano i minerali. Ma Taranto ha già votato il suo referendum sulla fabbrica. In campagna elettorale. I candidati a sindaco che hanno sposato il programma della chiusura dell'Ilva, come il verde Angelo Bonelli, hanno preso il 12% dei voti. E' la città della rendita immobiliare e terriera che non vuole la fabbrica. Ma anche giovani che ieri magari frequentavano centri sociali o associazioni radicali oggi si sono riconvertiti a un ambientalismo estremizzato. "S'ode un tintinnar di manette". I quotidiani locali di ieri mattina annunciavano blitz imminenti. E da giorni, del resto, che si susseguono le indiscrezioni. Il giudice chiuderà la fabbrica? Sequestrerà gli impianti? Ormai dovremmo esserci. E' questione di ore e il futuro dell'Ilva e di Taranto sarà più chiaro.
Ma la Germania fa i conti sui costi e i vantaggi dell'uscita - Tonia Mastrobuoni
TORINO - Tra qualche anno l'Europa potrebbe essere un posto molto diverso dalla bella alleanza di paesi democratici che conosciamo e amiamo». L'ultimo post del Nobel per l'economia, Paul Krugman, si conclude così. Con una frase da brivido che dà conto di un dibattito talmente avvilente da autorizzare anche gli americani a esercitarsi su cupi scenari di fine dell'euro - e dell'Europa. Ieri, ad esempio, l'autorevole Ifo, l'istituto che rende noto ogni mese il clima di fiducia degli imprenditori tedeschi, ha fatto un calcolo cinico. Ma se si pensa che è diretto da Hans-Werner Sinn, l'economista che passa le sue giornate a vergare lettere contro l'Europa (l'ultima, nell'ordine, contro il vertice Ue di giugno, additato come prodromo di una «socializzazione delle perdite delle banche»), tutto torna. L'Ifo calcola che il default della Grecia costerebbe alla Germania 82 miliardi, se avvenisse fuori dall'euro. Ma se il crac si verificasse sotto l'ombrello dell'unione monetaria, ben 89 miliardi. Il messaggio è chiaro: prima si butta fuori Atene, meglio è. Ma a nord delle Alpi ormai nulla è un tabù. Neanche le disquisizioni sullo scenario opposto. Che sia la Berlino, cioè ad abbandonare i partner europei e a lanciarsi nell'avventura di un nuovo marco. E, magari qualcuno già vagheggia l'assalto a mezza Europa. Con il rivalutatissimo neo-marco, Berlino potrebbe arraffarsi i i gioielli di Piazza Affari e delle altre Borse europee, ma anche le miriadi di aziende non quotate che sono già adesso in affanno ma che in un eurozona "residuale" varrebbero ancora meno. Per fortuna un rapporto Ubs ha fatto un'interessante analisi sugli elevatissimi costi, per i tedeschi, di una «secessione» dall'euro. E di recente molti importanti economisti se ne occupano con lo stesso obiettivo: fornire un monito a chi ne parla con leggerezza. Per un paese forte come la Germania, scrive Ubs, con l'uscita dalla moneta unica si verificherebbe un apprezzamento del neo-marco del 40%. Le aziende tedesche che commerciano con il resto dell'eurozona e che fossero indebitate con le banche tedesche, rischierebbero fallimenti a catena; gli stessi istituti di credito subirebbero perdite gigantesche. Tutti gli asset ancora in euro si svaluterebbero, costringendole a ricapitalizzare, probabilmente anche a carico dello Stato. E la forza del neo-marco farebbe crollare l'export del 20% (quasi il 40% delle esportazioni tedesche sono verso il resto dell'eurozona). Provocando anche reazioni scontate come dazi alla frontiera e protezionismi, negli altri paesi. Morale: il primo shock dell'uscita dalla moneta unica costerebbe 6-8.000 euro all'anno a ogni tedesco. In seguito, 3.500-4.500 euro. Certo, i calcoli più probabili dei "secessionisti" tedeschi sono altri, probabilmente. Meglio uno shock ora che l'infinita agonia dei salvataggi europei. E l'economista Charles Wyplosz ci ha ricordato di recente che gli eventuali aiuti a Spagna e a Italia potrebbero richiedere uno sforzo da 1.300 miliardi. Che si sommano a quelli già sottoscritti a Irlanda, Grecia e Portogallo. Ma per fortuna i"cinque saggi" della Merkel ci hanno ricordato pochi giorni fa che la rottura incontrollata dell'euro farebbe tremare la Germania anche per altri motivi. La sua esposizione verso i 16 partner europei è di 3.330 miliardi di euro - il Pil tedesco ammonta a 2.400 miliardi circa, per dire. E ben 1.500 di questi crediti sono detenuti da imprese e famiglie. Che evaporerebbero, nel caso della fine dell'euro. E con essi, l'economia tedesca con il suo super-neo-marco.
California non über alles - Marco Zatterin
Va bene, sono mondi diversi, con storie diverse. Ma a leggere i giornali americani si scopre che la città di San Bernardino è fallita, terza città della West Coast a portare i libri in tribunale. Di qui si arriva al fatto che la California ha un deficit compreso fra i 20 e i 25 miliardi di dollari. Not peanuts. Eppure non si è sentito il Texas o il Maine urlare che la California deve uscire dagli Stati Uniti. Né si sono avuti effetti se non marginali sul mercato americano dei bond municipalo, entità da 3,7 trilioni di singoli biglietti verdi. Fuori dall'America, l'effetto è stato pure limitato. Da noi basta il disastro greco, che rappresenta il 2-3 per cento del pil continentale, a far saltare tutti gli schemi e a portarci sull'orlo di un tracollo micidiale e doloroso. Quasi banali le ragioni. Gli usa hanno una moneta unica, come noi. Ma gli usa una banca federale vera e noi no. Hanno un solo mercato del debito, che noi potremmo avere se la Merkel si pungesse con un fuso e tutto il suo regno cadesse in un sonno profondo sino a che un banchiere centrale azzurro non venisse a baciarla. Gli Usa hanno politica monetaria coordinata e noi solo in parte. Un solo governo e un solo parlamento federale. Il che non vuol dire distruzione di sovranità, basta ricordare che negli Stati uniti esiste il concetto di estradizione. Sistema federale vero. Date le proporzioni del mercato globale, è naturale che l'Europa avrebbe bisogno di seguire l'esempio dei cugini d'oltreoceano. Se non per fede, per volontà di esigenza di sopravvivenza. Con una moneta unica, e senza una banca centrale vera, politiche più federali e debito in comune (con condizioni, vincoli e obiettivi concordati e fatti rispettare) non andiamo da nessuna parte. Potevamo farlo dieci anni fa e l'abbiamo fatto. Adesso non c'è scelta. L'alternativa è il crac. La dissoluzione. Se San Bernardino fosse in Europa, i nostri risparmi in questo ore prenderebbero una mazzata aggiuntiva. Invece, in America, non è successo nulla o quasi. Federal we must. To live again. Federalismo d'obbligo, per tornare a vivere.
In difesa della salute - Vladimiro Zagrebelsky
Le frequenti notizie di stampa riguardanti la salute sono per lo più preoccupanti. Episodi di «malasanità» mettono in ombra la vasta area di «buonasanità» offerta dal Servizio Sanitario Nazionale italiano. La massima sensibilità rispetto a tutto ciò che riguarda la salute è comprensibile, ma può in proposito essere utile qualche osservazione generale. Lo Stato sociale europeo e in particolare quello italiano ha ormai radici tanto forti che l'accumularsi nel tempo di diritti assicurati dalle leggi non rappresenta più soltanto un dato legislativo, contingente e mutevole nel tempo. Un alto livello di sicurezza sociale è ormai acquisito come naturale e irretrattabile. In particolare per la salute ogni insufficienza e ogni arretramento nel servizio pubblico sono vissuti come un diniego di giustizia. Il servizio pubblico sanitario si ritiene debba essere non solo tendenzialmente totale, ma anche gratuito, cosicché l'introduzione o l'aumento dei ticket non è questione che rinvia a scelte politiche, come tali discusse, ma lede diritti. Si tratta di una cultura e di una civiltà che distingue l'Italia e larga parte d'Europa, ma che è lontana dall'essere universale. Basta pensare alla battaglia politica, ancora in corso negli Stati Uniti, per l'introduzione di un sistema di assicurazione generalizzata in materia sanitaria, ove gli interessi economici coinvolti fanno leva su radicati contrasti culturali in ordine al ruolo della società e dello Stato rispetto all'individuo. Nella Costituzione italiana la tutela della salute è riconosciuta come diritto fondamentale dell'individuo e come interesse della società. Si tratta dell'unico diritto della persona che la Costituzione qualifica come fondamentale. E' un diritto i cui contenuti sono in certa misura indefiniti e mobili. Essi si arricchiscono con lo sviluppo della ricerca medica e l'aumento delle terapie a disposizione dell'umanità; essi però si riducono quando le risorse economiche pubbliche scarseggiano. Il Comitato delle Nazioni Unite responsabile della vigilanza sull'attuazione del Patto internazionale dei diritti economici e sociali (1966), definendo la portata del diritto alla salute come il «diritto alle migliori condizioni di salute fisica e mentale raggiungibili», ha tra l'altro affermato che esso implica il dovere degli Stati, una volta raggiunto un certo livello di garanzia della salute, di non arretrare. Si tratta di orientamento che appoggia la resistenza, oggi evidente in molti Paesi, alla diminuzione dei servizi sanitari come conseguenza di tagli alle risorse pubbliche ad essi destinate. Una resistenza che si manifesta in Italia, ma anche in Portogallo, Spagna, Francia e riguarda, senza le necessarie distinzioni, sia la vera eliminazione di servizi, sia le modifiche organizzative o gestionali dirette a diversamente utilizzare le risorse disponibili. In proposito il primo che viene in mente è il tema della geografia della medicina di prossimità e dell'articolazione sul territorio dei diversi livelli dell'intervento medico. Ad esso si riferiscono sia l'impianto del recente Piano della Regione Piemonte sia l'annunciato progetto del Ministro della Salute Balduzzi sul ruolo e l'organizzazione dei medici di base. I provvedimenti conseguenti alla c.d. «spending review» promettono meno risorse economiche anche nel settore sanitario. Ma il ministro Grilli, pochi giorni orsono, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, ha assicurato che la revisione della spesa sanitaria garantisce economie di spesa, senza alcuna incidenza negativa sul livello qualitativo e quantitativo dei servizi erogati ai cittadini. C'è da chiedersi come questo sia possibile, quando si considerino le riduzioni delle risorse di origine statale insieme a quelle regionali. E' probabile che l'effettiva erogazione dei servizi subisca una diminuzione o un rallentamento. La disponibilità teorica può non mutare, ma le liste di attesa si allungano (e cresce il ricorso alla sanità privata). La riduzione dei finanziamenti all'attività del privato sociale -spesso decisiva per rendere effettivo l'accesso alle cure - lascia intatti apparentemente il ruolo e l'ampiezza del servizio pubblico, che però diventa meno fruibile da parte di fasce sociali deboli e particolarmente vulnerabili. Con ciò si vuol dire che il termine «tagli» può condurre a equivoci e a nascondimenti della realtà. Sul piano formale si può negare che il «taglio» sia stato apportato, anche se c'è chi nella realtà lo patisce. La trasparenza in materia è molto importante, sia perché assicura la corretta informazione della cittadinanza, sia perché riporta la responsabilità delle scelte nel luogo istituzionale proprio, sia esso il governo nazionale o quello regionale. Se sono necessarie riduzioni nei servizi offerti in materia sanitaria, le scelte da fare richiedono partecipazione e chiarezza, secondo criteri di priorità razionali e non discriminatori. Partecipazione al processo decisionale, pubblicità delle scelte effettuate, non discriminazione nei loro effetti, sono criteri sottolineati da tutte le organizzazioni internazionali, come il già ricordato Comitato economico-sociale delle Nazioni Unite e l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Merita uno speciale richiamo la regola della non discriminazione. Essa non vieta soltanto le dirette esclusioni di parte della popolazione dall'accesso ai servizi di prevenzione e di cura (per ragioni di razza, sesso, religione, origine, condizione economica o sociale, ecc.). Essa riguarda anche la più insidiosa discriminazione indiretta, quella che fa pesare di fatto su gruppi della popolazione le loro caratteristiche o debolezze, che non riguardano lo stato di salute, ma che incidono sulla possibilità di avvalersi dei benefici che sono a disposizione della generalità. Gli esempi sono facili. Il più evidente è quello che riguarda la c.d. accessibilità economica del servizio sanitario, legata alla sostenibilità del relativo costo. Ma l'elenco degli esempi è lungo. Se il luogo in cui è fornito il servizio sanitario viene allontanato, senza prevedere mezzi di trasporto adatti a chi, per salute, età o altro non ne dispone, una misura che sembra neutra si traduce in una discriminazione indiretta. La complessità delle procedure amministrative da seguire per accedere al servizio, se non accompagnata da una sufficiente e capillare informazione, finisce con l'escludere chi, per la non conoscenza della lingua o per altro, si perde tra gli uffici e gli sportelli, che pure - apparentemente - gli sono aperti. Il discorso può allungarsi, ma ciò che emerge è la necessità di evitare i «tagli lineari» e di discutere invece e stabilire criteri e priorità, nel disegnare l'area coperta dal servizio pubblico e nello stabilirne l'accessibilità e il costo per gli utenti. Altra cosa è la lotta agli sprechi e alla corruzione. Una lotta che è da appoggiare senza riserve. Essa sì può ridurre i costi complessivi a carico dello Stato e delle Regioni, senza diminuire l'ampiezza del diritto alla salute di tutte le persone.
l'Unità - 26.7.12
Il coraggio che manca - Claudio Sardo
Ci vorrebbe coraggio. E invece il Pdl mostra un tatticismo vile, tutto volto a convenienze di parte, e persino di dubbia efficacia, mentre il Paese è nella bufera finanziaria e le famiglie hanno paura del domani. Dopo il voto in Senato sul semi-presidenzialismo, il cui scopo è affondare le riforme istituzionali possibili e guadagnare per la futura campagna elettorale una bandiera propagandistica, il partito di Berlusconi e Alfano ieri ha fatto saltare anche l'ipotesi di accordo sulla legge elettorale. Finché resterà una possibilità, continueremo a sperare che si recuperi il filo di un compromesso per cancellare il Porcellum. Ma è chiara la ragione egoistica del Pdl: rinviare comunque la scelta, allo scopo di togliere dalle mani del Capo dello Stato la carta delle elezioni anticipate a novembre. Ovviamente si può discutere su quale sia la convenienza dell'Italia in questa congiuntura terribile. Ma sottrarre dal tavolo la possibilità delle elezioni in autunno - per di più per un motivo così di parte - è un atto che può infliggere danni seri al Paese. Quando c'è una crisi così grave, le forze politiche più grandi sono chiamate a una funzione nazionale. Che non esclude il conflitto tra loro. Né il conflitto delle loro rappresentanze sociali. Tuttavia ci sono momenti in cui c'è bisogno di una maggiore, più rischiosa assunzione di responsabilità. È accaduto nei momenti migliori della nostra storia. Ed è in questi passaggi che si misura la stoffa e la qualità di una classe dirigente. Il Porcellum va cambiato. Perché fa schifo e non ha eguali nei Paesi democratici. È un tema per tentare di riconciliare i cittadini con la politica. Va fatto al più presto, sotto i colpi della crisi. Offrire a Napolitano e a Monti anche l'opzione del voto anticipato non sarebbe un'ipoteca, ma un'opportunità per l'Italia. Anche il Pd deve avere coraggio, incalzare e rilanciare. Di nuovo, da oggi. Occorre sfuggire alla tentazione di farsi trascinare dal corso del fiume. Candidarsi alla guida del Paese comporta rischi e richiede scelte difficili non sempre garantite da successo.
Nel varietà televisivo i politici hanno sempre ragione - Maria Novella Oppo
Il presidente delle Province italiane è apparso in video per lanciare il suo allarme sul nuovo anno scolastico, che sarebbe messo in forse dai tagli. Il presidente dell'Anci Delrio ha fatto sapere che i Comuni non ne possono più, avendo già sopportato la maggior parte dei sacrifici. Poi ci sono i presidente delle Regioni che rischiano addirittura il default, quasi come in Spagna. Ma il presidente della Regione Sicilia, Lombardo, è andato invece in televisione (la sera prima di incontrare il premier Monti a In onda) per spiegare che non è vero niente: la Sicilia ha un debito molto minore di quello dell'Italia e continuerà a pagare gli stipendi ai suoi (peraltro innumerevoli) dipendenti. Ha anche spiegato pazientemente che una parte notevole di quei lavoratori svolge funzioni che nelle altre Regioni (non autonome) spetterebbero allo Stato. E poi comunque non li ha assunti lui e neppure ha intenzione di assumerne altri, da qui alle prossime elezioni. Lombardo ha anche elencato le sue benemerenze in campo sanitario e ha promesso di far comunque rispettare, nei contratti futuri, la norma anti-mafia che il consiglio ha appena bocciato. Insomma, hanno ragione tutti, i politici che vanno in tv e, quand'anche le domande dei giornalisti fossero aggressive, loro hanno le risposte pronte, numeri alla mano, per dimostrare quanto bene hanno fatto. E ha ragione più di tutti quello che viene presentato come l'esempio che Lombardo dovrebbe seguire: il presidente dei lombardi Formigoni, sempre in tv a dire che lui non si dimette perché non è neppure indagato. Con i giornalisti (Bruno Vespa in testa) che gli danno ragione e invece hanno torto, perché ora si scopre che Formigoni è proprio indagato e non solo per le firme false nelle liste elettorali, ma anche per corruzione internazionale. Addirittura. E ora, sia Formigoni a seguire il buon esempio del presidente Lombardo e si dimetta.
Repubblica - 26.7.12
La sindrome di Gulliver - Bernardo Valli
È vero, la Germania di Angela Merkel a volte fa pensare a Gulliver, l'eroe di Jonathan Swift che si scopre un gigante impigliato tra i minuti abitanti dell'isola di Lilliput. L'idea è disinvolta, il paragone azzardato, perché l'Europa non è abitata da lillipuziani che dilagano nelle ricche vallate della Repubblica federale condizionandone i movimenti. L'immagine rispecchia tuttavia parte della realtà. Non è del tutto abusiva. La Germania - Gulliver troneggia al centro dell'eurozona, ma è al tempo stesso impacciata, se non proprio prigioniera: i vicini più deboli esplorano la sua pancia, si muovono nella sua capigliatura come in una foresta, scalano le pieghe del suo corpo sprizzante salute. L'economia tedesca è sostanzialmente sana rispetto a quella dei Paesi limitrofi; i suoi conti pubblici sono quasi esemplari; ma le sue banche e i suoi esportatori sono fragilizzati dalla crisi in cui versano le indisciplinate società del Sud. Le quali si muovono nell'economia e nella finanza tedesche come, appunto, i lillipuziani sul gigantesco corpo dell'eroe di Swift. Per cui si può capire la tentazione di scrollarsele di dosso. La voglia non manca. La sindrome di Gulliver spinge anche menti sagge, e di solito razionali, come quelle della Frankfurter Allgemeine Zeitung, a lasciarsi andare. E a dare segni di un'impazienza vicina alla collera. Il quotidiano di Francoforte ha accolto l'avvertimento di Moody's, che non ha escluso nel futuro un'amputazione dell'AAA ottimale finora esibita con pieno, normale diritto dalla Germania, come un monito arrivato "al momento giusto". Infatti, a suo parere, un ulteriore aiuto tedesco ai Paesi del Sud minerebbe le forze della Repubblica federale. L'impennata del giornale, che non è da "boulevard", cioè popolare, o sguaiato, come la Bild, è tutt'altro che esagerata. La tentazione che solletica Moody's, e che fa saltare i nervi ai tedeschi più sensibili, si basa proprio sull'esposizione giudicata eccessiva, rischiosa, nell'azione di salvataggio delle economie più deboli. I responsabili politici, non tutti ma non pochi, e molti economisti hanno spiegato che la nota di Moody's dovrebbe avere un effetto limitato; ma quella nota ha aumentato l'inquietudine di molti tedeschi. E penso abbia smorzato, almeno in parte, l'euforia di coloro che giudicavano lusinghiero il fatto che gli investitori pagassero per prestare il denaro a Berlino, mentre interessi dissanguanti si abbattevano e si abbattono sui Paesi del Sud. Le varie indagini d'opinione rivelano puntuali che un cospicuo numero di tedeschi è ostile a nuovi piani di salvataggio, al punto da auspicare l'uscita della Grecia dalla zona euro, e giudica un grave errore avervi ammesso la Spagna e l'Italia. L'avvertimento di Moody's indebolisce la politica di Angela Merkel. La quale subisce la fronda euroscettica dei due partiti alleati: di quello liberale (Fdp) e di quello bavarese (Csu). Ed è richiamata all'ordine, o comunque rallentata nelle decisioni, dalla Corte costituzionale, pignola, puntigliosa fin che si vuole, ma la sola grande istituzione europea impegnata a valutare le implicazioni di una progressiva integrazione europea per i diritti sovrani della nazione. Le altre corti costituzionali dovrebbero prendere i giudici di Karlsruhe come esempio. Anche se essi pensano e giudicano in tempi troppo lunghi, quindi disastrosi, in una crisi economica in cui i mercati sono veloci come falchi e avvoltoi. Ma Gulliver si muove piano a Lilliput. Ha i suoi ritmi, precisi, tanto lenti, timidi, quanto inarrestabili. Esasperanti. Angela Merkel è costretta a slalom politici acrobatici, perché al Bundestag le capita di dover ricorrere ai voti dell'opposizione socialdemocratica, venendole a mancare quelli degli alleati. In un'intervista al Passauer Neue Presse, Patrick Dœring, segretario generale del partito liberale, ha spiegato che la Grecia potrebbe ritrovare una certa competitività fuori dall'euro. Dello stesso parere è un altro liberale, Philipp Rœsier, vice cancelliere e ministro dell'economia. Alcuni esponenti della Csu (versione bavarese della Cdu di Angela Merkel) suggeriscono che i greci comincino già a pagare almeno in parte gli stipendi dei funzionari con le dracme rimaste nella Banca centrale. In sostanza a compiere un passo decisivo fuori dall'euro. Ma cerchiamo di tradurre in qualche cifra significativa i lillipuziani insediatisi sul grande corpo del nostro Gulliver, al punto da ridurre la sua libertà di movimento. Sono cifre che spiegano perché Moody's, giudicandole un rischio, minaccia di togliere alla Germania almeno una delle tre preziose "A" che distinguono i primi della classe, stando ai criteri dell'agenzia di rating americana. L'aiuto alla zona euro aumenterebbe il debito sovrano tedesco (oggi di 83,5% del Pil) di 12-14 punti. La Germania contribuisce per il 27,1 % ai meccanismi di solidarietà, vale a dire che è impegnata per circa 320 miliardi. E ancora le banche tedesche detengono più di 273 miliardi di euro in obbligazioni. Senza contare i crediti della Bundesbank, sempre con i Paesi membri dell'eurozona. È una rapida contabilità che rivela come i lillipuziani siano invadenti. Ma se Gulliver tentasse di scrollarseli di dosso pagherebbe un prezzo molto più caro. Si calcola che il fallimento della zona euro costerebbe alla Germania almeno il 10% del suo Pil. Oltre all'incalcolabile prezzo politico e storico. Un grande dramma economico e finanziario è anche una tragedia umana non traducibile in cifre. Come del resto un approssimativo numero di miliardi non è convertibile in lillipuziani. Un vecchio cancelliere in pensione, Helmut Kohl, che una ventina d'anni fa scoprì sotto le macerie del comunismo Angela Merkel, continua a ripetere in questi giorni che ci vuole più coraggio e meno contabilità.
Nichi e gli arruffapopoli - Marco Bracconi
Che Tonino sogni una liason con Grillo non è una sorpresa. I due si somigliano come due gocce d'acqua. E da tempo giocano allo stesso gioco. Trasformare, in nome del popolo o della gente, l'opposizione in un gioco al massacro. E non è antipolitica. Piuttosto, una strategia politica che usa l'antipolitica ai suoi fini. Poco entrambi hanno a che fare con la sinistra. E se qualcuno li scambia o li ha scambiati per la sinistra è perché la sinistra che dovrebbe esserci non è un bel vedere. Ma Nichi Vendola no. Nel suo fare c'è un tocco di poetico populismo, un certo retrogusto per la vertigine verbale e un non-so-che di minoritario che si compiace di essere tale. Ma il leader di Sel è uno che ha il senso dello Stato e delle istituzioni. E una storia non solo personale, ma anche politica, da difendere. Per questo non si consegnerà ai furbetti del vaffanculo. A meno che non lo si lasci solo. Lui e la sua gente. E non farlo sentire solo, piaccia o no, è anche compito del Pd.
Il pm Ingroia da Palermo al Guatemala. Il Csm dà via libera al trasferimento
ROMA - Via libera del Consiglio superiore della magistratura al collocamento fuori ruolo del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che per un anno andrà in Guatemala incaricato dall'Onu nella lotta al narcotraffico. L'ok del Plenum è arrivato dopo un dibattito, durato più di un'ora, nel quale non sono mancati accenti polemici. Al momento della votazione i sì sono stati 23, due gli astenuti, 4 i voti contrari. Ingroia non sarà quindi in aula a sostenere l'accusa quando il giudice per le indagini preliminari di Palermo dovrà decidere sulle richieste di rinvio 1 a giudizio presentate dalla procura a conclusione dell'inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia coordinata dallo stesso Ingroia. Un addio all'Italia, quello del pubblico ministero, non privo di polemiche. "Sono cosciente che forse lasciare l'Italia per un po' possa allentare la pressione su Palermo, vista la campagna di stampa che ci ha investito soprattutto negli ultimi tempi e che rischia di mettere in cattiva luce le indagini finora svolte dal mio ufficio. Poi devo fare una constatazione amara: all'estero si è più apprezzati", ha spiegato in una recente intervista 2a Repubblica.
Immigrati, il "ravvedimento" è legge. Emergeranno 400 mila invisibili - V.Polchi
ROMA - "Nelle stime della Caritas 1 potrebbe portare alla luce del sole dai 200 ai 400mila immigrati invisibili. È la regolarizzazione 2012, il "ravvedimento operoso 2" per chi dà lavoro a immigrati senza documenti. Il testo è stato pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale. La finestra è di un mese: si parte il 15 settembre. La legge "Rosarno". La sanatoria è contenuta in una norma transitoria approvata il 6 luglio scorso con la "legge Rosarno": il decreto legislativo che introduce pene più severe per chi impiega stranieri irregolari e un permesso di soggiorno per l'immigrato che denuncia uno sfruttamento grave. La norma transitoria prevede, appunto, il "ravvedimento operoso": i datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze extracomunitari irregolari, potranno dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro allo Sportello unico per l'immigrazione. Insomma, potranno regolarizzarli. Quando? Per motivi tecnici la finestra è stata spostata in avanti di 15 giorni: dal 15 di settembre al 15 ottobre. La regolarizzazione di settembre. Ecco cosa dice la disposizione transitoria: "I datori di lavoro italiani o cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea, ovvero i datori di lavoro stranieri in possesso della carta di soggiorno che, alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo occupano irregolarmente alle proprie dipendenze da almeno tre mesi lavoratori stranieri presenti nel territorio nazionale in modo ininterrotto almeno dalla data del 31 dicembre 2011, o precedentemente, possono dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro allo sportello unico per l'immigrazione. La dichiarazione è presentata dal 15 settembre al 15 ottobre 2012 con le modalità stabilite con decreto di natura non regolamentare". Non solo. "In ogni caso, la presenza sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011 deve essere attestata da documentazione proveniente da organismi pubblici". Il testo completo dell'articolo 5 è pubblicato in Gazzetta ufficiale 3.
Corsera - 26.7.12
Draghi: «La Bce pronta a qualunque cosa per salvare l'euro. E questo basterà»
«All'interno del proprio mandato, la Bce è pronta a fare qualunque cosa per preservare l'euro, e credetemi, questo basterà». È intervenuto con forza il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, nel corso della Global Investment Conference, organizzata dal governo britannico a Londra. «Non è possibile immaginare la possibilità che un Paese esca dall'Eurozona» aggiunge inoltre. E sulle sue parole, sia lo spread Btp-Bund sia quello Bonos-Bund, hanno iniziato a ridursi. La soluzione del problema degli spread, e quindi di rendimenti troppo elevati sul debito sovrano di alcuni Paesi dell'Eurozona, ha precisato il banchiere centrale, «rientra nel mandato della Bce, nella misura in cui il livello di questi premi di rischio impedisce la giusta trasmissione delle decisioni di politica monetaria» prese dalla Banca centrale. «PIÙ UNIONE» - L'Eurozona «ha bisogno di più unione» peer Draghi. Che, in linea con le indicazioni dell'ultimo summit a Bruxelles sull'esigenza di un'unione bancaria, finanziaria e fiscale, ha sostenuto che «si arriverà alla condivisione della sovranità nazionale Ue». I Paesi dell'area dell'euro «hanno fatto grandi progressi» aggiunge inoltre Draghi e l'Eurozona «ha il potere per sconfiggere la speculazione sui mercati». IL FONDO - «In Italia sono state varate riforme strutturali che sono importanti per cambiare la pubblica amministrazione e rendere il mercato del lavoro più flessibile e inclusivo», ha affermato poi il portavoce del Fmi David Hawley. Sono «riforme che aumenteranno la fiducia» a livello internazionale ma per le quali, così come per la Spagna, «è fondamentale che vengano attuate».
Crisi, Confindustria: nessuna possibilità di ripresa economica entro l'anno
Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha avuto un lungo colloquio telefonico giovedì mattina con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Al centro della «cordiale» chiacchierata non poteva che esserci la difficile situazione economica italiana ed europea. E in effetti le previsioni di Confindustria sono davvero preoccupanti. «Lo scenario globale è ulteriormente peggiorato. E in Italia la diminuzione del Pil proseguirà». Con la chiusura del secondo trimestre con tutti gli indici negativi si sono annullate «le probabilità di rilancio nella seconda metà dell'anno» si legge nella Congiuntura Flash del Centro Studi di Confindustria. RILANCIO? NON NEL 2012 - «Il secondo trimestre - si legge nell'analisi mensile - si è chiuso con tutti gli indicatori congiunturali in ribasso, soprattutto i nuovi ordini, annullando le probabilità di rilancio nella seconda metà dell'anno; c'è qualche timido segnale di rallentamento della flessione a partire dall'estate inoltrata». Pur essendo «partita dalla periferia, la contrazione dell'attività economica ha ormai coinvolto le economie core». Dall'Eurozona le onde recessive si allargano al resto del mondo, che di per sè non gode di ottima salute, anche perchè «la BCE agisce in misura limitata sia con gli strumenti ordinari (tassi) sia con quelli straordinari (acquisto diretto di titoli di Stato), per vincoli politico-culturali più che istituzionali». SPIRALE DEPRESSIVA IN EUROLANDIA - Per l'uscita dalla crisi, «quasi tutto ora dipende dall'evoluzione del quadro in Eurolandia, che sempre più appare intrappolata in una spirale depressiva, a causa non tanto di aggiustamenti ineluttabili quanto dell'incertezza e dei danni che la gestione europea della crisi provoca, tra l'altro con politiche di risanamento troppo restrittive». È quanto si legge nel rapporto del Centro Studi di Confindustria, che sottolinea come l'azione della Bce sia frenata «da vincoli politico-culturali più che istituzionali». CREDIT CRUNCH SI ACCENTUA - Il credit crunch si accentua: in Italia a maggio i prestiti alle imprese sono scesi dello 0,7%, dopo il recupero di aprile che aveva interrotto sei mesi di cali consecutivi, e sono dell'1,8% sotto il livello di settembre 2011 (dati destagionalizzati). Il 32,9% delle imprese ha registrato condizioni di credito peggiori nel 2° trimestre e il 26,1% liquidità insufficiente per il terzo. OCCUPAZIONE - «Il progressivo deterioramento delle prospettive occupazionali è confermato dalle attese delle imprese, che pure proseguono nel tentativo di salvaguardare il capitale umano». Lo rileva Confindustria nella sua Congiuntura Flash. Non si svuota, infatti, il bacino di persone in CIG, che è stato stimato dal CSC pari a 370mila unitá di lavoro standard in giugno (+36,2% rispetto all'agosto 2011). CAMUSSO - «Ci aspetta un autunno caldo? Per il momento ci aspetta un agosto preoccupante...» Lo ha detto il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, a margine del presidio organizzato con Cisl e Uil al Pantheon. «Credo che faremo di tutto, come necessario, perchè le iniziative siano il più possibile unitarie».
La creatività al potere per trovare lavoro - Eva Perasso
MILANO - Creare un sito Internet ad hoc per il potenziale datore di lavoro da cui vorresti farti assumere, una pagina di bit adulanti per esprimere quanto ami l'azienda di cui ambisci diventare fedele impiegato. O un sito, candidamente e sfacciatamente esplicito, per illustrare le tue qualità. L'auto-promozione come strumento cruciale del business non è certo una novità: da anni libri, siti e corsi si propongono d'istruire lavoratori e aspiranti tali su come vendere al meglio le proprie carte professionali. Adesso, però, i tempi sono più duri. E i giovani, soprattutto quelli che cercano il primo impiego, iniziano a sorprendere la disoccupazione che li aspetta al varco con strategie di marketing creativo di se stessi per sconfiggerla ed ottenere il benedetto impiego. Agli Stati Uniti, ovviamente, la leadership della tendenza. DAL SITO ALL'ASSUNZIONE - Bianca Cadloni è una giovane esperta di social media, e voleva farsi assumere dal suo ristorante preferito, il Chiplote. Non ci è riuscita, ma grazie al sito che aveva creato per l'occasione, ha ottenuto un lavoro ancora migliore, presso l'agenzia pubblicitaria Cactus. Storia simile quella di Alice Lee, dove aprendo una porticina - sul web - si è aperto un portone nel mondo del lavoro. Alice è una studentessa universitaria di 20 anni, che possiede un account sul social fotografico Instagram e di cui è grande fan. Per farsi notare, crea un bellissimo sito «Caro Instagram, con amore, Alice». Instagram nota ma non assume. Path, un'azienda di applicazioni per smartphone, nota e assume. E Matthew Epstein, dopo aver lanciato il sito GooglePleaseHireMe.com, è stato assunto da una start-up di San Francisco, SigFig. INTERNET, GIORNALI E GENITORI - La pubblicità percorre nuove e vecchie strade. Anche la pubblicità personale. Se ne occupa con successo il sito CareerBliss letteralmente "la beatitudine della carriera"), che oltre a offrire un potente strumento di ricerca per trovare "un lavoro più felice", con milioni di contatti tra datori di lavoro, recensioni di aziende e salari, offre aiuto e consigli con articoli sostanziosi tipo "Come rientrare nel mondo del lavoro in stile Batman", elaborando strategie per tornare in carriera come un supereroe. Oltre al web come piattaforma di lancio, con siti e annunci personalizzati, si può sempre far affidamento su supporti più tradizionali. Bennet Olson, 22enne statunitense, ha fatto girare il suo curriculum su un tabellone pubblicitario elettronico con lanci da otto secondi per 24 ore: l'attenzione mediatica non si è fatta attendere, e nel giro di un mese il ragazzo era assunto nel dipartimento vendite&marketing di un'azienda multimediale. A Mackaly, nel Queensland, il padre di un diciottenne in cerca di tirocinio da cinque mesi, ha comprato uno spazio sul giornale locale per pubblicare il seguente annuncio: «Locale. Stacanovista. Affidabile. Disperato. Non molla...«. Ma la trovata più peculiare della domanda d'impiego era un'altra: il genitore offriva fornitura di birra gratis per un anno al futuro datore di lavoro del figlio. A CAVAL ASSUNTO... - Quello di Mackaly non è un caso isolato. Accattivarsi i propri contatti di lavoro con presenti più o meno di valore è una strategia discutibile, più o meno accettata e diffusa secondo la regione del mondo. Ciò che in molti considerano uno strumento fortunatamente obsoleto, torna alla ribalta in forme e contesti nuovi e che nuovamente fanno riflettere. Ray Wellington, un esperto americano di e-commerce, cercava lavoro in Australia. Nelle mail che ha inviato ai potenziali datori di lavoro, offriva un set di coltelli da bistecca a colui che avrebbe scommesso sul giovane talento a stelle e strisce, se stesso. «Ho cercato di pensare a qualcosa di furbo per attirare potenziali datori di lavoro», ha spiegato il giovane al quotidiano australiano Financial Review. Succede anche da noi: «Quando ho contattato il mio referente per un posto stagionale in un villaggio in Costa Smeralda - racconta Serena, 28 anni - mi ha suggerito di portare un regalo alla proprietaria con cui avrei avuto il colloquio. Ero perplessa, ma mi hanno avvisato che l'altra candidata ci aveva già pensato... Così ho portato una bottiglia di passito dolce. Apparentemente, ha funzionato: le sono stata simpatica, e mi ha assunta».
Un traballante sistema anfibio - Giovanni Sartori
Quando il presidente Napolitano insediò un governo tecnico (di tecnici) non era chiaro come quel governo dovesse o potesse governare. In Italia il solo precedente di un'esperienza analoga è stato il governo Dini; ma fu un caso molto anomalo. Quel governo fu indicato al presidente Scalfaro da Berlusconi (quando fu sbalzato di sella a sorpresa da Bossi), e quindi nacque come un esecutivo implicitamente di centrodestra; ma poi Berlusconi gli votò quasi subito contro (era alle prime armi) e la sinistra colse l'occasione per sostenerlo come un governo, appunto, di sinistra. Dini capì esattamente come questa strana genesi non impediva a un governo, appunto, tecnico di governare. E nei limiti di elasticità che la sinistra gli doveva consentire, governò bene. Resta il fatto che il governo Dini fu un caso a sé che non fa precedente. Tornando a noi, Monti si è trovato d'un tratto insediato a palazzo Chigi per decisione, s'intende, del capo dello Stato, ma anche con il lieto consenso (sì, credo che fosse lieto) di un Berlusconi che si ritirava per non dover affrontare una crisi internazionale che capiva di non avere l'autorità di gestire. In teoria Monti poteva scegliere di governare, invocando l'emergenza, per decreto e chiedendo sistematicamente la fiducia, oppure di cercare di governare in condominio con il Parlamento. Ma di fatto ha man mano scelto questa seconda via, creando così un sistema anfibio, mezzo carne e mezzo pesce, mezzo acquatico e mezzo terrestre, che ha finito per invischiarlo nei giochetti di un Parlamento che si preparava ad affrontare elezioni particolarmente difficili (per chi vuol restare). Si è detto che Monti non poteva rischiare un voto di sfiducia, e che questo spiega il sistema anfibio nel quale si è cacciato. Ma questa spiegazione non mi convince. Uno dei ministri del governo Monti, Elsa Fornero, ha più volte dichiarato che un voto di sfiducia manderebbe tutti a casa. Ma non è esattamente così. Se Monti venisse sfiduciato, il capo dello Stato dovrebbe in primo luogo accertare se nell'attuale Parlamento esista la possibilità di governi alternativi. A me non sembra. Se così, il presidente Napolitano è tenuto ad incaricare Monti di restare in carica per il disbrigo degli affari correnti (che, vedi caso, sono e restano «grandi affari») e per gestire le elezioni. Quindi non è necessariamente vero che in tal caso la credibilità internazionale del nostro Paese verrebbe meno. Tantopiù che un Monti che gestisce le elezioni le potrebbe anche vincere. Ha certo il sostegno nell'elettorato (inclusi molti dei molti che non voterebbero) per mettere rapidamente assieme - come fece a suo tempo Berlusconi - un partito di persone nuove e credibili. Queste sono soltanto mie congetture. Però è vero che Monti si indebolisce ogni volta che dichiara che non si ripresenterà alle prossime elezioni (s'intende come capo del governo, visto che è già senatore a vita). In politica è spesso sbagliato dichiarare anzitempo cosa intendiamo fare. Berlusconi insegna: mai scoprire le proprie carte.
Circa 15mila dollari per pianificare la strage. La lista della "spesa" di James Holmes - Guido Olimpio
WASHINGTON - Quanto ha speso James Holmes per organizzare l'arsenale usato nella strage di Aurora? Qualcuno ha azzardato la cifra di 15 mila dollari, denaro necessario all'acquisto di armi, munizioni e il materiale per costruire più di 30 bombe. Non è un dato preciso, piuttosto una supposizione. Più preciso (anche se incompleto) il calcolo che tiene conto dei "pezzi" sequestrati dalla polizia, delle ricevute trovate, delle ordinazioni via Internet. E la cifra supera di poco i 7 mila dollari. Qui di seguito la lista della spesa: Fucile d'assalto Ar-15 1146 dollari. Fucile a pompa 700 dollari. 2 Pistole Glock 1300 (650 dollari l'una). 3000 proiettili per Ar 15 1000 dollari (circa). 3000 proiettili per pistola 1200 dollari. 350 proiettili per fucile a pompa 200 dollari Elmetto tattico 136 dollari. Gas lacrimogeno 36 dollari Maschera anti gas 100 dollari. Corpetto tattico 107 dollari. Guanti tattici 36 dollari. Giubbotto anti-proiettile 979 dollari. Porta caricatori triplo per pistola 52.99 dollari Porta caricatori triplo per fucile 52.99 dollari Pugnale 77.99 dollari. GLI ACQUISTI SUL WEB - Una buona parte dell'equipaggiamento e tutte le munizioni sono state comprate sul web. Operazione che richiede pochi minuti. E' sufficiente fornire generalità, indirizzo e numero di carta di credito. L'offerta è ampia, con scontri e prezzi speciali. Per cui è possibile che il killer sia stato "sotto" i 7 mila dollari. L'altra domanda riguarda le risorse economiche di Holmes. L'omicida aveva una borsa di studio di 26 mila dollari con la quale doveva pagarsi vitto e alloggio durante il corso all'università. E poiché le ricerche erano piuttosto impegnative non aveva tempo di svolgere lavori part-time. C'è il sospetto che James abbia usato parte della "borsa" per armarsi. A meno che non abbia ricevuto un aiuto dalla famiglia. Risvolti sui quali sono in corso indagini.
Europa - 26.7.12
Nestlé, dov'è lo scandalo? - Giovanni Cocconi
«Anche Adriano Olivetti era accusato di essere paternalista». L'idea dello scambio padri-figli proposto dalla Nestlé-Perugina di San Sisto (Perugia) non scandalizza neanche un po' Bruno Manghi, sociologo ed ex sindacalista Cisl. «Una provocazione? Macché. Anzi una proposta già messa in pratica, con il consenso tacito dei sindacati, anche in Italia e anche di recente, per esempio all'Anas e alle Poste». Eppure oggi allo stabilimento umbro si sciopererà due ore per ogni turno, anche per dire no alla "marchionizzazione della Perugina", come l'ha definita con toni un po' fuori posto il segretario della Cgil Umbria Mario Bravi. L'idea di Gianluigi Toia, direttore delle relazioni industriali della Nestlé Italia, fa però discutere: part time da 30 ore settimanali ai padri in cambio di un posto ai figli. Uno stipendio e mezzo in famiglia e forze fresche in azienda, secondo la Nestlé. Un modo per dividere un posto di lavoro fisso in due precari, ribattono i sindacati che hanno deciso il blocco di oggi in modo unitario in un'azienda con un vissuto di relazioni industriali relativamente buone. C'è qualcosa di nuovo anzi di antico nel "patto generazionale" proposto dalla Nestlé. «Se vai a studiare i cognomi dei dipendenti di molte fabbriche, anche della Fiat in certi anni, scopri che sono gli stessi, che il lavoro si è spesso tramandato di padre in figlio», spiega Manghi. «E non solo in Italia: la Michelin, per esempio, ha una storia di grande paternalismo». Un regime di job-property familiare che non piace, per esempio, a un esperto di diritto del lavoro come Pietro Ichino. Manghi, invece, non si straccia le vesti e invita i sindacati a guardare dentro la proposta prima di rigettarla. «Forse perché di fronte alla delinquenza del capitalismo finanziario un po' di nostalgia è giustificata». E a chi dice che l'assunzione dei figli è ingiusta rispetto ai tanti che cercano un lavoro senza essere "figli di" il sociologo risponde: «Ma non esiste il concorso universale, le aziende private non assumono per concorso e spesso assumono il figlio perché il padre ha lavorato bene. E poi dove sta scritto che un giovane più intelligente ha più diritto al lavoro di uno meno intelligente?». L'idea Nestlé (e sembra essere questa l'unica vera novità) è una risposta alla riforma Fornero (una "boiata" Squinzi dixit) che, alzando l'età di pensionamento, impedisce alle aziende di liberarsi dei lavoratori più anziani e, spesso, con gli stipendi più alti. Due anni fa Unicredit, la più internazionale delle banche italiane, accettò la proposta avanzata dai sindacati di assumere i figli dei dipendenti che avessero deciso il prepensionamento, ma fissando alcuni paletti come laurea e conoscenza dell'inglese. Ma in tempi di vacche magre scivoli e pensionamenti anticipati, magari a carico della collettività, sono un lusso che non possiamo più permetterci. Di qui l'idea di Nestlé che altre multinazionali potrebbero seguire e che farà discutere ancora, dopo lo sciopero di oggi.