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Politica Italiana


 

Manifesto - 27.7.12

 

Il grande ricatto tra lavoro e salute - Gugliemo Ragazzino

Cosa avrà deciso ieri pomeriggio il gip Patrizia Todisco? avrà davvero firmato «il provvedimento di sequestro (senza facoltà d'uso) degli impianti dell'area a caldo dell'Ilva di Taranto, oppure avrà accolto i miti, unanimi consigli di governo, padronato, sindacato metalmeccanico, ricamati sul giornale della Confindustria? Si sarà fidata dei mediatori della Regione? Per una volta, il giornale non aveva rampogne, ma comprensione e sostegno ai lavoratori che bloccavano le strade nazionali e il centro della Città, si addensavano intorno alle sedi della giustizia e della politica, per difendere il proprio lavoro e insieme l'azienda e i proprietari Riva. Dal canto loro, i verdi - il presidente Bonelli è consigliere comunale a Taranto - descrivono una città divisa tra gli operai e chi non vuole morire di cancro. Se i sindacati vogliono «fare presto», è per prendere la guida delle manifestazioni ed evitare che la situazione degeneri e diventi ingovernabile: in effetti si aspettano che la decisione del gip sarà contro di loro. I lavoratori sanno che il fermo dell'area a caldo bloccherà l'intera acciaieria e quindi porterà in un breve futuro al loro licenziamento; altre prospettive di lavoro - a Taranto! - non riescono a immaginarne. Tanto meno riescono a immaginare una città o forse un civiltà prive del loro prodotto, del loro orgoglioso lavoro: fare acciaio, base di tutto il resto che esiste al mondo. Riva è un pessimo padrone, dicono i metalmeccanici; ma spetta a noi dirlo, a nessun altro. Per competente che sia, un giudice non può condannare Riva e costringerlo a chiudere la fabbrica. La fabbrica è anche nostra che lavoriamo, che viviamo lì dentro. «Noi non meritiamo condanne». D'altra parte la fabbrica di Riva è pericolosa da sempre e sono gli operai i primi a morirne. Nell'udienza preliminare di maggio per 30 dirigenti dell'Italsider, vecchio nome, poi mutato in quello ancora più vecchio di Ilva, risuona l'accusa di aver provocato la morte di 15 operai facendoli lavorare senza protezione in ambienti di gas tossici e amianto. La risposta, a nome di tutti difensori della «fabbrica siderurgica più grande d'Europa», la fornisce in un'intervista lo stesso ministro dell'ambiente Clini che una volta di più parla all'incontrario su Il Sole 24 Ore: non si può condannare uno per vicende passate. «L'Ilva di Taranto non va fermata. Il giudizio sui rischi connessi ai processi industriali dello stabilimento va attualizzato». Qualche mese prima, in gennaio, dalla perizia veniva anche un'accusa un po' diversa. Emergeva «la quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento». Uno Stato padrone di sé avrebbe imposto un ciclo di riconversione degli impianti, con molti lavori in cui impiegare lavoratori competenti per tutto il tempo necessario. Il nostro Stato è pezzente e incatenato; quel poco che aveva lo ha ceduto all'Europa che lo costringe a non fare niente e poi lo rimprovera per non avere fatto niente. Possiamo sperare che un giudice più potente rovesci la decisione di Patrizia Todisco e si dia così, secondo il modello consueto, «tempo al tempo»?

 

Operai a oltranza - F.C.

TARANTO - All'Ilva è scaduto il tempo dell'attesa. Il gip Patrizia Todisco ha firmato ieri il provvedimento di sequestro, senza facoltà d'uso, di sei reparti dell'area a caldo dello stabilimento siderurgico, sotto accusa per disastro ambientale. «Dalla fabbrica malattie e morte», scrive il magistrato che ha disposto per otto indagati gli arresti domiciliari. Nomi eccellenti: il patron dell'Ilva, Emilio Riva, il figlio Nicola, ex presidente dello stabilimento, Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento tarantino, Marco Andelmi, capo dell'area parchi minerali, Angelo Cavallo, capo dell'area agglomerato, Ivan Dimaggio, capo area delle cokerie, Salvatore De Felice, capo area dell'altoforno e Salvatore D'Alò, capo area delle acciaierie 1 e 2 e capo area del reparto dove avviene la gestione dei materiali ferrosi. Le decisioni rappresentano il terminale dell'inchiesta su inquinamento e salute avviata dalla procura della repubblica due anni e mezzo fa. Diffusasi la notizia, è scattata la mobilitazione dei lavoratori metalmeccanici. Le segreterie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm, nel primissimo pomeriggio, hanno lanciato la parola d'ordine. Sciopero ad oltranza e manifestazione a Taranto. Un lungo corteo, alle 14,30, ha raggiunto la prefettura partendo dalle portinerie dell'Ilva. E' sembrata la ripetizione della marcia dei settemila dello scorso 30 marzo, quando, al termine dell'incidente probatorio nell'inchiesta sull'inquinamento, migliaia di lavoratori, senza insegne sindacali e con striscioni «suggeriti» dall'azienda, che sposavano in pieno le tesi di Riva contro le indagini della magistratura, si riversarono in città attraversando le vie d'accesso. Questa volta però, la manifestazione è stata preceduta dai blocchi di alcuni punti d'accesso a Taranto. Il ponte girevole è rimasto inaccessibile alle auto anche dopo il tramonto. Nella giornata di oggi è molto probabile che l'emergenza possa continuare. Molto dipenderà dall'assemblea convocata in mattinata, dalle 7 alle 9. E dall'atteggiamento della nuova direzione dell'Ilva che ieri sera ha incontrato le segreterie dei sindacati. Gli operai mobilitati dalle organizzazioni di categoria, ma anche quelli - tanti, la maggioranza nello stabilimento - non iscritti alle tre sigle rappresentative dei metalmeccanici potrebbero decidere di non lasciare la strada. Gli interrogativi che corrono sono semplici e drammatici: cosa sarà di loro, del loro destino, ora che il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento siderurgico, praticamente il cuore della produzione dell'acciaio italiano, ferma tutto? I sigilli sono previsti per i parchi minerali, le cokerie, l'area agglomerazione, l'area altiforni, le acciaierie e la gestione dei materiali ferrosi. Sono state individuate anche tre figure tecniche (due dell'Arpa Puglia e uno dei Dipartimenti di prevenzione dell'Asl di Bari) che dovranno sovrintendere alle operazioni e garantire il rispetto delle norme di sicurezza. Ci vorrà certamente del tempo, nell'ordine di qualche settimana, per fermare effettivamente l'area a caldo. Nel frattempo è ipotizzabile un ricorso al Tribunale del riesame da parte dell'Ilva contro il provvedimento preso dal giudice per le indagini preliminari. Una delegazione capeggiata dai segretari generali dei sindacati metalmeccanici: Donato Stefanelli per la Fiom Cgil, Mimmo Panarelli per la Fim Cisl e Antonio Talò per la Uilm, è stata ricevuta al termine della marcia di ieri pomeriggio dal prefetto di Taranto Claudio Sammartino. Il prefetto ha cercato di rassicurare i sindacati e i lavoratori ribadendo le parole del ministro dell'Ambiente Corrado Clini circa la necessità che continui l'attività industriale dello stabilimento siderurgico e che siano assicurati anche i posti di lavoro. Su questa linea si era già espresso il neo presidente dell'Ilva Bruno Ferrante fino alla vigilia del sequestro. Ma ora, di fronte al provvedimento giudiziario, di fronte a 5mila posti di lavoro che traballano, l'azienda cosa farà? E' una delle grandi incognite che, appunto, angustiano lavoratori e sindacati, al centro dei pensieri nella manifestazione di ieri e dell'assemblea di oggi. Ieri proprio Ferrante, in una nota stampa, ha espresso la propria «amarezza» per le persone «che si sono viste notificare gli arresti domiciliari, in particolare per i sei dirigenti dell'Ilva di Taranto, tecnici stimati a livello mondiale e che rappresentano l'eccellenza lavorativa del Sud Italia». Ferrante ha aggiunto: «Non posso esprimermi ancora sul sequestro degli impianti in quanto leggerò con attenzione quanto ci prescrive la magistratura e farò le valutazioni del caso. Voglio però dire - ha aggiunto il presidente dell'Ilva - che non mancherà l'impegno, come non è mai mancato in questi anni, per tutelare in tutte le sedi opportune l'occupazione e il futuro dell'Ilva che è patrimonio dell'intero Paese». Durante la marcia degli operai, che ha generato nuove tensioni a Taranto, si respirava la paura dei lavoratori di tutti i reparti. Dipendenti mobilitati da una sola parola d'ordine: difendere il lavoro. L'Ilva è una fabbrica con una classe lavoratrice di età media intorno ai 30-35 anni. In tanti sono sposati con figli, mutui a carico e un lunario da sbarcare nel Mezzogiorno dove il lavoro è sempre più un miraggio. Finito il tempo dell'industria di Stato, la privatizzazione e l'avvento di Riva hanno modificato il paesaggio umano della classe operaia. Ieri era proprio il terrore di perdere il posto di lavoro e di non avere alternative a spingere gli operai a manifestare. Con i timori per l'ordine pubblico che hanno mobilitato a centinaia le forze dell'ordine. Difficile capire quale possa essere l'exit strategy da adottare per questa vicenda. Una sola è la certezza, ascoltando gli operai, le loro storie, i drammi e le paure, ascoltando anche l'ansia della città. Da ieri il Sud vive una nuova, drammatica, emergenza. Il cappio che lega Taranto, figlio del dilemma ambiente e lavoro, stringe sempre più forte una comunità. Fino a farle rischiare l'asfissia.

 

Vendola: La Regione sarà parte civile contro l'azienda - Gianmario Leone

Il paventato sequestro degli impianti dell'Ilva di Taranto, ha dato vita nella giornata di ieri ad una serie di dichiarazioni su un evento certamente preoccupante, anche considerata l'attuale delicatissima situazione economica vissuta dal paese. I leader di Cgil, Cisl e Uil, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, hanno espresso «grande preoccupazione per la drammatica situazione occupazionale» dell'Ilva di Taranto e hanno chiesto, attraverso una nota congiunta, impegno e volontà anche da parte della proprietà affinché vengano salvati gli impianti, con la loro messa a norma, e così le migliaia di posti di lavoro. «La produzione di acciaio è indispensabile non solo per garantire l'occupazione a Taranto e lo sviluppo produttivo dell'area, ma anche per tutelare il sistema produttivo italiano, che si vedrebbe costretto ad importare da paesi terzi una materia prima indispensabile», affermano i tre segretari generali. Ma la drammatica situazione occupazionale dell'Ilva di Taranto, rischia di avere un effetto domino devastante, compromettendo anche gli altri stabilimenti di Genova e Novi Ligure. «Il protocollo sottoscritto ieri da Governo, Regione ed Enti Locali è un atto importante che segna la volontà di impegnare risorse pubbliche per la bonifica e il riassetto del territorio sull'intera area tarantina», affermano i tre leader sindacali. «La Puglia si costituirà parte civile se si dovesse arrivare al processo nell'inchiesta della magistratura sull'Ilva: lo ha annunciato ieri il governatore della Puglia, Nichi Vendola, dopo aver partecipato all'incontro al ministero dell'ambiente in cui è stata raggiunta un'intesa sulle prime bonifiche del disastro ambientale provocato dall'Ilva negli anni: «Se la magistratura avesse indicato delle prescrizioni, l'Ilva avrebbe il dovere di adempierle - aggiunge Vendola interrompendo l'incontro romano per correre a Taranto -. In questo momento il pensiero è per gli operai e le loro famiglie, a cui va tutta la solidarietà di chi vive con grande apprensione quello che sarebbe disastroso per Taranto, la Puglia e l'economia italiana». A ruota il segretario nazionale del PD, Luigi Bersani: «Sono molto preoccupato per la sorte dell'Ilva di Taranto. I gruppi parlamentari del Partito democratico hanno già chiesto al governo di riferire alle Camere. Ma è decisivo che nel contesto delle iniziative della magistratura sia possibile mantenere l'attività produttiva e l'occupazione del più grande stabilimento siderurgico d'Europa. Non può essere - ha aggiunto - che un insediamento così importante per l'industria italiana, per l'economia della Puglia e per la vita di 20mila famiglie di lavoratori alle quali va tutta la mia solidarietà, non possa essere preservato nel pieno rispetto delle compatibilità ambientali». «Il governo deve riferire prima possibile, probabilmente martedì della prossima settimana, sulla situazione all'Ilva di Taranto»: questa la sollecitazione del presidente della Camera, Gianfranco Fini, in conferenza dei capigruppo accogliendo la richiesta del presidente del deputati del Pd, Dario Franceschini, appoggiata da tutti gli altri gruppi parlamentari. «L'Italia dei Valori difende il ruolo della magistratura, condividendone totalmente - dicono Maurizio Zipponi e Felice Belisario, rispettivamente responsabile nazionale Lavoro e welfare e capogruppo al senato del partito di Di Pietro: «L'Idv, da sempre a fianco dei lavoratori, é consapevole che l'unico modo per non arrivare a questo punto era quello di investire in tecnologie e processi produttivi tali da non inquinare e non mettere in pericolo la vita dei lavoratori dell'Ilva, l'indotto e l'intera collettività tarantina». Per oggi le organizzazioni sindacali tarantine dei metalmeccanici di Fiml, Fiom e Uilm hanno programmato un'assemblea unitaria con tutti i lavoratori dello stabilimento a partire dalle 7 del mattino, ora in cui scatta il primo dei tre turni di lavoro dello stabilimento siderurgico. «Al di là delle cose che potranno accadere dice il segretario regionale della Fiom Donato Stefanelli - , da anni si è avviato un percorso per mettere a norma gli impianti e produrre nel rispetto dell'ambiente. Bisogna valorizzare le cose fatte, non siamo all'anno zero. Dieci giorni fa la Regione Puglia ha approvato una legge che interviene sulle emissioni delle polveri sottili, del benzoapirene. Anche in questo caso bisogna predisporsi affinché queste prescrizioni vadano applicate».

 

«Non ci convocano? Occupiamo la Ginori» - Riccardo Chiari

SESTO FIORENTINO - Hanno occupato la Richard Ginori, per protestare contro la schizofrenica decisione del governo Monti che li ha convocati oggi al ministero del lavoro per discutere della cassa integrazione in partenza il primo agosto, ma non li vuole al tavolo del ministero dello sviluppo economico dove si affronta il tema della possibile cessione dell'azienda. Protagonisti di un blitz che durerà almeno 48 ore sono i lavoratori che due anni fa hanno abbandonato la neonata Filctem Cgil per aderire in blocco al sindacato di base Cobas, dopo aver criticato più di una volta l'atteggiamento dei confederali di fronte alla crisi, prevalentemente finanziaria, della storica azienda di porcellane di qualità. «In fabbrica siamo il primo sindacato - racconta Giovanni Nencini della Rsu - con 120 iscritti su 337 lavoratori e con un seguito ancora maggiore. Questa mattina abbiamo fatto un'assemblea in fabbrica per fare il punto sulla mancata convocazione al tavolo di crisi, previsto per domani a Roma al ministero dello sviluppo economico, dove sarà esaminato il caso Ginori. Lo abbiamo considerato un atto gravissimo e quindi abbiamo deciso di occupare, almeno fino a domani sera. Perché al di là dei tecnicismi, cioè che la mancata convocazione sarebbe dovuta al fatto che i Cobas non firmano contratti nazionali, in contemporanea siamo invece stati convocati dal ministero del lavoro per l'accordo sulla cig. Il mancato invito al Mise ci è parso una evidente discriminazione, e il segnale della volontà politica di tenerci fuori dalle trattative per la cessione dell'azienda. A riprova, fin quando il tavolo di crisi sulla Ginori era quello regionale, eravamo tutti invitati alle riunioni con l'assessore. Ora che siamo passati a quello nazionale, la convocazione non è arrivata». Oltre all'occupazione, l'assemblea ha deciso anche di non partecipare per protesta all'incontro romano per la cassa integrazione. Le frizioni all'interno della Richard Ginori tra i sindacati confederali e quello di base, che fino al 2010 non esisteva in azienda, si sono accentuate negli ultimi giorni, dopo che a Sesto Fiorentino sono arrivate in visita allo stabilimento le delegazioni dei possibili acquirenti. Gli americani del gruppo Lenox, i piemontesi di Sambonet Rosenthal e i veneti di Pinti Inox hanno iniziato a tratteggiare con i commissari liquidatori di Ginori i contorni dei loro possibili piani industriali. Confermate le indiscrezioni sul progetto di Sambonet, con la riassunzione di un terzo degli addetti, quelli più specialistici, e la conferma delle produzioni a Sesto soltanto fino al 2016. Ugualmente doloroso il piano delle cordata veneta Pinti Inox. Mentre gli americani del gruppo Lenox, ancora non del tutto espliciti sul progetto, sono stati comunque gli unici a voler incontrare anche i lavoratori. «Noi non facciamo il tifo per nessuno se non per la Ginori e i suoi lavoratori - puntualizza Nencini - ma quantomeno le delegazione di Lenox ha avuto il buon gusto di spiegare qualcosa anche a noi operai. Quello che ci hanno detto ha degli aspetti preoccupanti, come la loro volontà di potenziare il lato commerciale rispetto a quello produttivo. Ma ha anche un elemento positivo. Loro sono forti in America e deboli in Europa, noi invece abbiamo mercato soprattutto nell'Unione europea. Questo potrebbe spingere a una sinergia. Magari concentrando alla Ginori le lavorazioni che attualmente loro svolgono fuori dagli Usa, e passando con maggior decisione alla produzione di prodotti di qualità anche fuori dal mercato nordamericano». Perplessi invece sul progetto del gruppo Lenox i sindacati confederali, che hanno puntato l'indice soprattutto sull'ipotesi che avrebbero fatto gli americani di non volersi occupare direttamente della produzione industriale.

 

Uomini e caporali, nell'oro del Sud - Lucio Pisacane e Enrico Pugliese

Agricoltura ricca e mano d'opera povera: in questa contraddizione si esprime una delle realtà più significative del capitalismo nell'agricoltura moderna delle società occidentali. Così è in tutti i paesi dove ci sono aree agricole caratterizzate da colture ortofrutticole e industriali che richiedono elevati carichi di mano d'opera concentrati in particolari periodi dell'anno. Per questo c'è bisogno di forza lavoro estremamente flessibile e solo una condizione di estrema indigenza può garantire il livello di flessibilità richiesto Da questo punto di vista gli immigrati con (o preferibilmente senza) permesso di soggiorno sono la forza lavoro ideale. In queste zone il caporalato svolge un ruolo determinante nel regolare il mercato del lavoro e tenere sotto controllo la mano d'opera. I caporali non sono nati con gli immigrati ma hanno una lunga tradizione in tutto il Mezzogiorno. Prima gestivano i lavoratori locali - portandoli quotidianamente nelle pianura di recente bonifica dalle colline circostanti più densamente abitate - ora gestiscono gli immigrati. E non si tratta di una semplice persistenza bensì di una ricomparsa con connotazioni nuove - corrispondenti a questa fase del mercato del lavoro e dell'organizzazione produttiva. Non a caso insieme al caporalato - in maniera in parte alternativa e in parte complementare - è rinato il "mercato delle braccia" che non avviene più nelle piazze dei paesi ma nei punti di svincolo del traffico locale. E' molto accreditata sulla stampa la teoria del caporale "schiavista" ed ogni tanto compaiono articoli dove la condizione dei lavoratori e il ruolo dei caporali sono rappresentati a tinte fosche (con truffe, sequestri, e perfino non chiarite scomparse di persone). D'altronde ci sono state effettivamente delle storie dell'orrore come quelle raccontate e documentate da Alessandro Leogrande in Uomini e caporali e noi stessi ne abbiamo registrato alcune nel corso della nostra ricerca. Vale perciò la pena di raccontarne una perché mostra non solo il carattere delinquenziale degli intermediatori di mano d'opera ma anche l'analogo comportamento da parte delle imprese. La vicenda è avvenuta nelle campagne della Capitanata nell'estate 2011 e riguarda cinque braccianti rumeni (e perciò cittadini della Ue ) arrivati a Foggia dopo essere stati reclutati direttamente nel loro piccolo paese di residenza nel Nord della Romania (Satu Mare). La promessa del caporale rumeno, che li aveva condotti materialmente in furgone da Satu Mare a Foggia, era stata un impiego nella raccolta di pomodori per 50 euro al giorno e un foglio di ingaggio incomprensibile per loro, in realtà un'assunzione limitata ad una settimana, utile per un eventuali controlli alle frontiere. I cinque si sono ritrovati in realtà a vivere ai margini dei campi di pomodori nello sterminato Tavoliere, senza sapere dove si trovavano, costretti a ritmi estenuanti con forti pressioni e minacce velate di non versamento della paga e finanche ritorsioni nei confronti dei familiari in patria. Dopo due settimane al limite della sopravvivenza, mangiando pomodori con fagioli in scatola e bevendo alla rete di irrigazione, i cinque scappano a piedi alle prime luci dell'alba. Un sindacalista e un padre scalabriniano li aiuteranno e gli daranno un alloggio temporaneo prima del loro ritorno in patria. I titolari dell'azienda presso la quale lavoravano, invitati a presentarsi dal sindacalista, mostrano prima di non conoscere affatto i cinque lavoratori poi addirittura li accusano di impostura. Ma realizzando il pericolo di una vertenza seria, i titolari si convincono a versare per le due settimane di lavoro una somma minima, che servirà ai cinque a malapena a coprire le spese del viaggio di ritorno. Ma casi come questo sono estremi e, appunto, eccezionali. Diversa è la realtà a livello di massa: del caporalato che coinvolge centinaia di migliaia di persone. L'impressione è che non ci sia un modello unitario di funzionamento del caporalato. Le forme che questo assume sono varie sono varie e si va dal "Caponero" di Rosarno - nome che probabilmente intende sottolineare la provenienza geografica del caporale - alle forme autorganizzate di offerta di lavoro (con un caporale trasportatore e quasi caposquadra) a forme gravi di intermediazione con duro sfruttamento lavorativo ed estrema violazione dei diritti da parte di caporali che sono dei veri e propri delinquenti. Il caporale, nel modello prevalente , si occupa di reclutare i lavoratori, soprattutto durante i periodi più intensi del lavoro agricolo e di organizzare i tempi e le modalità di lavoro. Spesso egli rappresenta l'unica persona di riferimento per gli immigrati, ai quali è preclusa la possibilità di contattare, se non addirittura individuare, il datore di lavoro. Si occupa - e questo fatto è di particolare importanza, anzi determinante - del trasporto dal luogo di insediamento abitativo al luogo di lavoro. Senza il caporale allo stato attuale delle cose i lavoratori non potrebbero recarsi sul posto di lavoro e non saprebbero neanche dove c'è lavoro. Il caporale sarà anche un delinquente - e a volte lo è - ma fornisce servizi che né le oneste istituzioni statali né gli onesti datori di lavoro forniscono. Il suo ruolo diventa più importante per il reclutamento della manodopera nelle aree caratterizzate da insediamenti abitativi marginali e larghe estensioni di terreno agricolo poco abitate e dove le aziende raggiungono dimensioni medio-grandi, come quelle della Piana del Sele e soprattutto della Capitanata. E proprio per la maggior distanza tra luogo di insediamento - stabile o, peggio ancora, temporaneo - la dipendenza dei lavoratori dal caporale è maggiore (per il trasporto ma anche per l'approvvigionamento di acqua e viveri ). E, non a caso, in Puglia si registrano le situazioni dove la violazione dei diritti umani e sociali dei lavoratori immigrati sono più gravi.

 

Quando la soluzione è una bicicletta - Lucio Pisacane e Enrico Pugliese

Il raggio di operazione dei caporali può essere molto esteso. Ma non è detto - anzi è poco probabile - che la gran massa dei lavoratori si sposti nei periodi di massima domanda di lavoro da una regione all'altra sotto il controllo dei caporali. Il quadro più frequente è quello della presenza locale del caporale che agisce su raggio medio o breve. E - c'è da ribadirlo per l'ennesima volta - è fondamentale la sua funzione di trasporto degli operai alle aziende e quindi dell'avvicinamento in senso fisico e letterale dell'offerta alla domanda di lavoro. I braccianti immigrati sanno e affermano che sarebbe difficile trovare il lavoro senza il caporale: istituzione informale e clientelare ma necessaria - in assenza di alternative - per avvicinare la domanda all'offerta di lavoro. Esistono poi le funzioni meno indispensabili e tuttavia utili soprattutto quando le distanze tra l'insediamento e l'azienda sono molto elevate o aziende e insediamenti sono lontani da centri abitati o comunque dai servizi essenziali. Essa consiste nella fornitura a prezzi altamente maggiorati di beni di primissima necessità: viveri e a volte finanche acqua. I servizi forniti dal caporale, sia che si tratti di intermediazioni di trasporto sia che si tratti di fornitura di beni, avvengono attraverso un processo di taglieggiamento più o meno grave, ma sempre non necessario ed eliminabile se le imprese rispettassero le leggi sul lavoro e le istituzioni pubbliche garantissero servizi di trasporto. Ma tutto questo non avviene. E' inutile pensare di liberarsi del caporale, aggravando le pene, se non si trova una alternativa ai servizi che esso fornisce. Un po' a questo provvede l'inventiva degli immigrati che comunque deve scontare un ambiente istituzionalmente ostile. E uno dei prodotti di questa inventiva è un mezzo di affrancamento che è anche un mezzo di trasporto è la bicicletta. La bicicletta affranca dal caporale perché affranca dalla dipendenza per il trasporto. Gli immigrati più stabili e insediati (in ghetti o alloggi semi-decenti) in prossimità del posto di lavoro preferiscono prendere contatto diretto con aziende che conoscono evitando il caporale. Possono trovare direttamente occasioni di lavoro al "mercato delle braccia" dove qualche padrone (ovviamente piccolo e locale) attinge senza l'intermediazione del caporale. Questo significa evitare un taglieggiamento di cinque euro che corrisponde a un quinto della paga. Ma non tutti ce la fanno e non in tutti casi basta la bicicletta.

 

Draghi, basta una parola - Anna Maria Merlo

PARIGI - SuperMario non si piega di fronte all'assalto degli stati «maledetti», appoggiati dal peso massimo Francia, e i mercati esultano, con borse in festa e spread in calo per Spagna e Italia. Sono bastate alcune frasi di Mario Draghi, ieri mattina a Londra alla Global Investment Conference, per far cambiare la situazione. Per il presidente della Bce, «l'eurozona ha il potere per scalfire la speculazione sui mercati». Intanto, l'Eurozona «è molto più solida di quanto si pensi - ha detto - e negli ultimi sei mesi l'area euro ha mostrato progressi straordinari»: tra l'altro, il livello di deficit e di debito pubblico, preso globalmente, è migliore di quello di altre aree, a cominciare dagli Usa. Siamo pronti - ha detto Draghi - a fare tutto quello che serve per l'euro. E, credetemi, sarà sufficiente», è la frase che ha scatenato l'ottimismo. Con la precisazione sulla Grecia, senza citarla: «Non è possibile immaginare la possibilità che un paese esca dall'eurozona». Agire sullo spread, secondo Draghi, «rientra nel mandato della Bce, nella misura in cui il livello di questi premi di rischio impedisce la giusta trasmissione delle decisioni di politica monetaria». È una presa di posizione forte che contraddice la prudenza degli ultimi mesi. In attesa dell'Unione bancaria, (che prenderà tempo prima di essere varata), e della nascita del Mes, il nuovo meccanismo salva-stati dotato di una «force de frappe» di 500 miliardi (che ben che vada non vedrà la luce prima di metà settembre, dopo la sentenza di costituzionalità della Corte di Karlsruhe), cosa può fare subito la Bce? L'Fmi, ieri, dopo aver accolto con favore le dichiarazioni di Draghi, ha invitato l'istituto di Francoforte ad abbassare ancora i tassi, che sono già a livelli vicini allo zero, ma necessitano di un «ulteriore allentamento», assieme a «misure di sostegno non convenzionale». La Bce intanto può riprendere da subito l'acquisto di obbligazioni pubbliche degli stati «maledetti» - Spagna e Italia - sui mercati secondari, cosa che non faceva da metà del febbraio scorso. Inoltre, può intervenire immediatamente sull'Efsf, finanziandolo, e prevedendo di continuare l'operazione quando sarà operativo il Mes. Alla vigilia, il governatore della banca centrale austriaca, che è nel consiglio dei governatori della Bce, Ewald Nowotny, aveva aperto alla possibilità di concedere una licenza bancaria al Mes: «Esistono argomenti favorevoli» aveva detto. Che significa che il nuovo meccanismo salva-stati potrà finanziarsi direttamente presso la Bce. In altri termini, per la prima volta viene evocata una soluzione alla crisi aprendo la possibilità di avere mezzi illimitati, come succede con tutte le altre aree monetarie che hanno una banca centrale che funziona come tale. E il veto tedesco? Angela Merkel è ostentatamente in vacanza, atteggiamento di sublime calma interpretato dagli ottimisti come un via libera implicito all'azione della Bce. I falchi continuano ad esistere ma come già nel 2011 la cancelliera potrebbe passare oltre. In Francia, il ministro dell'economia, Pierre Moscovici, ha accolto l'intervento di Draghi come una «dichiarazione assolutamente positiva». Detto questo, i mercati sono rassicurati ma per le popolazioni la sofferenza continua. Intanto, l'Fmi plaude alle riforme italiane, ricordando che sono fatte di deregulation e di flessibilità del lavoro. Citigroup, in una nota, dà al 90% la possibilità di un «Grexit», cioè continua a puntare sull'uscita di Atene dall'euro, nei due-tre prossimi trimestri. Anche la Bce è in allarme per la fuga di capitali dalla Grecia: contrariamente a quanto assicura il governo Samaras, i depositi sarebbero diminuiti del 5%. La troika è ad Atene, per decidere se concedere la tranche di 31,5 miliardi del secondo piano di aiuti di 130 miliardi concesso a febbraio e, anche se ci sarà una decisione positiva, potrebbe essere troppo tardi perché Atene rimborsi i 3,2 miliardi che arrivano a scadenza il 20 agosto (la Grecia non può più finanziarsi sui mercati). Infine c'è l'aspetto più doloroso, la disoccupazione che avanza: Draghi ha vantato a Londra la zona euro dove esiste la coesione sociale «più forte di qualsiasi altra parte del mondo» ma solo in Francia, ieri, dopo i tagli di 8mila posti alla Peugeot, il ridimensionamento già previsto di Sanofi, le minacce sull'ex Pechiney (ora Rio Tinto) di Saint-Jean de Maurienne e sulle acciaierie lorene di ArcelorMittal - per non citare che gli esempi maggiori - Alcatel Lucent (hardware telecom) ha annunciato la soppressione di 5mila posti di lavoro nel mondo (su 78mila), in seguito a 254 milioni di perdite nel secondo trimestre: il governo Ayrault non sa ancora quanti saranno quelli che verranno tagliati in Francia.

 

Di Pietro lancia i «non allineati». Vendola frena

ROMA - Più che fare annunci ufficiali, Antonio Di Pietro ammicca. Si intrattiene con i giornalisti a Montecitorio e dice che Pd, Pdl e Udc non si mettono d'accordo sulla nuova legge elettorale perché non sanno più quale lista potrà avere la maggioranza dei voti, «hanno paura dei non allineati» e «a buon intenditor poche parole...». I «non allineati», si capisce, sarebbero la sua Idv insieme a Sinistra e libertà e pure al movimento 5 Stelle. L'ex pm ostenta sintonia con Beppe Grillo anche sul suo blog, dove compare un video horror: immagini dello stesso Di Pietro che rilascia dichiarazioni contro «la banda di morti viventi che per nutrirsi cannibalizza il paese», montate insieme a scene di zombie con i volti sanguinanti di Bersani, Alfano, Casini e Monti. Il Pd non la prende per niente bene e piovono dichiarazioni contro il leader dell'Idv i cui «toni e contenuti», dice Marina Sereni, sono «incompatibili con il Pd e con il campo progressista». Il leader di Sinistra e libertà, Nichi Vendola, avrà pure parlato tutto il giorno con Di Pietro («ci sentiamo continuamente, l'ho visto anche stamattina e poi ci siamo telefonati», riferisce l'ex pm), ma non vuole entrare in rotta con il Pd, spera anzi di tenere dentro a una futura alleanza anche l'irrefrenabile Tonino, e pazienta: «Io continuo a battermi perché possa essere possibile l'alleanza di centrosinistra come alternativa per il nostro paese». Ma al nodo delle alleanze si intreccia appunto quello della legge elettorale. I partiti che sostengono il governo vanno avanti tra trattative e liti, incontri e meline. Ma il pressing del Colle è continuo, ieri anche il premier Mario Monti è tornato a sollecitare la riforma del Porcellum (sostenendo che così anche i mercati sarebbero rassicurati) e allora già oggi gli sherpa dei partiti (Gianclaudio Bressa per il Pd, Denis Verdini per il Pdl e Lorenzo Cesa per l'Udc) potrebbero tornare a incontrarsi. La riunione era stata chiesta pubblicamente da Pier Ferdinando Casini, che però ieri ha proposto un sistema di voto (con i collegi uninominali al senato e le preferenze alla camera) subito bocciato dal Pdl. Il partito di via dell'Umiltà del resto deve anche tenere conto di Silvio Berlusconi. Che ieri ha ricevuto a palazzo Grazioli i leghisti Roberto Maroni e Roberto Calderoli. L'asse Pdl-Lega sulle riforme istituzionali potrebbe essere dunque replicato anche sulla riforma elettorale, per mettere i bastoni tra le ruote di un'intesa tra Pd e Udc. E intanto il Cavaliere commissione anche sondaggi sul quale sarebbe la performance di una nuova alleanza con il Carroccio e a quanto pare non vuole ancora escludere un suo ritorno in campo. Al segretario Angelino Alfano tocca infatti dichiarare a denti stretti: «Quando e se Berlusconi accetterà la proposta di tanti di noi di candidarsi, come io credo, riuniremo il Comitato di presidenza e lì si avvierà la procedura per il rilancio di una nuova campagna elettorale».

 

I partiti sono in crisi, ma la proposta di Alba non la risolve - Alessandro Somma

Per molto tempo i partiti politici si sono ritenuti un importante correttivo all'ambiguità di fondo della democrazia borghese: se questa consente la partecipazione diffusa solo con le elezioni, quelli la offrono sempre. Inoltre, la democrazia borghese impone la mediazione e la cooperazione nel nome di un non meglio definito interesse generale, mentre i partiti promuovono la rappresentanza e il conflitto utili a realizzare un equilibrio tra interesse generale e interessi di parte. Infine, se la democrazia borghese è di tipo deliberativo, assicura cioè la mera possibilità di prendere parte alla decisione, i partiti producono democrazia partecipativa: contrastano il potere producendo contropotere e mirano ad assicurare la concreta possibilità di incidere sull'esito della decisione. Questo schema non ha funzionato e ha determinato la crisi dei partiti. Esso resta però un valido punto di riferimento per valutare le soluzioni proposte, da ultimo nel Manifesto per un soggetto politico nuovo. Anche qui si afferma la necessità di correggere la democrazia borghese, ma con modalità che non producono democrazia partecipativa e non realizzano un equilibrio tra mediazione e rappresentanza. A questo portano innanzi tutto le modalità indicate per promuovere la partecipazione diffusa ai processi decisionali: dal referendum online all'assemblearismo dei cosiddetti tavoli interagenti. Sono modalità che privilegiano l'aspetto procedurale, che consentono il formale coinvolgimento nelle decisioni di un numero anche ampio di portatori di interessi, senza tuttavia differenziare tra interessi deboli e interessi forti: le modalità tipiche di un sistema che trascura l'uguaglianza sostanziale. Sono questi i vizi tipici della governance neoliberale, che cancella il conflitto e impedisce la costruzione di contropoteri. Vizi che non si possono certo contrastare, come si dice nel Manifesto, chiamando facilitatori a coordinare tavoli interagenti, o formulando generici inviti a praticare la nonviolenza. Problemi analoghi affliggono anche la democrazia dei beni comuni, che il Manifesto invoca pensando alla loro amministrazione come forma di partecipazione diffusa. Così si realizzano solo forme di democrazia deliberativa, se l'amministrazione coinvolge effettivamente tutti i portatori di interessi, o peggio pratiche neocorporative, quando si opera invece una selezione degli interessi da coinvolgere. E le pratiche neocorporative, esattamente come quelle di democrazia deliberativa, esaltano la mediazione e mortificano la rappresentanza. Finiscono poi per perseguire la pacificazione sociale e il mantenimento dello status quo, per essere quindi autoreferenziali e per mettere le decisioni di sistema al riparo dal conflitto. E' così che l'economia, con la sua pretesa di neutralità tecnica, ha sottratto spazi vitali alla politica, l'ha resa una tecnica di amministrazione dell'esistente. Anche le modalità di funzionamento del soggetto politico nuovo portano alla democrazia deliberativa e privilegiano la mediazione a scapito della rappresentanza. Il Manifesto dichiara di voler mettere in connessione le diversità, ma non chiarisce come assicurare loro l'effettiva capacità di incidere sulle decisioni, oltre alla mera possibilità di presenziare i luoghi in cui vengono assunte. Come se un ambiente cooperativo non fosse tale proprio per l'occultamento della forza o debolezza sociale di chi lo vive, e come se il conflitto non debba essere una modalità di estensione e difesa della politica all'interno come all'esterno dei suoi protagonisti. A tutto questo si aggiunge una sopravvalutazione degli interlocutori privilegiati dal soggetto politico nuovo: la mitica società civile, che spesso presenta tutti i difetti che si imputano ai partiti politici, dal narcisismo dei leader all'assenza di democrazia interna. Anche qui: non bastano i facilitatori o la nonviolenza per risolvere il problema. Sicuramente occorre rifondare i termini della partecipazione democratica e altrettanto sicuramente occorre farlo presto, riconquistando con la cultura dei beni comuni gli spazi occupati dal mercato. Ma bisogna evitare di correre, perdendo per strada interlocutori importanti, inseguiti dalle scadenze elettorali, che in quanto tali si sono sempre rivelate fatali, e fonte di nuove delusioni e rinunce all'impegno politico.

 

«Niente guerra né ingerenze, vogliamo decidere il nostro futuro» - Geraldina Colotti

«Lavoriamo per rifondare il Partito comunista - dice al manifesto Abdulaziz Alkhayer - ma per come stanno le cose adesso, il primo obbiettivo è la democrazia, che bisognerà difendere sia dalla dittatura che dai fondamentalisti islamici». Alkhayer, del Coordinamento corpo nazionale (Nbc), risiede a Damasco ed è uno dei promotori dell'Appello di Roma per la Siria, che ha firmato a nome della sua organizzazione nel cartello che riunisce dal West Kurdistan Assembly, al Blocco nazionale, dal Forum democratico al Gruppo islamico democratico. Qual è stato il suo percorso politico? Ho cominciato a fare opposizione subito dopo l'arrivo al potere di Afiz al-Assad, il quale aveva soffocato l'ala marxista del partito Baath. Dal '71 al '78 sono stato sindacalista, come parte di quei comunisti della «seconda onda» che non condividevano le posizioni staliniste, a differenza di quelli della «prima onda». Nell'81 abbiamo fondato il Partito comunista dei lavoratori, di cui sono stato presidente per 11 anni, scrivendo articoli e organizzando l'attività clandestina. Nel '92 sono stato arrestato e condannato a 22 anni. Sono stato torturato per un mese e mi è tornato utile l'aver appreso le tecniche di resistenza, mi occupavo di questo nel partito. Eravamo in 7 e abbiamo tenuto, questo ci ha dato una grande forza in carcere. Sono medico, in galera ho cercato di rendermi utile. Intanto, dentro e fuori, dovevamo affrontare le conseguenze del crollo dell'Unione sovietica, il dilagare dell'influenza Usa, la situazione difficile dell'opposizione. Sono uscito dopo 14 anni, per un'amnistia. Ora lavoriamo per rifondare il partito in un contesto in cui le discussioni sono state progressivamente annichilite. I comunisti della «prima onda» che hanno avuto posti di potere con Assad, continuano a sostenere il regime, ma la loro base sta con noi. Le mie idee non sono cambiate, ora però il primo obbiettivo è la democrazia. In tanti nel mondo, non solo i comunisti della «prima onda», temono lo spettro della Libia e dell'intervento armato. Che partita può giocare chi la pensa come lei nel puzzle siriano? Noi siamo fermamente contrari all'intervento armato e alle ingerenze che, data la posizione della Siria nella regione e nel panorama internazionale, sono diverse. Il mio paese ha poco petrolio, ma è in posizione strategica rispetto a quelli che ne hanno. Usa e Europa cercano di sfruttare a loro vantaggio le primavere arabe per contrastare gli interessi della Cina, della Russia, dell'Iran. Poi ci sono gli attori regionali in crescita, come l'Iran, alleato del regime, e la Turchia che contrasta quell'alleanza. Ci sono i paesi del Golfo. L'Iran è un concorrente scomodo, da indebolire. Per alcuni esiste il Golfo Persico, per altri quello è il Golfo Arabo. La Russia ha da sempre i suoi interessi, è stata alleata di tutti i governi, dal '55: armi, addestramento militare. Poi c'è la Cina, paese che nel 2025 sarà probabilmente la prima potenza economica mondiale e per cui il petrolio è fondamentale. Russia e Cina vogliono dimostrare che niente può essere fatto senza di loro. Il regime lo sa per questo cerca il loro sostegno e quello iraniano. Una parte dell'opposizione fa finta di non capire che gli interessi internazionali non sempre coincidono con quelli del popolo e che questa non è solo una guerra civile, ma uno scontro geopolitico di portata internazionale. Altri paesi progressisti, come quelli dell'America latina mettono comprensibilmente in avanti l'antimperialismo, per questo sostengono il regime. Sta a noi cambiare le cose. La Siria è un paese piccolo, ma insieme all'Egitto è sempre stata un baluardo culturale nella regione. Se anche non potremo avere il ruolo che ha il Venezuela nell'area progressista latinoamericana, ci proponiamo comunque di fare la nostra parte. Lei ha partecipato alla delegazione di oppositori ricevuta dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Che cosa vi siete detti? Ci siamo andati diverse volte. La Russia non ha una particolare affezione per al-Assad, cerca solo garanzie per il dopo, vuole che i suoi interessi - che con il conflitto non ci stanno guadagnando - siano tutelati. Una garanzia che evidentemente non può ancora avere, anche se le cose stanno cambiando. Lo spirito dell'Appello di Roma riprende quello del piano di pace di Kofi Annan, che però è fallito. Perché il vostro dovrebbe funzionare? Noi vogliamo lavorare sulle condizioni che hanno impedito la realizzazione del piano di pace, che nel complesso era buono e che è stato accettato sulla carta da tutti. Prima di tutto, è mancato un vero sostegno unitario a livello internazionale e regionale. Ora i russi si stanno rendendo conto che il regime è finito e anche l'Iran si sta convincendo che la situazione non favorisce i suoi interessi. L'atteggiamento della Turchia e dell'Occidente non è cambiato, ma in molti cominciano a rendersi conto che tutta questa violenza finirà per rafforzare uno zoccolo duro dell'islamismo radicale che poi sarà difficile scalzare e controllare. Noi vogliamo parlare con tutti, tutti dovranno partecipare a una fase di riconciliazione nazionale, anche esponenti del regime che non abbiano sangue sulle mani. Ma devono tacere le armi.

 

L'isola delle meraviglie è piena di rumours - Matteo Patrono

LONDRA - Ai giochi di Pechino 2008, Twitter aveva poco più di due anni e una comunità di adepti abbastanza ristretta. Facebook, due anni più vecchio, contava su appena 100 milioni di utenti. Quattro anni dopo l'esplosione dei social media ha quasi decuplicato quei numeri e le Olimpiadi di Londra che cominciano stasera sono già state ribattezzate le prime Socialympics della storia. Mica tanto vero però. Le limitazioni al limite della censura imposte dal Comitato olimpico internazionale (va bene un diario personale ma niente post o tweet sulle gare, sugli sponsor, sulla politica, niente video per carità che poi le tv chi le sente) hanno finito per inibire molti atleti, soprattutto quelli azzurri che quasi in blocco hanno scelto la via del silenzio olimpico per non rischiare di incorrere nelle salatissime multe stabilite dal Coni (100mila euro). Commento di Imogen Bankier, giocatore di badminton della nazionale inglese: «To tweet or not to tweet? Bisogna fare attenzione al lato social-media di quello che si scrive». Ne sa qualcosa la campionessa greca del triplo Vola Papachristou che mercoledì è stata espulsa dai Giochi per aver ritweettato una sciagurata battuta razzista di Ilias Kasidiaris, il nazista di Alba Dorata (quello che aveva preso a pugni in diretta tv una deputata del Partito comunista), contro i migranti africani in Grecia. Limitazioni eccessive o censura sacrosanta, la forza dirompente dei social media ha comunque messo in crisi l'attesissima cerimonia d'apertura che questa sera darà il via ufficiale ai Giochi di Londra. Si sa già praticamente tutto o quasi. L'unico mistero rimane quello che avvolge il nome dell'ultimo tedoforo che accenderà il tripode dopo un viaggio di 12mila km lungo il quale la fiaccola è passata di mano 8 mila volte. Sir Steve Redgrave, mito del canottaggio inglese, cinque ori olimpici. Oppure Daley Thompson, ex re coloured del decathlon, ex squatter, due ori al collo. Due tipi lontanissimi tra loro. O forse Roger Bannister, il primo uomo a correre il miglio sotto i 4 minuti nel '54, zero medaglie olimpiche ma una seconda carriera da neuropsichiatra e i primissimi esperimenti di test anti-doping contro gli steroidi. O ancora Kelly Holmes, la donna che sfidava gli uomini nell'esercito inglese, due ori e un argento su 800 e 1500. Qualcuno teme David Beckham (che però ha assicurato avrà solo una piccola particina), qualcun altro sogna addirittura Muhammad Ali, che è a Londra, sarà alla cerimonia d'apertura ma sarebbe un remake di Atlanta '96. Tutto il resto è noto. Impossibile frenare i leaks sui preparativi che volontari, ballerini, figuranti, guardie di sicurezza, staff e partecipanti alle prove generali hanno riversato in rete costringendo Sir Sebastian Coe, gran capo del Comitato organizzatore, a twittare inutilmente l'appello Let's#savethesurprise. Ci ha provato anche Danny Boyle, il geniale regista di Trainspotting e Millionaire a cui è stato affidato il compito di raccontare la storia, la cultura e l'anima del popolo inglese in uno show da 27 milioni di sterline che durerà tre ore. Ha scritto una mail personale ai 12mila protagonisti della cerimonia chiedendo un po' di riservatezza ma poi ha ammesso che la modernità rende tutto questo impossibile (i tabloid pure avendo ottenuto e pubblicato foto aeree delle prove). E dunque, considerato che gli orari di chiusura del manifesto non ci permetteranno di offrire un resoconto della cerimonia sul giornale di sabato, eccovi in anteprima l'Inghilterra che vedrete srotolarsi questa sera nel parco olimpico, introdotta da un filmato pre-registrato a Buckingham Palace con la regina Elisabetta II e James Bond (Daniel Craig, che volerà poi dentro lo stadio). Se non volete rovinarvi la sorpresa, fermatevi qui. Ora. L'Isola delle meraviglie cui allude il titolo della cerimonia, Isles of Wonder, è una citazione shakespeariana de La Tempesta e ai rintocchi della campana più grande d'Europa forgiata nella fonderia di Whitechapel (quella del Big Ben) Kenneth Branagh si calerà nei panni di Calibano, il figlio della strega Sicorace che pur essendo straniero ha imparato a riconoscere le virtù della terra in cui è approdato più dei nativi che la governano. «Non temere, l'isola è piena di rumori», assicura il mostro. Londra e l'Inghilterra come simbolo di libertà, diversità e inclusione. La prima parte dello show è un idillio bucolico sulla terra verde e piacevole descritta dal poeta William Blake in Jerusalem, vero inno nazionale non ufficiale di tutti gli inglesi. Un prato immenso, cottage e fattorie, 70 pecore, 12 cavalli, 10 polli, 9 oche, 3 mucche, un bel picnic e l'inevitabile partita di cricket. Ma Boyle non vuole mostrare solo il meglio dell'inglesità ed ecco allora l'altra faccia del paese raccontata da Jerusalem, i riti di Glastonbury, l'ombra oscura di Gwyn ap Nudd (signore delle tenebre) ma soprattutto «la terra dei mulini satanici», l'industrializzazione rappresentata dal Tamigi che scorre in mezzo alle ciminiere sulle note di Satisfaction dei Rolling Stones. Ancora la Depressione e i bombardamenti della seconda Guerra mondiale ma anche la rinascita simboleggiata dalla infermiere del National Health Service (l'orgoglio del Welfare per tutti), dalle lotte delle suffragette per il diritto al voto delle donne, dallo sbarco dei caraibici che pose le basi per un paese multietnico. «Una cerimonia per capire chi siamo, chi eravamo e come vorremmo essere - ha spiegato Boyle - per riaffermare la nostra identità dopo gli anni della crisi che ha colpito l'occidente». La rappresentazione arriva fino ai giorni nostri, fino alla regeneration olimpica del malfamato East End, culla di artisti e criminali, hacker e designer. Ma la parte più immaginifica è quella ispirata ai classici della fantasia per bambini, Peter Pan e Alice nel paese delle meraviglie, con uno scontro finale tra Lord Voldemort (il cattivone di Harry Potter) e le tate volanti di Mary Poppins. Niente segreti nemmeno sulla colonna sonora, la cui direzione musicale è stata affidata agli Underworld con cui Boyle lavora dai tempi di Trainspotting. La playlist comprende un po' di tutto, dai Beatles agli Who, dai Sex Pistols a Vangelis (la sinfonia di Momenti di Gloria accompagnerà tutte le premiazioni dei giochi) fino a Dizzee Rascal e Tinie Tempah. La chiusura però è stata affidata a Paul McCartney che farà cantare lo stadio sulle note di Hey Jude, prendi una olimpiade triste e rendila migliore. In mezzo a questo caleidoscopio di suoni, colori e emozioni, la sfilata dei 10.500 atleti di Londra 2012 che in realtà saranno parecchi meno perché molti hanno deciso di restare al villaggio olimpico e guardarsi la festa in tv che domani è già tempo di gare. Sarà la regina in persona a dichiarare aperti i XXX Giochi dell'era moderna ma chi sogna l'oro ha altro a cui pensare. O al massimo twittare.

 

La Stampa - 27.7.12

 

La svolta di Mario. Comprerà i bond ma vuole il sì tedesco - Tonia Mastrobuoni

TORINO - Il timore di Mario Draghi, confidato ai più stretti collaboratori, è di aver suscitato aspettative eccessive non solo nei mercati, ma soprattutto nei governi. La reazione al limite dell'isterìa alle sue parole di ieri potrebbe aver già ipotecato l'eventuale beneficio delle misure straordinarie ormai attesissime al prossimo consiglio direttivo, il 2 agosto. Anche se, fa notare qualcuno dall'Eurotower a microfoni spenti, il fatto di aver creato delle aspettative potrebbe tradursi in una pressione sui tedeschi a non deluderle, per non creare altri disastri sui listini. Il fatto è che il presidente della Bce è un grande conoscitore dei mercati. Sa sempre come sorprenderli; lo ha dimostrato da quando è salito sulla poltrona più alta della Bce, a novembre scorso. Tagliò i tassi di interesse subito, all'unanimità, quindi con il consenso dei tedeschi perennemente angustiati dallo spettro weimariano dell'iperinflazione, e fece volare le Borse alle stelle. Da allora l'ex governatore di Bankitalia è stato abilissimo nel cogliere i mercati alla sprovvista, muovendosi sullo stretto crinale tra l'imperativo di non deluderli e quello altrettanto importante di non assecondarli troppo. Così, il primo a turbarsi ieri del mostruoso rally delle Borse europee scatenato dalle sue parole, è stato proprio lui. In più, Draghi è convinto, almeno quanto i falchi dell'Eurotower, che la politica debba fare la sua parte. Ed è evidente dall'inizio della crisi che i governi si muovono sempre con enormi e costosi ritardi, rispetto all'"avanguardia" monetaria. Il presidente della Bce, insomma, non ha alcuna intenzione di togliere le castagne dal fuoco a un'eurozona impantanata nell'indecisione. «Non ci possiamo sostituire alle azioni dei governi», ama spiegare alle persone più fidate. Oltretutto, Draghi è impegnato in una delicata operazione diplomatica nel consiglio direttivo: sta parlando ad uno ad uno con tutti i membri del board e soprattutto con il fronte "filogermanico" dei falchi, per creare il consenso maggiore attorno alle misure da intraprendere per salvare l'euro. L'italiano non è Jean-Claude Trichet, che nel fine settimana del 9 maggio del 2010 consumò il famoso strappo con "l'azionista di riferimento", ossia con la Bundesbank e i membri tedeschi del board che si dimisero successivamente entrambi. Ma nella gravissima situazione attuale, ammette una fonte del'Eurotower che rappresenta il fronte dei falchi, «ci rendiamo contro che rischia di saltare l'euro». La differenza rispetto al 2010 è che i falchi sono meno rigidi, sulle misure straordinarie. L'importante è, come ha sottolineato ieri Draghi, «muoversi all'interno del mandato», tenendo ben presente che «la Bce farà tutto per salvare l'euro». E c'è una frase che la fonte tedesca segnala come essenziale. Draghi ha scandito che «i rendimenti sui bond dei titoli di Stato ostacolano il canale di trasmissione che garantisce il corretto funzionamento della politica monetaria». Tradotto dal linguaggio dei banchieri centrali, vuol dire che gli spread spagnoli e italiani minacciano l'intero eurosistema. E sono le stesse identiche parole che Trichet usò nel 2010 per avviare il programma di acquisti di bond dei paesi allora in difficoltà, cioè Grecia, Portogallo e Irlanda. Nell'agosto del 2011 questo programma denominato Smp, Securities Market Program (inventato da un altro italiano, l'ex membro del board Lorenzo Bini Smaghi) fu esteso a Italia e Spagna. Da venti settimane la Bce non compra più bond ma il messaggio di ieri è questo: li ricomprerà, ma forse limitandosi soltanto a quelli spagnoli. Basterebbe questo, forse, a riportare i mercati alla ragione, nel breve termine. Tuttavia, c'è chi si attende altre misure straordinarie, addirittura l'annuncio di un limite dei rendimenti oltre i quali la Bce interverrebbe o altre forme illimitate di aiuti. Chi si attende misure estreme, «americane», potrebbe però rimanere deluso. Primo, Draghi non vuole deresponsabilizzare i governi: mancano passaggi fondamentali alla messa in funzione credibile del fondo salva-Stati e nella testa del presidente dovrà essere quello, in futuro, il bazooka dell'eurozona. E manca anche un bel pezzo all'unione bancaria, politica e monetaria. Secondo, qualsiasi operazione di «quantitative easing» troppo spinta e incondizionata fa sempre alzare la testa ai tedeschi che lo interpretano come un finanziamento diretto dei debiti dei paesi, vietato dai Trattati. La Spagna invece può essere aiutata, nel mese turbolento che ci attende e in attesa delle prossime mosse dei governi a settembre, con un paracadute come l'acquisto dei titoli di Stato. Anche perché Madrid ha appena firmato l'accordo per il salvataggio delle banche contro una manovra-monstre. È già un paese semi-commissariato dalla Ue: facile convincere anche i più tedeschi che sono meritevoli di un atto di fiducia come questo paracadute estivo. Ma l'arsenale della Bce non finisce qui. Draghi ha dato già ampi segnali (quando avverte che ci sono sintomi di deflazione) che esistono margini per ulteriori tagli dei tassi di interesse, adesso o al più tardi a settembre, dall'attuale 0,75%. Ma anche per spingere sotto zero quelli attualmente nulli sui depositi. Sulle operazioni di liquidità, il presidente della Bce ha poi dimostrato molte volte di non avere «alcun tabù» come ama ripetere. Qualcuno prefigura già una terza operazione di liquidità a tre anni, un terzo "ltro" come si chiama in gergo, ma anche ulteriori allentamenti sui criteri per l'accettazione dei collaterali delle banche. E ci sono anche degli strumenti inediti che Draghi potrebbe buttare in campo come l'acquisto di bond delle aziende, per scavalcare il «grande freddo» delle banche.

 

Draghi, le parole che vogliono i mercati - Francesco Manacorda

Se l'Europa parla in modo chiaro il mercato ascolta. In fondo il «miracolo» provocato ieri dalle parole di Mario Draghi sta tutto qui. Per la prima volta, dopo settimane, operatori dai nervi fragilissimi si sono trovati di fronte a qualcosa di nuovo. Non l'antilingua che da Bruxelles e dalle capitali europee dice e smentisce allo stesso tempo, non le sfiancanti acrobazie lessicali che escono condivise dai vertici per poi moltiplicarsi nelle tante interpretazioni ad uso e consumo delle opinioni pubbliche nazionali, ma parole quasi brutali nella loro semplicità. Quel «credetemi, sarà abbastanza», che Draghi ha pronunciato parlando di una Banca Centrale «pronta a fare qualsiasi cosa serva» per fermare la tempesta che infuria sulle Borse e sui titoli di Stato dell'Europa mediterranea, segna una svolta. Non solo linguistica. Presto per dire se l'annuncio di Draghi avrà un effetto duraturo. Molto più facile prevedere che anche nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, si attraverseranno fasi di altissima tensione. Del resto anche nella reazione entusiastica innescata ieri dai mercati si colgono segni di un'isteria collettiva capace di buttare giù o di spingere verso l'alto le quotazioni nel giro di pochi minuti proprio sull'onda di una dichiarazione o di un'intenzione solo intuita. Ma proprio per questo, perché quei mercati che rappresentano l'aggregato di milioni di decisioni individuali, sono in questa fase esageratamente sensibili, è necessario parlare loro con voce chiara e forte, dare loro messaggi privi di ambiguità, non aprire lo spazio per incertezze o equivoci. È ovvio, poi, che alle parole devono seguire i fatti. In caso contrario il contrappasso scatta rapidamente e senza sconti. Ma sotto questo profilo il ruolo e la personalità di Draghi offrono una doppia garanzia. Anche se il presidente della Bce considera legate a tempi eccezionali, come questi, le misure straordinarie che la Banca centrale deve mettere in campo e accetta a malincuore di svolgere un ruolo di surroga rispetto ai governi, bisogna dare per scontato che dietro le sue dichiarazioni, che mettono direttamente in gioco la sua credibilità, ci sia un programma - che va dal riacquisto dei titoli di Stato dei Paesi nel mirino delle vendite fino a spingersi forse ad altre misure meno ortodosse - già delineato. Un programma che in qualche misura deve aver superato anche le resistenze dell'ala più dura - quella di osservanza germanica - della Bce. Che Draghi parli chiaro, sebbene costretto dagli eventi, è una buona notizia. Quella migliore sarebbe che anche l'Europa in cerca di maggiore integrazione politica riuscisse a trovare una voce - e prima di tutto una direzione - unica.

 

Ilva, una sfida per Taranto e l'Italia - Guido Ruotolo

L'Ilva è a un passo dalla chiusura, avendo il gip deciso il «blocco delle attività» di cinque aree dell'acciaieria. E se muore la fabbrica muore la città, Taranto. Ma nello stesso tempo il ricatto del lavoro al Sud non può più consentire che si lavori a tutti i costi. Anche a costo di morire di lavoro. E' terribile il ricatto. Ne sanno qualcosa i sopravvissuti di Casale Monferrato che hanno vissuto con l'Eternit. E che solo quando la fabbrica della morte era chiusa ormai da anni hanno avuto giustizia. Adesso, la vicenda di Taranto è più complessa. Intanto perché nello stabilimento lavorano, tra diretti e indiretti, quasi 15.000 addetti. E per la città sarebbe una tragedia la perdita di 15.000 posti di lavoro. Poi perché si scatenerebbe un effetto «domino» con la chiusura di altri impianti Riva che producono tubi e acciai, e le aziende clienti dell'Ilva soffrirebbero per la mancata consegna delle materie prime. Ma come per l'Eternit di Casale Monferrato, così l'inchiesta della procura di Taranto ha accertato che la presenza dell'acciaieria ha provocato decine di decessi di cittadini che hanno respirato i veleni dell'Ilva. La città naturalmente si interroga e assiste agli eventi. L'anno scorso ha dovuto prendere atto che il Mar Piccolo era «avvelenato» a tal punto che tutte le coltivazioni di cozze sono state distrutte. E' accaduto anche quest'anno. Sembra che la fonte dell'inquinamento sia l'Arsenale militare. Da sempre Taranto ha accettato la grande acciaieria che garantisce lavoro agli operai pugliesi, della Basilicata e persino della Calabria. Anche sapendo del prezzo da pagare. Quand'era Italsider, azienda pubblica, era un "«assumificio», le assunzioni passavano attraverso il ministero delle Partecipazioni statali e dei ras democristiani locali. La produttività era un concetto astratto. Nella fabbrica prosperavano ben 546 imprese d'appalto, comprese quelle in odore di quarta mafia, di mafia pugliese. Si moriva di fabbrica e per la fabbrica, ma politici e sindacati erano impegnati a garantire lavoro. Poi è arrivato il padrone delle ferriere. L'inglese che si insedia in India: Emilio Riva che si ritrova la più grande acciaieria d'Europa tra le mani. Per nulla. E si è continuato a morire di fabbrica e per la fabbrica. Ma adesso che si stava intervenendo per sanare le ferite dell'inquinamento, con un'azione congiunta tra governo, regione, azienda, enti locali e sindacati, arriva il provvedimento del gip. Chissà perché i tempi della giustizia sono sempre così anacronistici. Patron Riva si è fatto da parte, ha nominato ai vertici dell'Ilva l'ex prefetto Bruno Ferrante. Il governo dei «tecnici» con molta sensibilità politica ha capito l'urgenza di investire 330 milioni per l'ambiente di Taranto. Il gip ha posto una condizione perché l'Ilva rimanga aperta: che si rendano compatibili con l'ambiente i reparti e le aree di produzioni. E' una sfida che si deve accettare. Per Taranto e l'Italia. E ieri sera, nel corteo operaio che ha invaso la città, lo slogan che si gridava parlava di questo: «Lavoro e ambiente, connubio intelligente».

 

Volkswagen contro Marchionne: "Si dimetta da presidente Acea"

BERLINO - Le dichiarazioni di Sergio Marchionne sul «bagno di sangue» in Europa tra le case automobilistiche a seguito degli sconti sulle vendite concessi dalla Volkswagen fanno infuriare la casa di Wolfsburg, che chiede le dimissioni del responsabile della Fiat da presidente dell'Acea, l'associazione dei costruttori europei dell'auto. Il responsabile della comunicazione della Volkswagen, Stephan Gruehsem, si legge nella Dpa, ha dichiarato che come presidente dell'Acea Marchionne non è più sostenibile e dunque dovrebbe dimettersi. A fronte delle dichiarazioni fatte da Marchionne, ha aggiunto Gruehsem, le sue dimissioni da responsabile dell'Acea rappresentano un'opzione per la Volkswagen. Nessun commento da parte della Fiat.

 

L'appello dei cento: fare subito una legge elettorale bipolare - Jacopo Iacoboni

Fare subito la legge elettorale, anche per placare «l'apprensione internazionale sulla stabilità» del sistema italiano. Fare una legge che non cancelli - anzi rafforzi - il bipolarismo, e assicuri una maggioranza stabile fin dalla sera delle elezioni (sottinteso: senza pericolosi balletti neo-proporzionalisti). Parentesi: questa legge dovrebbe tener fermo il principio dei collegi uninominali (preferenze, no grazie). È salutare, per capire cosa accade in Italia, guardare almeno ogni tanto fuori dal recinto della politica, senza voler fare l'apologia della società civile. Ecco perché è interessante, e insolito, l'appello che una fetta significativa di mondo intellettuale, economico, imprenditoriale e delle professioni, non soltanto milanese, rivolge ai partiti, presi in un'inconcludente trattativa infinita. Il testo è stato scritto dal costituzionalista Francesco Clementi. I sottoscrittori ricordano che «nonostante i ripetuti tentativi e le numerose bozze di riforma, non c'è alcun testo condiviso e questo crea apprensione anche a livello internazionale sulla stabilità ed effettiva capacità del nostro Paese di affrontare le sfide che ci aspettano nei prossimi anni in cui sarà necessario dare continuità, in Italia ed in Europa, al cammino intrapreso». Eppure i principi ai quali ispirarsi per fare una buona legge dovrebbero essere ormai chiari, dicono, «favorire un bipolarismo di stampo europeo, solido e alternativo nelle proposte e mite nel modo di atteggiarsi; favorire una coerente e stabile maggioranza fin dalla sera stessa delle elezioni intorno al partito più votato; consentire agli elettori di scegliersi gli eletti, secondo i principi di responsabilità e di trasparenza, attraverso collegi uninominali e liste corte». Il nuovo sistema di voto dovrebbe tra l'altro accompagnarsi a una nuova legge sulla disciplina dei partiti e sul loro finanziamento: «Si esce dalla crisi se tutti fanno la loro parte. Nessuno escluso. L'Italia viene prima». Tra i cento firmatari ci sono banchieri come Guido Roberto Vitale, Alberto Albertini, Francesco Perilli, Paolo Basilico. C'è il patron del workshop di Cernobbio Alfredo Ambrosetti e il vicepresidente di Pirelli Carlo Alessandro Puri Negri. Ci sono l'ex commissario Consob Salvatore Bragantini, l'ex direttore di McKinsey Roger Abravanel, il banchiere Enrico Gotti Tedeschi. C'è Gregorio Gitti, c'è l'editore Stefano Mauri e l'ex ambasciatore Antonio Puri Purini. Ci sono osservatori della politica come Michele Salvati e Massimiliano Panarari, o costituzionalisti come Anna Chimenti. Soprattutto, ci sono tanti quarantenni attivi sulla scena pubblica esterna alla politica, avvocati come Gianfranco Negri Clementi, Alessandro Pedersoli, Alessandro Triscornia, professionisti come Alessandro Balp, Andrea Tavecchio, Luca Penna. Nomi diversi e anche trasversali, sensibilità liberali tradizionali accanto a liberal progressisti e persino qualche punta di borghesia radical, per un appello che vuole essere anti-ideologico ma racconta comunque qualcosa di un sentimento che si va facendo strada in una fetta di Italia che il premier conosce bene. È come se la Milano (ma non solo) delle professioni, dell'intellettualità legata all'impresa, delle relazioni tra economia e università dicesse: così l'Italia non va avanti, Roma e i partiti ne prendano atto.

 

Accordo in alto mare sulla legge elettorale - Francesca Schianchi

ROMA - Dopo tante promesse, l'accordo sulla legge elettorale resta dov'era all'inizio della discussione tra i partiti: in alto mare. Nonostante i frequenti richiami del presidente della Repubblica Napolitano, a cui ieri si è aggiunto anche il premier Monti: se i partiti «riuscissero a trovare un accordo, si darebbe il senso di un progresso realizzato e anche i mercati e i cittadini, che sono più importanti dei mercati, sarebbero rassicurati». Ma, nonostante gli annunci degli ultimi mesi, l'accordo, dopo la convergenza di un paio di giorni fa che lo ha fatto sembrare quasi agguantato, al momento non c'è. A differenza di quello che annuncia in mattinata il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, «siamo stati avvertiti in questi minuti, avrebbero trovato un accordo su un sistema in parte proporzionale, in parte per collegi, in parte con le preferenze e in parte no. Una legge scritta in modo che si sappia prima chi sono gli eletti e chi invece deve restare fuori». Ma non fa in tempo a dirlo che arrivano le smentite: «Nessun accordo», nega il vicecapogruppo Pdl Quagliariello; «non mi sembra ci siano intese», conferma il presidente dei deputati Pd Franceschini, aggiungendo anche che «continuo ad avere l'impressione che il Pdl non voglia fare nulla». Ed Enrico Letta approfitta anche per bacchettare l'ormai sempre più lontano ex alleato: «Sarebbe bene che su un tema così importante per il futuro dell'Italia si evitassero strumentalizzazioni o tentativi di fare campagne per lanciare proposte populiste. Antonio Di Pietro sa bene che la riforma elettorale si fa in Parlamento, e non potrebbe essere altrimenti. Creare difficoltà e polveroni serve solo a rendere più forte l'opzione di coloro che il "porcellum" lo vogliono mantenere in vita». A un certo punto è Casini a spronare: «Usciamo dai conciliaboli segreti. Propongo di avere una riunione delle forze di maggioranza per mettere a punto la nostra proposta». Riunione che potrebbe tenersi oggi pomeriggio, tra gli «sherpa» dei vari partiti sull'argomento, Verdini per il Pdl, Migliavacca e Bressa per il Pd, Cesa per l'Udc. Un incontro che però difficilmente partorirà un accordo, visto che da mesi se ne parla senza riuscire a raggiungerlo, tra le accuse reciproche, e molti sospettano non sia questo il periodo giusto. «La verità? Nessuno vuole fare niente prima delle vacanze», sospira un democratico: «Il Pdl, che non vuole le elezioni anticipate, teme che cambiando la legge si scivoli troppo velocemente verso le urne. E Bersani in fondo si terrebbe pure il Porcellum perché col premio di maggioranza che dà, sarebbe praticamente certo di andare a Palazzo Chigi. I giochi veri si faranno a ottobre». Sempre Casini ieri ha fatto una proposta, un tentativo di mediazione tra i «paletti» del Pdl e quelli del Pd: sistemi diversi per i due rami del Parlamento, collegi uninominali (cari ai democratici) al Senato e preferenze (che vorrebbero i berlusconiani) alla Camera. Immediatamente bocciata però da Quagliariello: «No a un ritorno al passato con sistemi differenti». Ed è lui a proporre anche quella che potrebbe essere l'unica strada per cercare di mostrare alla scettica opinione pubblica che un lavoro è stato fatto: arrivare a un testo comune, un sunto delle tante proposte che giacciono in Parlamento, lasciando alcune «variabili» aperte, sui punti più discussi come preferenze e premio di maggioranza, da risolvere col voto della Commissione Affari costituzionali del Senato. Dove potrebbe riproporsi l'asse Pdl-Lega già sperimentata nel voto dei giorni scorsi sul semipresidenzialismo: un testo di riforma che deve passare alla Camera, dove il capogruppo Pdl Cicchitto ha chiesto venga subito calendarizzato a settembre. Difficile che entro il 10 agosto, come promesso, si riesca a votare in Senato la nuova legge elettorale. A tutti però ricorda il presidente della Camera Fini che votare con questa legge «sarebbe una iattura». Un servizio all'antipolitica: «Se non si fa la legge elettorale, il discredito sui partiti e sulla politica sarà talmente forte da determinare conseguenze alle urne».

 

L'esercito spara sui siriani in fuga. E aumenta la tensione ad Aleppo

DAMASCO - In Siria cresce la tensione ad Aleppo, attorno a cui continuano ad ammassarsi truppe governative in vista dall'attacco decisivo. La città settentrionale, dove sono arrivati 1.500-2.000 ribelli venuti a dar man forte ai 2.000 già presenti, è stata di nuovo bombardata dagli elicotteri e si combatte in diversi quartieri. Il regime di Bashar al-Assad concentra gli sforzi su questa offensiva ma appare in difficoltà: lo dimostra il fatto che nonostante la netta superiorità di forze e mezzi dei lealisti (sarebbero stati inviati altri 100 carri armati), continua a farsi attendere la più volte annunciata «battaglia finale» per la presa del più importante centro economico della Siria. Secondo il generale norvegese Robert Mood, ex capo degli osservatori dell'Onu e veterano delle missioni di pace, Assad e il suo apparato sono destinati a cadere, ma per porre fine al conflitto ciò può anche non essere sufficiente, così come eventuali successi militari dei ribelli di per sé non implicano che il quadro si evolva positivamente per loro. «Presto o tardi il regime cadrà, a mio avviso è solo una questione di tempo», ha osservato l'esperto ufficiale. «La spirale di violenza, la mancanza di proporzionalità nelle reazioni del regime, la sua incapacità di proteggere la popolazione civile significano che ha i giorni contati, ma cadrà nel giro di una settimana o fra un anno? Ecco una domanda cui non mi azzardo rispondere», ha messo le mani avanti. In Turchia è fuggita nel frattempo Ikhlas al-Badawi, una deputata eletta al Parlamento siriano in rappresentanza della provincia settentrionale della quale Aleppo è il capoluogo: uno smacco per le autorità di Damasco, trattandosi del primo parlamentare a disertare e a a lasciare l'assemblea-fantoccio sorta dalle elezioni "pilotate" dello scorso maggio, che resta controllata dal Baath, il partito del presidente siriano non più unico ma pur sempre assolutamente dominante. Dietro le quinte l'inviato speciale dell'Onu e della Lega Araba, Kofi Annan, pur sentendosi un capro espiatorio per le accuse mossegli dopo il fallimento sostanziale del suo piano di pace, ha fatto trapelare di non voler gettare la spugna: oggi a Londra, a margine dell'apertura dei Giochi Olimpici, incontrerà il segretario generale Ban Ki-moon per valutare il da farsi. Il vice di Ban con delega sulle operazioni di pace, Herve' Ladsous, ha comunque avvertito i critici: «Un piano B non esiste né c'è alternativa» a quello di Annan. La Giordania intanto smentisce le notizie secondo cui scontri tra forze governative siriane e militari del regno hascemita si sarebbero registrati stamani all'alba lungo il confine. Negando che ci siano stati combattimenti, il portavoce del governo di Amman, Smaih Maaytah, ha invece confermato che le truppe siriane hanno aperto il fuoco contro un gruppo di persone vicino alla frontiera giordana.

 

Corsera - 27.7.12

 

Recupero crediti: cercasi ex galeotti

MILANO - «Azienda seria e referenziata cerca uomini decisi, di poche parole e prestanza fisica». E fin qui l'annuncio ci potrebbe anche stare. Ma è il seguito ad aver qualcosa di veramente inquietante: «Possibilmente ex culturisti o ex galeotti, per recupero crediti in tutta Italia. Molto apprezzate origini meridionali, calabresi o siciliane. Si offre contratto e lauti compensi. Inviare cv, necessariamente con foto intera. Astenersi Perditempo». Il tutto per un'agenzia di recupero crediti di Pesaro. L'annuncio è apparso sul sito specializzato Subito.it, ripreso da alcuni blog, quindi rimosso. Probabilmente per il riferimento razzista alle origini regionali dei candidati e alla loro fedina penale.

 

Cassina de' Pecchi, tensioni tra polizia e lavoratori dello stabilimento Jabil

MILANO - Momenti di forte tensione venerdì mattina allo stabilimento della Jabil a Cassina de' Pecchi, nel Milanese, fra lavoratori e forze dell'ordine. Ci sono stati spintoni e tre operai, fra cui due donne, sono saliti sul tetto. Alle 5.30 la proprietà si è presentata con un tir per caricare i materiali rimasti nello stabilimento: una sessantina di persone, che partecipavano al presidio permanente, sono state spostate dall'ingresso principale e si è cominciato a caricare il camion. Sono intervenuti carabinieri e polizia. Una sessantina di persone, tra cui alcuni appartenenti ai centri sociali, sono tornati verso l'ingresso per disturbare l'operazione di carico con urla e cori, ma senza alcun contatto con le forze dell'ordine. A quel punto un ingegnere della Jabil ha deciso di interrompere il caricamento della merce a causa del clima teso. L'azienda produceva componenti per ponti radio e telecomunicazioni per conto di Nokia Siemens Network, e ha licenziato nel novembre scorso tutti i 380 dipendenti, per consentire agli addetti della Jabil di recuperare il materiale delle linee di produzione. NEL CAPANNONE - Secondo quanto spiegato dalla Fiom, dopo spintoni fra le tute blu e le forze dell'ordine una ventina di addetti della Jabil sono riusciti a entrare nel capannone, di proprietà della Nokia, e hanno iniziato a prelevare del materiale ma sono stati affrontati dagli operai che hanno bloccato il recupero della merce. La situazione si è normalizzata dopo le 8.30. «La Jabil - sottolinea Roberto Giudici, responsabile organizzativo della Fiom-Cgil di Milano - deve capire che le azioni di forza falliranno sempre e che l'unica strada è la discussione con i lavoratori. Chiediamo che Jabil favorisca l'ingresso di acquirenti dopo aver deciso di andarsene e quindi non deve portare via asset produttivi che sono la precondizione per un rilancio dell'attività».

 

Un po' di flemma, siamo italiani - Giuseppe De Rita

La finanza internazionale ci opprime, con lo spettro dello spread. L'Unione Europea ci impoverisce, con lo spettro di un teutonico rigore. E ce lo mandano regolarmente a dire, per il tramite dei nostri governanti di turno, nei cui messaggi ritroviamo le ormai classiche frasi «ce lo chiedono i mercati» e «ce l'impone l'Europa». E come reagiscono gli italiani, oppressi da tali scoraggianti attenzioni? Certo si avvertono sintomi di insicurezza e al limite di paura in quel tam-tam orale che è dominante nella nostra comunicazione collettiva. Ma nel fondo non si sfugge all'impressione che gli italiani, come sempre di fronte ad un dramma annunciato, stiano reagendo con un atteggiamento che è un mix di flemma ben visibile e d'orgoglio ben nascosto. La flemma ci viene da antiche propensioni: alla sdrammatizzazione dei toni; all'adattamento come scelta strategica; alla permanenza di uno scheletro contadino che sa come vivere le avversità; ed anche al fatalistico «non fasciarsi la testa prima di cadere ». Ma è anche una flemma che riposa sul fatto che dal '45 in poi questo sistema ha superato prove di enorme gravità; ha sempre mostrato una eccezionale tenuta sia alle crisi interne sia a quelle esterne; ha coltivato il primato dell'economia reale nei comportamenti dei suoi tanti soggetti di sviluppo; ha potuto contare per decenni su una grande coesione (nella dinamica fra gruppi e classi sociali, nei territori, nel micro delle relazioni umane). E si capisce allora come la relativa sdrammatizzazione dell'attuale crisi non sia un eterno ritorno della rimozione da scetticismo, ma sia piuttosto un silenzioso orgoglio di non esser poi così male in arnese come altri amano descriverci. Ma sta proprio qui il pericolo: cioè che agli altri europei la nostra flemmatica solidità non piaccia. I mercati e chi li manovra preferiscono l'immagine di noi italiani fatta da fannulloni, evasori fiscali, scialacquatori del pubblico denaro; immagine che piace tanto alla comunicazione di massa (anche nostra) ed alle cancellerie europee (anche alla nostra, qualche volta). Ed è forse per questo (è ipotesi avventata ma non inverosimile) che essi preferiscono il dramma alla continuità, il default all'adattamento continuato, il «sangue subito» alla tenuta nel tempo lungo. Condizionati da tali preferenze ci auto-imponiamo costrizioni sempre più urgenti ma non sempre lucidamente motivate, non ultima quella che circola in questi giorni sull'anticipo delle elezioni al fine di «stabilizzare il quadro politico ». Così rischiamo di diventare sempre meno sovrani nella dinamica politica ma anche nella gestione della nostra immagine collettiva. Forse è allora tempo di contrattaccare sulle tre citate contrapposizioni di opinione: sarebbe cioè giusto sostenere la superiorità della tenuta di lungo periodo sul «sangue subito »; della capacità di adattamento continuato sull'angoscia da default; della continuità e coesione negli impegni collettivi sulla continua drammatizzazione delle cose. Avanzando l'ipotesi che è su queste implicite scelte di vita che vorremmo essere giudicati, senza paura di qualche sorrisetto beffardo dei fautori del «sangue subito».

 

Milano approva il registro delle Unioni civili. Pisapia: «Ridotto lo spread dei diritti» - Elena Tebano

MILANO - «Abbiamo ridotto lo spread sull'Europa dei diritti civili». Con queste parole il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha accolto l'approvazione del registro cittadino per le unioni civili. Il voto definitivo - 27 favorevoli, 7 contrari e 4 astenuti - è arrivato nella notte, poco dopo le tre e mezza, alla fine di un Consiglio comunale fiume durato undici ore e mezza (era iniziato alle 16,30). La delibera istituisce un registro a cui le coppie, sia etero che omosessuali, possono iscriversi contestualmente alla registrazione della famiglia anagrafica. «D'ora in poi nelle delibere comunali saranno parificate a chi è sposato. Anche le coppie gay - spiega Marco Mori, presidente di Arcigay Milano -. C'è voluto più tempo del previsto, ma il voto di questa notte è un segnale importante». NON È IL MATRIMONIO GAY - Le unioni civili «registrate» permetteranno l'accesso solo ai servizi forniti dal Comune. Non apriranno alla possibilità di ereditare o alla pensione di reversibilità: benefici garantiti alle coppie sposate che dipendono dalle leggi dello Stato. E infatti Pisapia ha precisato che il registro milanese è un provvedimento solo «di carattere amministrativo». «Escludo che questa delibera apra alla possibilità di matrimoni gay», ha spiegato il sindaco, «per avere i matrimoni gay servirebbe una legge del Parlamento». UNA LUNGA TRATTIVA - Il voto è arrivato dopo una lunga trattativa, fuori e dentro la maggioranza. Alla fine, nonostante l'approvazione di alcune modifiche alla delibera, quattro cattolici del Pd si sono astenuti e solo due consiglieri del Pdl, Luigi Pagliuca e Pietro Tatarella, hanno votato con la maggioranza. Contrari al provvedimento la maggioranza dei consiglieri comunali del Pdl e la Lega Nord. Il testo è frutto della mediazione fra le richieste dell'ala cattolica del Pd e quelle dell'ala laica del Pdl, favorevole al provvedimento. Dalla versione approvata - su proposta del Pdl - è stato cancellato il termine «famiglia anagrafica» ed è stato sostituito con «unione civile», per «rimarcare la differenza tra coppie di fatto e famiglia tradizionale». E, nel definire le unioni civili, il passaggio «insieme di persone legate da vincoli affettivi» è stato sostituito con «due persone legate da vincoli affettivi» per «evitare il rischio di poligamia». Si è arrivati così alla creazione di un registro «diverso da quello della famiglia anagrafica ma collegato», che consentirà di ottenere un attestato di unione civile e al quale le coppie di fatto potranno iscriversi dopo aver ottenuto il certificato di famiglia anagrafica. IL VALORE SIMBOLICO - I sostenitori del provvedimento, però, rivendicano il valore simbolico del registro, soprattutto per le coppie omosessuali: «Non c'è dubbio che stiamo parlando del diritto degli omosessuali di essere riconosciuti come coppia; perché gli omosessuali questo diritto non ce l'hanno», ha spiegato la capogruppo del Pd in Consiglio comunale Carmela Rozza. Milano così è la terza metropoli italiana, dopo Torino e Napoli, a fornire un riconoscimento alle coppie non sposate. Anche il neosindaco di Genova, Marco Doria, in campagna elettorale si era detto pronto a farlo.

 

Soldati di Damasco al confine si scontrano con le pattuglie giordane

Si allarga il conflitto siriano. Per la prima volta dall'inizio dello scoppio della rivolta in Siria, forze fedeli al regime di Damasco si sono scontrate nella notte con l'esercito giordano lungo il confine tra i due Paesi. Lo confermano all'Ansa fonti alla frontiera, dopo che gli attivisti siriani hanno pubblicato nelle ultime ore i video dei combattimenti notturni. UCCISO UN BAMBINO - Le fonti precisano che tre soldati giordani sono stati feriti negli scontri, scoppiati quando le truppe di Damasco si sono spinte a ridosso della frontiera, nei pressi del villaggio giordano di Thuneiba occupando una torre di vedetta militare giordana. Due giorni fa alcuni colpi di mortaio sparati dal territorio siriano erano caduti nei pressi di Ramtha, senza causare feriti ma aumentando la tensione sul confine. Il governo giordano, tramite il suo portavoce Samih Mayta, non ha confermato l'accaduto ma ha riferito del coinvolgimento di alcuni civili. Un bambino siriano di tre anni è stato ferito a morte da soldati governativi di Damasco mentre, insieme alla famiglia, tentava di attraversare la frontiera al valico di Ramtha per fuggire in Giordania dalla provincia meridionale di Deraa, culla originaria dell'insurrezione contro il regime di Bashar al-Assad. CRIMINI CONTRO L'UMANITA' - Nel frattempo l'Alto commissario Onu per i Diritti Umani, Navi Pillay, ha denunciato a Ginevra le atrocità commesse in Siria e ha ribadito la convinzione che crimini contro l'umanità e di guerra sono commessi nel Paese. «Anche se tali conclusioni possono essere raggiunte solo da un tribunale, è mia convinzione, sulla base delle prove raccolte da varie fonti attendibili, che crimini contro l'umanità e crimini di guerra sono stati, e continuano ad essere commessi in Siria», ha detto l'Alto Commissario. «ANNAN CAPRO ESPIATORIO» - Agitazione anche alle Nazioni Unite. Kofi Annan sente di essere stato trasformato in un capro espiatorio per il mancato compromesso tra le parti siriane in conflitto e la sostanziale inosservanza del suo piano di pace in sei punti, ma ciò nonostante non intende rinunciare ai propri compiti di mediatore nè tanto meno alla ricerca di una soluzione politica: lo hanno riferito fonti diplomatiche riservate molto vicine all'inviato speciale congiunto delle Nazioni Unite e della Lega Araba. In giornata, hanno proseguito le fonti, lo stesso Annan e il segretario generale del Palazzo di Vetro, Ban Ki-moon, avranno un colloquio sul futuro delle iniziative negoziali e dell'Unsmis, la Missione di Supervisione dell'Onu in Siria: avverrà a Londra, dove entrambi si trovano per l'apertura ufficiale dei Giochi Olimpici 2012. LA FARNESINA - «Occorre aumentare al massimo la pressione da parte di tutti su Assad anche per scongiurare il rischio di un nuovo massacro». È il commento del ministro degli Esteri Giulio Terzi che si è detto «fortemente preoccupato» per le notizie «angoscianti» sull'assedio della città di Aleppo in Siria da parte delle forze governative. L'Italia, si legge in una nota dell Farnesina, è impegnata anche sul piano umanitario con interventi di emergenza già inviati sul terreno dalla Cooperazione Italiana, soprattutto a favore delle categorie più deboli della popolazione civile, a cominciare dai minori. L'Italia sta considerando inoltre la possibilità di inviare ulteriori aiuti umanitari. TOUR EIFFEL - Una grande bandiera dei ribelli siriani è stata posta questa mattina presso la Tour Eiffel a Parigi «per attirare l'attenzione del mondo sulla situazione in Siria». Un piccolo gruppo di militanti dell'associazione France Syrie Démocratiè si è recato a piedi sul monumento simbolo della capitale francese: appena giunti sul posto, due militanti, figli del generale in pensione Aklil Hashem che vive negli Stati Uniti, hanno sistemato la bandiera sotto lo sguardo incuriosito dei turisti. «21.000 morti, 65.000 scomparsi, due milioni di rifugiati: queste sono le riforme criminali promesse da Bashar al Assad», hanno denunciato due manifestanti. «La Tour Eiffel è il simbolo della Francia. Siamo venuti qui perché ci sono i turisti. È per attirare l'attenzione del mondo intero su ciò che sta accadendo in Siria», ha spiegato Ibrahim Wetti. LIBERATI FOTOREPORTER - Due fotografi, olandese e britannico, sequestrati il 19 luglio scorso nel nord della Siria, sono stati liberati giovedì e hanno raggiunto la Turchia. Lo riferisce il ministero degli Esteri olandese.

 

l'Unità - 27.7.12

 

Taranto, acciaio e veleni. Quale Sud? - Giuseppe Provenzano

Taranto, cuore d'acciaio e sangue avvelenato, si è fermata. Ma non può finire così, di fronte al dramma economico e sociale, a quegli operai Ilva e dell'indotto (ventimila famiglie, la maggior parte monoreddito, su cui graverebbe la chiusura dello stabilimento), pronti a tutto pur di non perdere il lavoro. La città, due mari e polveri rosse, stretta tra il porto, l'Arsenale e questa grande fabbrica che fu di Stato, è la questione meridionale, il suo braccio forte che va in cancrena. Cos'è Taranto oltre l'acciaio?, si chiedono laggiù. E cos'è l'Ilva, quest'azienda che secondo le perizie in mano ai magistrati produce morte, nel Sud di oggi? Già fiore all'occhiello dell'industrializzazione di Stato - che qualche intellettuale dalla pancia piena, qualche giovane scrittore come Mario Desiati, liquida alla buona, trasognando forse un Sud tutto di capperi e muretti a secco, non avendo mai conosciuto miseria e violenza delle campagne del dopoguerra - dopo decenni di inefficienza pubblica, in cui la questione ambientale non fu mai posta, in pochi anni dalla privatizzazione ha volto, persino insperabilmente, le sue produzioni all'efficienza. Con l'impegno congiunto degli investimenti aziendali e dei lavoratori, ora produce il 40% del fabbisogno di acciaio dell'industria metalmeccanica nazionale e regge una buona fetta dell'export meridionale: successi economici che la crisi ha scalfito solo in parte. Però l'Ilva, un'azienda con un'età media molto bassa (31 anni), è soprattutto un monumento del lavoro nel Mezzogiorno: pressoché l'unico rimasto, in quel deserto industriale che sta diventando il Sud, da cui sono sparite anche le cattedrali, lasciando disastri ambientali altrettanto gravi e forse più, perché vi s'aggiunge quello peggiore della dimenticanza. Se l'impegno aziendale sulla sostenibilità degli impianti è stato tardivo e "forzato", l'allarmismo riflesso di queste ore non può far dimenticare infatti che la Puglia, dopo decenni di colpe e omissioni tarantine (in nome dell'occupazione o delle collusioni con l'azienda), ha cercato di affrontare la questione ambientale, approvando una legge sulla diossina che il resto del Paese si sogna e strumenti come la "valutazione di impatto sanitario", avviando un processo difficile di risanamento in un'area industriale avvelenata, che racchiude un grosso pezzo di economia nazionale (tra cui l'ENI che raffina il petrolio lucano), a ridosso della città già carica di amianto e inquinamento - spesso di Stato. Sono troppe le responsabilità del passato, sulla salute e sull'ambiente, per cui occorre avere rispetto per l'operato della magistratura. Tuttavia, l'auspicio è che nel breve spazio di tempo rimasto, si riesca a scongiurare la chiusura dello stabilimento.  Bisogna guardarle bene queste facce di operai, vecchi e giovani che indossano tute come corazze. La loro condizione umana è sempre più separata dalla città in cui pure vivono, in quel quartiere dei Tamburi, popolato un tempo dai metal-mezzadri con la loro identità divisa, che confina proprio con l'area a caldo. Proprio lì è maggiore l'incidenza di malattie e tumori derivanti dall'inquinamento industriale, e di morti pianti nel silenzio delle case, dopo aver pianto per anni quelli sul lavoro, sempre col ricatto della fame. Il dramma è che l'ambientalismo militante sembra essere loro distante e nemico - affollato a Taranto da un certo "professionismo", con punte di miseria intellettuale quando è pronto a chiudere lo stabilimento, possa pure andare ad inquinare a mille km di cielo più in là, in Africa o in Albania.  La città, in mezzo, vive contiguità e separatezza con la fabbrica, e con rassegnazione l'alternativa inevitabile tra disoccupazione e inquinamento: un poco pensa alla salute, che se ne va, e un po' alla crisi, che non se ne va più.  Così, è l'intero Mezzogiorno, nella sua spirale economica e sociale. Col futuro dell'acciaieria di Taranto, non è in gioco solo un'emergenza sociale, ma soprattutto una scommessa a cui non si può rinunciare: l'avvio di quel processo - forse tardivo, ma ormai sancito - per la bonifica e la riqualificazione  dell'area industriale, e per l'ambientalizzazione dell'impianto,  al fine di rendere ancor più sostenibile, come altrove, la produzione dell'acciaio. Questa è l'unica strada nello scenario meridionale di poli industriali in crisi e disastri ambientali, da Gela a Napoli. Spenti gli altiforni nottetempo, qualcuno potrebbe vagheggiare un Sud tutto giardini e bellezza - e chi riparerà alle bruttezze abbandonate, senza il benessere sociale di un lavoro produttivo? Sognano un luogo per farci solo le vacanze? Per troppi giovani emigrati è già così.

 

Messaggio forte azione limitata - Paolo Guerrieri

Sono bastate alcune nette e decise affermazioni del presidente Draghi a favore di un intervento della Bce a sostegno dell'euro per provocare una spettacolare conversione a U nei mercati europei, con le Borse in forte ripresa e un allentamento della tensione sui debiti sovrani. Lo spread dei nostri Btp è retrocesso fino a 473 punti base rispetto agli oltre 530 punti toccati ieri. Se le affermazioni di Draghi, fatte intervenendo alla Global Investment Conference di Londra, confermano, da un lato, la decisione della Bce di scendere apertamente in campo perché consapevole della fase drammatica in cui versa la crisi europea, rimane aperto, dall'altro, il quesito di come interpretare la portata e il possibile impatto di questi interventi. Al riguardo, le dichiarazioni più rilevanti sono state soprattutto due: la Bce è pronta a intervenire facendo tutto quello che è necessario per salvare la moneta unica, sempre nell'ambito del mandato affidatole come banca centrale, qualora l'euro rischiasse l'estinzione; la soluzione del problema degli spread se i premi richiesti dal mercato sui costi di finanziamento dei paesi dovessero danneggiare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria rientrerebbe pienamente nel mandato della Bce. Ora che la crisi dell'Eurozona sia ormai giunta a uno stadio così avanzato da mettere a rischio l'intero sistema e la stessa sopravvivenza della moneta unica è un dato di fatto da settimane sotto gli occhi di tutti. Allo stesso tempo, un altro fatto è che la situazione dei Paesi debitori - a partire da Spagna e Italia - si sia deteriorata drammaticamente nel periodo più recente, a causa di livelli anomali degli spread determinati più da aspettative legate ai rischi e ai fallimenti sistemici del funzionamento dell'area euro che a comportamenti e responsabilità dei singoli Paesi. Se teniamo conto di tutto ciò, una prima possibile interpretazione della presa di posizione di Draghi è quella di un messaggio forte inviato ai mercati che proietta l'immagine di una Bce pronta a realizzare massicci acquisti di titoli di Stato attraverso operazioni di mercato aperto, fatte non per finanziare i Paesi interessati (in quanto espressamente vietato alla Bce) ma per fornire la liquidità necessaria a ripristinare un ordinato funzionamento dei mercati e la conseguente trasmissione della politica monetaria. Interventi di questo genere possono non aver limiti e in quanto tale assumere un effetto deterrente di grande portata nei confronti dei mercati così da determinare una rapida intensa discesa degli spread e dei tassi di interesse dei Paesi più indebitati. In questo caso saremmo di fronte a un segno di forte discontinuità rispetto a quanto accaduto finora, con rendimenti dei titoli sovrani di Paesi come l'Italia e la Spagna che sono stati totalmente in balia di valutazioni erratiche dei mercati finanziari e delle forze speculative in essi operanti. Va considerato il fatto, tuttavia, che la Bce opera all'interno di un mandato molto più limitato delle altre banche centrali, per esempio proprio rispetto alle operazioni di mercato aperto. Ciò può sollevare forti dubbi sulla possibilità di veder realizzati nelle prossime settimane interventi del genere sopra richiamato. Per non parlare della forte opposizione che questi ultimi incontrerebbero da parte della Bundesbank. C'è allora un secondo modo di interpretare la mossa di Draghi, che ridimensiona la portata degli interventi realizzabili da parte della Bce e quindi anche il prevedibile impatto sulla crisi. Da mesi la Bce ha sospeso il programma acquisto di titoli di stato dei Paesi più indebitati (il cosiddetto Smp), tra cui quelli spagnoli e italiani, che era stato avviato sotto la guida dell'ex presidente Jean-Claude Trichet. Alla luce delle affermazioni di Draghi tale programma potrebbe essere ripreso. In questa eventualità, la Bce potrebbe mirare a alleggerire, innanzitutto, la pressione sui bonos spagnoli e dal momento che la Spagna ha già firmato un Memorandum di impegni per ottenere il pacchetto di aiuti di 100 miliardi in favore delle sue banche, gli acquisti di titoli sovrani spagnoli, attraverso il Smp, avverrebbero con le condizionalità che interventi di questo genere richiedono. La probabile riduzione degli spread sui bonos spagnoli avvantaggerebbe, di riflesso, anche i nostri titoli sovrani. Ma è evidente che interventi della Bce di questo genere avrebbero tempi e limiti ben definiti, come già avvenuto in passato, e potrebbero garantire solo una fase di transizione in attesa che il fondo salva-Stati - l'Esm - sia reso operativo e in grado di sostituirsi quale meccanismo anti-spread. Mario Draghi ha in effetti ribadito sia che l'Istituto centrale non vuole affatto sopperire ad azioni che possono essere messe in atto dai governi dell'euro sia che gli accordi stipulati al summit europeo di fine giugno rappresentano un passo avanti fondamentale e vanno resi operativi. Il che finirebbe per ridare la palla ai governi dell'euro e alla necessità che mettano in piedi, al più presto, adeguati sostegni di liquidità per intervenire in futuro sui mercati dei debiti sovrani a favore di quei Paesi - come Italia e Spagna - che seppur in regola con le raccomandazione delle politiche economiche comuni non vedono i loro sforzi di aggiustamento riconosciuti dai mercati. In questa seconda interpretazione, la Bce rilancerebbe un programma di acquisti attraverso l'Smp avviando interventi di liquidità diretti a riportare ordine sui mercati, ma con l'effetto più limitato di guadagnare solo un po' di tempo e garantire una fase di transizione i cui esiti resterebbero tutti nelle mani dei governi e della politica europei. Per quanto visto in questi ultimi tempi c'è dunque molto da temere.

 

Europa - 27.7.12

 

Il Governatore abusivo - Marco Cappato

Il presidente Formigoni rimane innocente davanti alla legge almeno fino a sentenza definitiva. Non è sulla base di indagini non terminate che si possono esigere le dimissioni di chicchessia, per quanto Formigoni per primo faccia il possibile per farsi travolgere dalla fragilità dei suoi stessi proclami prima ancora che dalle gravi accuse che gli sono mosse. C'è chi lo chiamerebbe "garantismo", in contrapposizione al "giustizialismo", intendendo in realtà due partiti faziosi e intercambiabili a seconda del collegamento politico delle parti in causa. Nel partito che fu di Enzo Tortora, più del garantismo ci interessa la legalità, il rispetto della legge. In uno stato di diritto tanto dovrebbe bastare, ma l'Italia non è né una democrazia né uno stato di diritto, e il "caso Formigoni" rende necessaria qualche riflessione in più. Proprio se non si vuol far danzare la politica al ritmo delle inchieste, non si aspetta il procuratore di turno per battersi contro un sistema di potere che opera contro le libertà civili ed economiche, né per denunciarne l'occupazione abusiva delle istituzioni. In Lombardia, i lavori pubblici, gli appalti, la sanità (e il fatto stesso che accuse come quelle del caso Daccò possano essere mosse dice molto sulla trasparenza del sistema, vedremo sulla sua legalità), le opere infrastrutturali, le costruzioni, le bonifiche e tanto altro ancora sono governati da regole non scritte di lottizzazione feroce ed efficiente, in una rete fitta di conflitti d'interesse, di controllori controllati, di consigli d'amministrazione pubblici e privati incestuosamente intrecciati. La sussidiarietà modello Comunione e liberazione è utilizzata come cavallo di Troia contro il mercato, per saccheggiare risorse pubbliche e coinvolgere il privato nei meccanismi clientelari e consociativi che dominano il pubblico. La straordinaria capacità di Roberto Formigoni è stata quella di saper affasciare attorno a sé per quasi un ventennio le più diverse forze economiche, ottenendo sostegni da parte del mondo della cooperazione (non solo Compagnia delle opere, ma anche cooperative bianche e rosse) e di rappresentanti istituzionali di destra, di centro, ma anche di sinistra. Il tentativo di esprimere una vera alternativa è infatti stato del tutto assente nell'opera di leader come Penati, rassegnati a difendere una parte minoritaria di potere invece di provare a metterne in discussione i meccanismi. Di fronte a tale sistema di potere, è oggi indispensabile parlare di giustizia, non per cavalcare le inchieste in corso, ma per denunciare come al sistema formigoniano non sia stata e non sia estranea né la malagiustizia italiana (quella che colleziona record di condanne in Europa) né il palazzo di giustizia di Milano. Per comprenderlo, si dovrebbe infatti partire dallo scandalo "Oil for food", dove la condanna in primo grado per corruzione internazionale ai danni delle Nazioni unite e del popolo iracheno comminata a faccendieri in stretti rapporti con Formigoni fu cancellata dalla prescrizione. Va poi ricordata la sentenza con la quale un giudice stabilì che il limite di due mandati consecutivi non si applica a Formigoni in Lombardia (dunque neanche ad Errani in Emilia), avallando un sovrapposizione ormai totale tra governo e potere che è all'origine dei guai ai quali il governatore è andato incontro. Per terminare il quadro, ricordiamo un fatto semplice: due anni e mezzo fa, noi Radicali portammo all'allora sostituto procuratore Bruti Liberati indizi seri di una truffa elettorale senza la quale non solo Formigoni, ma tutta la coalizione Pdl più Lega non avrebbe potuto presentarsi alle elezioni. Formigoni ci accusò di aver ordito una macchinazione, fu chiesta l'archiviazione senza indagini, ma quando poi portammo le prove della falsificazione materiale delle firme imponemmo l'apertura di un'inchiesta, e ora di un processo, oltre a quello per diffamazione ai nostri danni. La giustizia amministrativa, l'unica che potrebbe - e dovrebbe in tempi immediati - determinare l'annullamento o la convalida di elezioni truffaldine, si è però infilata su un binario morto, con la copertura della Corte costituzionale che ha così creato un precedente devastante per l'impunità dei crimini contro la democrazia. Auguro a Formigoni di dimostrare la propria innocenza (magari prima della prescrizione) sull'inchiesta in corso su tangenti e sanità. Rimane un presidente abusivo, che non avrebbe potuto nemmeno candidarsi, emblema e sintomo di un paese dove il potere si considera al di sopra della legge, potendo contare sul fatto che non vi è una giustizia in grado di fargliela rispettare.

 

Repubblica - 27.7.12

 

La cittadina Berlusconi - Roberto Saviano

Una persona informata sui fatti convocata dall'autorità giudiziaria è tenuta a presentarsi. Marina Berlusconi, citata dal tribunale di Palermo era tenuta a fare la sua deposizione senza aggiungere altro. Per lei e la sua famiglia, anche se in estremo ritardo, è giunto il momento di rispettare le istituzioni. Ma la sua famiglia pretende dall'amministrazione della giustizia quel rispetto che mai ha voluto darle. Pretende dagli organi di informazione ciò che mai ha voluto riconoscere agli avversari politici: il rispetto della persona, il rispetto delle idee. La sua famiglia si è fatta "Istituzione" essa stessa, guardando più che a Occidente all'Oriente degli amici di famiglia: Putin, Lukasenko e Gheddafi. Lei dichiara che la procura di Palermo l'ha convocata per avere notizie su un conto cointestato del quale non ricordava nulla, che non ha mai utilizzato. Immagino sappia che per molto meno eserciti di scherani hanno diffamato, mediaticamente massacrato, sbattuto in prima pagina persone la cui unica vera colpa era essere entrati in conflitto con suo padre. Lei che attraverso gli organi di informazione della sua famiglia contribuisce a creare un quadro inesistente della realtà, lei che con il suo approccio familistico ha fatto della comunicazione editoriale una estensione delle stanze di casa sua; lei chiede rispetto per sé non come persona, ma in quanto "Istituzione". Per il solo fatto di essere la figlia di Silvio Berlusconi. Il cittadino, convocato a comparire innanzi all'autorità giudiziaria, si presenta senza discutere e dovrebbe farlo soprattutto se è la figlia "di un cittadino più uguale degli altri". Eppure lei si lamenta per il trattamento che ha avuto dalla stampa, cosa singolare per un editore. Lei fa comunicazione o meglio fa fare comunicazione. Stupisce il suo risentimento. Stupisce perché sono anni che la comunicazione dei giornali di famiglia si affida a titolazioni violente volte a terrorizzare i nemici con storie private per aggredire chiunque sia contro suo padre. Si potrebbe fare un elenco infinito di tutte le volte che i nemici di suo padre sono stati screditati dalla galassia mediatica che a lui fa capo. Notizie infondate, dettagli falsi, raccolte di firme contro chi raccontava qualcosa che dava fastidio al governo in carica. Lei si lamenta di qualcosa che ha fortemente contribuito a creare e da editore dovrebbe sapere che il disegno della comunicazione, lo stile, la qualità, si costruisce quotidianamente con il proprio lavoro o quel rispetto che ora pretende vale solo per sé? Provi a immaginare, signora Berlusconi, come si sono sentite le centinaia di persone "attenzionate" anche dai suoi dipendenti, alla ricerca di particolari che potessero screditarle agli occhi dell'opinione pubblica, di scatti fotografici che dimostrassero quanto benessere vi fosse nelle vite dei "nemici". Non certo per dimostrare che dietro quel benessere vi fosse all'origine un crimine, ma per far passare l'idea che il guadagno, il lavoro retribuito sia esso stesso un crimine. Nell'obiettivo del suo gruppo, sempre e solo l'intenzione di comunicare la sottile "verità" della comune sporcizia. Pensi al giudice Mesiano e a quanto gli siano costati un taglio di capelli e quei calzini turchesi. E poi la parola mafia, che giustamente le dà i brividi, poteva forse meritare altrettanta attenzione quando suo padre disse che la mafia era un problema creato da chi ne parlava. Che sarebbe stato opportuno ironicamente "strozzare" chi scriveva libri di mafia perché diffamava il nostro Paese. Ecco, se si è sentita aggredita decida di dare una direzione diversa al suo lavoro, mostri di comprendere la differenza che esiste tra estorsione e inchiesta, tra autorevolezza di una riflessione e gossip, tra ipotesi e minaccia. Del resto, nonostante l'impegno a sgretolarlo, l'articolo 3 della Costituzione esiste ancora, poche righe di facile lettura e interpretazione. E sta là a dirci che ogni cittadino è uguale dinanzi alla legge: rispetti quindi la legge, cittadina Berlusconi, come tutti.

 

La Fininvest risponde a Saviano. "Totale capovolgimento della realtà"

ROMA - "Roberto Saviano pensi quel che vuole di Marina Berlusconi e dei suoi congiunti ma impari a rispettare le migliaia di persone che lavorano nel gruppo Fininvest". Così la holding della famiglia Berlusconi risponde a un articolo di Saviano 1 comparso oggi su Repubblica. "Da tempo non prendiamo più in considerazione le ricorrenti ossessioni di Roberto Saviano. E intendiamo proseguire così. Ma, probabilmente a caccia di quella visibilità che per lui appare un po' in declino, sulla Repubblica di oggi con il consueto fondamentalismo e con raro sprezzo del pudore Saviano arriva all'inarrivabile, al totale capovolgimento della realtà". E' quanto si legge in una lettera inviata al nostro quotidiano dal direttore della comunicazione di Fininvest, Franco Currò: "Nell'invettiva titolata 'la cittadina Berlusconi' - scrive Currò - Saviano accusa quanti lavorano nel gruppo Fininvest, cominciando naturalmente dai suoi azionisti, per quella mostruosa macchina di distruzione mediatica degli avversari al cui inesauribile funzionamento, viceversa, proprio Saviano ha dato e dà un contributo determinante. Una macchina diventata peraltro industria di grande successo, economico ma non solo". "Pensi quel che vuole Saviano di Marina Berlusconi o dei suoi congiunti - conclude la lettera - ma impari a rispettare le migliaia di persone che nel gruppo lavorano: non si permetta di definire "eserciti di scherani" professionisti che con il loro impegno contribuiscono ogni giorno a garantire la libertà e il pluralismo nel nostro Paese. E soprattutto, anche se ci rendiamo conto di quanto le possa costare, provi a rispettare la verità, cittadino Saviano".

 

Fatto Quotidiano - 27.7.12

 

Parma, lo stallo della giunta tra Regio e rifiuti. Pd e Pdl: "Pizzarotti inconcludente" - Silvia Bia

Bocciatura su tutta la linea. Sono passati oltre due mesi dalla vittoria del Movimento 5 Stelle a Parma, ma il sindaco Federico Pizzarotti ancora non convince la minoranza. Nella quarta seduta del consiglio comunale, l'ultima prima della pausa estiva, i gruppi d'opposizione hanno incalzato la giunta su tempi e modalità d'azione, criticando aspramente le linee programmatiche dei Cinque stelle. E a placare gli animi non sono servite le risposte alle interrogazioni presentate dai consiglieri, giudicate spesso incomplete dagli interlocutori. "Arriverà anche l'epoca in cui si smetterà di dire 'stiamo valutando' - fa notare Massimo Iotti (Pd) - Capisco l'inesperienza e il periodo di apprendistato, ma il tempo intanto passa e il consiglio praticamente non ha deliberato nulla". All'ordine del giorno questioni che in città stanno scoppiando in tutta la loro gravità, a partire dal Teatro Regio. Proprio mentre in aula la minoranza chiede conto degli atti da pubblicare ("si renderanno pubblici solo i verbali approvati" replica il sindaco) e delle imminenti scadenze sul Festival Verdi, arriva la comunicazione della dipartita ufficiale della Camera di commercio dalla Fondazione del teatro. Una scelta annunciata una settimana fa con le dimissioni del presidente Andrea Zanlari, che nel Cda del Regio ricopriva da appena due settimane il ruolo di vicepresidente. Le motivazioni della scelta, rese note solo oggi dal comunicato ufficiale dell'ente, "sono da ricondursi al suo mancato coinvolgimento nelle iniziative per la definizione del prossimo Festival Verdi". La giunta della Camera di Commercio parla di decisioni "assunte senza un preventivo confronto fra tutti i soci" e attacca duramente la nuova gestione Cinque stelle, a cui imputa l'uscita dalla Fondazione. "Le diverse voci del mondo economico che questo ente rappresenta si trovano disorientate di fronte al modus operandi del Comune rispetto al prossimo svolgimento del Festival Verdi e dall'incertezza che lo stesso genera tra gli imprenditori che hanno riposto fiducia nella sua realizzazione" si legge nella lettera inviata al presidente della Fondazione Teatro Regio Pizzarotti. Da gennaio 2013 quindi tra i soci fondatori del Teatro Regio, che ha un buco di bilancio milionario, rimarranno solo Comune e Fondazione Monte di Parma, dopo l'uscita negli scorsi mesi di Fondazione Cariparma. Il che significa anche fondi che verranno a mancare, nonostante la Camera di commercio abbia garantito il proprio ruolo esterno alle attività della Fondazione e del Festival Verdi. Sulla perdita di un pezzo importante del Regio, Pizzarotti svicola e rimanda ogni commento al mittente: "Se volete chiarimenti in più, chiedete a loro" taglia corto, rinnovando poi l'invito all'appuntamento di presentazione del Festival Verdi sabato. Ma intanto una tirata d'orecchie al primo cittadino arriva in diretta dal consigliere Roberto Ghiretti (Parma Unita), infuriato per avere scoperto da Twitter un suo commento sulla seduta in corso: "Il sindaco può dirci in faccia le cose, non dobbiamo venirle a sapere da internet". Il presidente del consiglio Marco Vagnozzi riporta tutti all'ordine, ma incurante delle critiche, Pizzarotti strizza l'occhio (con un emoticon) con un altro tweet: "Basta un cinguettio per discutere?". Nella seduta fiume durata oltre sei ore, passa non senza polemiche la delibera sul piano finanziario della gestione rifiuti che aumenterà la raccolta differenziata in città, e l'assessore al Bilancio Gino Capelli fornisce il quadro del debito in conto capitale del Comune verso imprese e fornitori del comparto edile: 71 milioni di euro, di cui 68 riferibili agli anni scorsi. Ma è sulla presentazione delle linee programmatiche dell'amministrazione che dai banchi di opposizione si alza un muro. Il sindaco detta l'agenda Cinque stelle in fatto di partecipate, sociale, urbanistica, ambiente per i prossimi cinque anni di governo. E alla fine della lettura, in aula c'è un clima di perplessità. "Mi aspettavo un programma in cui si mettevano le basi di una nuova civiltà, voi avete parlato di rivoluzione, ma sono ampiamente deluso" attacca Elvio Ubaldi (Civiltà parmigiana). E gli altri interventi non sono molto diversi. Dal Pdl al Pd, tutti i gruppi puntano il dito sulla mancanza di novità, ma anche di concretezza in progetti privi di numeri, con concetti generici che sfiorano la demagogia. "Non è questo lo spirito che vorrei - replica il sindaco - Siamo al secondo mese, non al quinto anno: non si possono fare bilanci. Stiamo cercando di costruire, cerchiamo una strada per condividere le decisioni perché non le vogliamo imporre. State cercando di minare il nostro rapporto coi cittadini".

 




Data notizia27.07.2012

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