Contattaci Rss

Politica Italiana


 

Manifesto - 28.7.12

 

Disperazione operaia - F.C.

TARANTO - Una giornata drammatica: assemblee, blocchi stradali, proteste. Eppure una giornata in cui si è trattato fino alla fine per rimuovere i presidi degli operai dell'Ilva sulle strade e al ponte girevole. Lo sciopero ad oltranza è stato revocato; diffusa anche la notizia del lento, progressivo, ritiro dei blocchi. Nella tarda serata, comunque, ancora rimanevano gruppi di operai sulle strade. Solo dalle sette di questa mattina la situazione è tornata effettivamente alla normalità. La vicenda del sequestro giudiziario dell'area a caldo dello stabilimento siderurgico e le conseguenze per i lavoratori rimangono però in piedi. È stato d'allerta. In tutta la sua drammaticità. Città paralizzata perché decine e decine di dipendenti dello stabilimento siderurgico hanno presidiato gli accessi alla strada statale 100 (Taranto- Bari) e alla via Appia, della statale 106 (Taranto-Reggio Calabria) e della strada per Statte. Tutti riuniti in gruppi compatti, agguerriti, pronti a far valere le ragioni del lavoro: «Perché ho famiglia e mutuo, perché così non c'è futuro. Perché non possiamo andare a rubare, ma così ci costringono». Nessuno riusciva a superare le barriere di cordoli in plastica e cassonetti messi di traverso, mentre il vento sollevava una polvere furiosa come certe parole d'ordine: «Occupiamo tutto, basta. Nessuno ci ha ascoltato. Né politici né giornalisti». Senza creare incidente alcuno, gli operai hanno, con diligenza e metodo, lasciato che la città si consumasse nell'angoscia di non potersi «muovere», di rimanere accartocciata su se stessa. Quasi si volesse una riflessione, un atto di dolore verso gli operai e il loro dramma. Quarant'otto ore dopo la notifica del sequestro dell'area a caldo da parte della magistratura tarantina, in realtà la protesta si quieta, apparentemente, per cambiar pelle. Molte cose hanno contribuito a modificare il corso della giornata. L'assemblea convocata dalle sette alle nove dentro lo stabilimento e alla quale hanno partecipato i tre segretari nazionali del settore metalmeccanico: Maurizio Landini (Fiom Cgil), Marco Bentivogli (Fim Cisl) e Rocco Palombella (Uilm). I blocchi stradali, l'incontro tra i sindacati e il prefetto Claudio Sammartino, la conferenza stampa del procuratore capo di Taranto Franco Sebastio e quella del presidente dell'Ilva Bruno Ferrante che ha anche incontrato le organizzazioni sindacali di Fiom, Fim e Uilm nazionali e territoriali, oltre che a Cgil, Cisl e Uil di Taranto e allo stesso prefetto Sammartino. Molto ha inciso anche la decisione del sindaco di Taranto Ezio Stefàno di far occupare simbolicamente a un gruppo di operai Palazzo di città (sede del Comune), accogliendo la richiesta del Partito democratico e dei vendoliani di Sel di mettere la discussione sul futuro dell'Ilva al primo punto dell'ordine del giorno del Consiglio comunale convocato lunedì prossimo. Sciopero e blocchi, un pendolo oscillante. Lo stabilimento, però, ha continuato a «marciare» e tra i lavoratori - impegnati a manifestare o a far andare gli impianti - ci si scambiava comunicazioni tramite cellulare: il numero di «colate», cioè l'acciaio prodotto. Senza pause. Due sono stati, però, i fatti che più hanno inciso, ieri, sul corpo vivo della cronaca di queste ore disperate. Gli applausi scroscianti presi dal segretario generale della Fiom Cgil Maurizio Landini e la contestazione al segretario generale della Uilm Rocco Palombella, un tempo dominus sindacale incontrastato all'interno dello stabilimento siderurgico. Landini ha conquistato i lavoratori, lui sul palco con tutto il peso del sindacato di minoranza, in una fabbrica de-sindacalizzata, con tutto il peso di parole decisive: «I lavoratori devono difendere il proprio posto, ma il Gruppo Riva deve investire per migliorare la compatibilità ambientale degli impianti. E gli operai devono pretendere questo dall'azienda». Landini ha così staccato finalmente le responsabilità del capitale da quelle del lavoro in questa drammatica vicenda. E' stato, per la Fiom, un successo importantissimo in termini di consenso. Il sindacato ha così ribadito una linea che ha preso piede tra gli operai e che li toglie dal limbo di quella invisibilità sentita soprattutto come incapacità di formare una nuova coscienza di classe al netto di straordinari e contratti integrativi. Al netto della busta paga. Oltre alle contestazioni nei confronti del segretario Uilm, Palombella, percepito come distante dai problemi dei lavoratori, lui che è stato anima sindacale per oltre un decennio dello stabilimento, portando il suo sindacato alla supremazia nelle tessere, la giornata ha vissuto un altro momento di tensione. Un gruppo di lavoratori ha duramente apostrofato il parlamentare tarantino del Partito democratico Ludovico Vico, giunto al ponte girevole per incontrarli. Vico è stato costretto ad abbandonare il confronto con gli operai scortato dalla polizia. E nella giornata di oggi il Partito democratico rilancia: è prevista una conferenza stampa a Taranto del responsabile del settore economia e lavoro Stefano Fassina che più volte ha insistito sulla necessità di tenere insieme la produzione, il lavoro e il rispetto dell'ambiente. Resta infine un dilemma, proprio sulla scorta delle parole del segretario Fiom, Landini. Nella conferenza stampa del presidente dell'Ilva Bruno Ferrante non si è fatto cenno alcuno alla possibilità che l'azienda investa per migliorare la compatibilità ambientale degli impianti. Un argomento certo ancora tutto da «decifrare» al di là dei soldi del governo per le bonifiche, ma sul quale ora sono i lavoratori a esigere novità. Aspettando lo sciopero di 24 ore e la nuova manifestazione del due agosto, giovedì, vigilia dell'appuntamento al tribunale del riesame.

 

«Per noi è un salto culturale» - Antonio Sciotto

Maurizio Landini è appena uscito dall'incontro con il nuovo presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, mentre in mattinata aveva partecipato a un'animatissima assemblea dei dipendenti. Propone quello che chiedono gli operai: ovvero che finalmente l'impresa e la politica bonifichino la città e creino produzioni sostenibili, senza perdere posti di lavoro. Nel contempo, però, il leader della Fiom ammette che i lavoratori stanno facendo un «salto culturale», e che prima erano in ritardo sul tema ambientale. Ancora, Landini commenta lo scontro tra l'amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne e la Volkswagen, propendendo con evidenza a favore delle ragioni della casa tedesca. Gli operai difendono il loro posto, ma la questione ambientale a Taranto è urgente. Come conciliate i due temi? Che gli operai difendano il proprio posto mi pare legittimo. La cosa importante è che non si è ceduto a chi credeva alla contrapposizione lavoratori-magistratura. Al contrario si chiede a tutti i soggetti coinvolti, a partire dall'Ilva, di difendere il lavoro ma insieme anche la sicurezza e la salute, dei dipendenti e della città. Il problema riguarda tutta l'area di Taranto, altre imprese importanti. Va anche detto che l'Ilva non è più la fabbrica di 20 anni fa: negli ultimi anni ha investito 1 miliardo contro l'inquinamento. Ma vi sembra credibile ottenere una Ilva «pulita»? Vedendo oggi Taranto si perderebbe ogni speranza. Tutto il territorio è inquinato da oltre 50 anni, a causa dell'Ilva ma non solo: ci sono altri grossi impianti, e non a caso l'accordo siglato al ministero non si riferisce all'Ilva ma a tutta l'area di Taranto. Ma perché non abbiamo visto negli ultimi anni gli operai in piazza per l'ambiente, e riusciamo a vederli mobilitati soltanto oggi? Hanno dovuto aspettare la magistratura e gli ambientalisti? Credo ci siano ragioni e responsabilità precise, non solo dei lavoratori: i passati governi, la Regione prima di Vendola, la stessa Ilva. È passata l'idea che pur di lavorare va bene tutto. Il sindacato ha fatto alcune iniziative, ma non faccio fatica ad ammettere che per il mondo del lavoro siamo a un passaggio culturale, e che qualche ritardo su questo fronte prima c'è stato. Cosa, perché si produce e con quale sostenibilità, è un tema che va rivolto a tutti i soggetti, in primis all'impresa e alla sua responsabilità sociale. Adesso cosa vi aspettate? Abbiamo appena incontrato il nuovo presidente Ferrante e abbiamo accolto con favore il suo impegno di continuare a produrre, collaborando con istituzioni, governo e sindacato. Il 3 agosto c'è il riesame e vedremo, ma il punto piuttosto è aprire un percorso vero di investimenti pubblici e privati. D'altronde non puoi fermare le produzioni in un'acciaieria come quella, per precisi vincoli tecnologici. Se la chiudi non la riapri più. Si potrebbe pensare però di chiudere solo il ciclo a caldo, più inquinante. Non puoi distinguere tra ciclo freddo e caldo, devi tenerli insieme, non puoi dividerli. Sono un vero ciclo integrato. E sullo scontro Marchionne-Volkswagen la Fiom cosa dice? Dico che è innanzitutto un elemento di novità il fatto che Marchionne invece di insultare la Fiom, insulta altri. Vedo la difficoltà per la Fiat di vendere in Europa: non ha mai investito e innovato i suoi prodotti, è preoccupante. In Italia chiederei piuttosto una politica industriale dell'auto e la mobilità, in modo da far entrare investitori stranieri nel nostro territorio. Interi pezzi dell'industria spariscono, la Fiat non investe. Dopo due anni e mezzo, chi ha firmato accordi con Fiat dovrebbe riflettere. Ma perché il modello Volkswagen vince e quello Fiat crolla in Europa? In una concessionaria Vw trovi auto da 10 mila euro a 150 mila, in tutte le gamme. Mentre alla Fiat non è così. C'è poi un grande vantaggio competitivo e tecnologico, marchi diversi, l'acquisto di nuove piattaforme. Vw è anche il primo costruttore di auto andato in Cina. Ma soprattutto non ha licenziato quando aveva difficoltà: ha preferito ridurre gli orari e investire. L'Audi, tedesca, ha da poco comprato Lamborghini e Ducati Motor: in entrambi gli stabilimenti noi della Fiom abbiamo ottimi rapporti con i capi, ma soprattutto l'80% alle elezioni. Nonostante la Fiom vanno bene, fanno utili e investono. Audi ha comprato prima che modificassero l'articolo 18.

 

Obbligati a tutelare la città - Gianmario Leone

TARANTO - «È stato un provvedimento molto sofferto. Ma è bene chiarire una volta e per tutte che la magistratura si è mossa solo per rispondere al dettato costituzionale che impone l'obbligatorietà dell'azione penale. Non c'era altra possibilità di scelta». Questo l'incipit del procuratore generale presso la Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, che nella conferenza stampa svoltasi ieri presso il comando provinciale dei carabinieri di Taranto, ha affiancato il procuratore di Taranto Francesco Sebastio, all'indomani del provvedimento del gip Patrizia Todisco che ha disposto il sequestro di sei reparti a caldo del siderurgico tarantino e ha ordinato l'arresto per otto dirigenti della Ilva. Parole forti quelle di Vignola, che ha voluto mettere in chiaro come quella messa in atto è un'indagine a tutto campo, tesa a stabilire «che i morti determinati dagli inquinanti a Taranto, a Brindisi o a Lecce meritano rispetto, lo stesso, della Thyssen, di Marghera, di Genova. I nostri non sono morti di serie B. Sono persone, operai e cittadini che hanno lo stesso diritto costituzionalmente garantito di vedersi tutelati. E visto che sono stati e vengono a tutt'oggi colpiti anche i bambini, noi non potevamo non agire». Per questo motivo, il gip, ha scritto nero su bianco che lo stop alle acciaierie deve essere immediato «a doverosa tutela di beni di rango costituzionale come la salute e la vita umana che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta». Perché, ricorda sempre il gip, «la salute e la vita umana sono beni primari dell'individuo, la cui salvaguardia va assicurata in tutti i modi possibili». Dunque «non si potrà mai parlare di inesigibilità tecnica o economia quando è in gioco la tutela di beni fondamentali di rilevanza costituzionale, quali il diritto alla salute, cui l'art. 41 della Costituzione condiziona la libera attività economica». Anche perché chi ha diretto lo stabilimento, doveva operare «salvaguardando la salute delle persone», adottando «tutte le misure e utilizzando tutti i mezzi tecnologici che la scienza consente, al fine di fornire un prodotto senza costi a livello umano». Cosa che non è stata fatta. D'altronde, i reati di cui sono accusati a vario titolo i gestori e proprietari dell'Ilva, il patron Emilio Riva, suo figlio Nicola ex presidente del siderurgico, Luigi Capogrosso ex direttore dello stabilimento, Marco Andelmi capo area parchi, Angelo Cavallo capo area agglomerato, Ivan Dimaggio capo area cokerie, Salvatore De Felice capo area altoforno e Salvatore D'Alo capo area acciaieria 1 e 2, parlano chiaro: disastro ambientale doloso e colposo, getto e sversamento pericoloso di cose, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici. E proprio perché siamo di fronte ad un'inchiesta senza precedenti, Vignola ha chiarito come essa «si estenderà anche ad altre industrie inquinanti: Cementir, Agip o Eni e poi a Brindisi». Ma questo riguarda il futuro. Perché arresti e sequestro di oggi, hanno motivazioni precise: il Gip Todisco lo ha chiarito nel dispositivo di oltre 600 pagine. «Chi gestiva e gestisce l'Ilva ha continuato nell'attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Perché come ha spiegato a supporto di tale tesi il procuratore Vignola, mentre di giorno l'Ilva «rispettava» le prescrizioni imposte, la notte avveniva tutt'altro: testimoniato «dalla eloquente e impressionante documentazione filmata e fotografica del Noe sul reparto agglomerato», che ha dimostrato come di notte «venivano fuori dai camini le nubi contenenti polveri sottili. Parole che riprendono quanto scritto nel dispositivo del Gip, che a tale riguardo parla di «accertamenti e risultanze emersi nel corso del procedimento», che hanno «denunciato a chiare lettere l'esistenza, nella zona del tarantino, di una grave e attualissima emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive, dallo stabilimento Ilva». La cui gestione, prosegue il Gip, è stata «sempre caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni provocati», con un impatto «devastante sull'ambiente e sui cittadini che ha prodotto un inquinamento che ancora oggi provoca disastri nelle aree più vicine allo stabilimento». La parola è poi passata al procuratore di Taranto, Franco Sebastio. Che ha voluto fare chiarezza sulle tante inesattezze diffusesi nelle ultime ore, dopo la notifica dei provvedimenti del Gip. Per prima cosa, un passo indietro nella ricostruzione dello sviluppo dell'inchiesta: «da parte della difesa dell'azienda - non è stata espletata fino ad oggi alcuna concreta attività difensiva. Ad esempio, nessuna controperizia che contestasse le relazioni tecniche». Lo stesso Sebastio, poi, chiarisce che il sequestro non è stato eseguito, ma soltanto notificato.. Tecnicamente parlando, infatti, il provvedimento di sequestro degli impianti sarà applicato una volta che avrà superato l'esame del tribunale del riesame, che si occuperà del caso venerdì 3 agosto. Nel frattempo, l'impianto non chiuderà. Il procuratore ha poi espresso un suo personale desiderio: «Voglio vedere se finalmente si può arrivare ad una conclusione positiva e accettabile, non perfetta ovviamente, in relazione ad una attività di controllo che la magistratura ha iniziato 30 anni fa». La prima sentenza contro l'ex Italsider è infatti datata 14 luglio 1982.

 

Operai e padroni, strana alleanza - Alberto Asor Rosa

Giorni or sono ho pubblicato sul manifesto un articolo («Ma dove sono i partiti?», 13 luglio), in cui invitavo la futura concentrazione di governo di centro-sinistra a inserire fra i primi posti nella propria elaborazione il lavoro e l'ambiente; ma aggiungevo: «Niente di pacifico e di scontato, beninteso. Le mie esperienze degli ultimi anni mi spingono anzi a pensare che siano due fondamentali campi tematici in potenziale conflitto fra loro, soprattutto in tempo di crisi». La vicenda dell'Ilva di Taranto ne rappresenta una esemplificazione rapida e gigantesca. Come si fa a non essere d'accordo con il Gip Patrizia Todisco, quando intima l'immediata chiusura delle lavorazioni nocive e spedisce ai domiciliari i dirigenti dell'azienda che ne sono stati i responsabili? Come si fa a non essere d'accordo con gli operai che scendono in piazza per protestare contro l'eventuale, catastrofica perdita del lavoro? L'anno scorso ho partecipato in Val di Chiana (vivace regione toscana in provincia di Arezzo) a una affollatissima assemblea ambientalista intesa a protestare contro la trasformazione di un innocuo, obsoleto, conservificio, in un'immensa centrale a biomasse, di cui esperti di altissimo livello, lì presenti, garantivano l'altissima nocività. L'assemblea fu interrotta dall'intervento di un massiccio drappello operaio, venuto a protestare contro opportunità e obiettivi dell'iniziativa. Interpellati a parte, nel corso dell'agitata sospensione: «Ma insomma, non v'interessa se la centrale a biomasse cagioni rischi gravi per voi, per i vostri figli e per i vostri concittadini?», la risposta fu: «No, prima di tutto il lavoro». Nel frattempo il resto della sala rumoreggiava contro la non gradita intrusione. Il dato inquietante è che, in tutti i casi del genere, gli operai si schierano senza se e senza ma dalla parte del padrone, e non della cittadinanza (cui pure, ovviamente, appartengono); la cittadinanza si schiera dalla parte dell'ambiente, e non degli operai, cui altrettanto ovviamente, è legata da moltissimi vincoli di conoscenza e magari di parentela). Più in generale: non esiste una posizione operaia sulle questioni dell'ambiente. Quanto al governo, sempre più fedele alla massima di discutibile origine, «primum vivere, deinde cogitare», il ministro dell'Ambiente (dell'Ambiente, dico), Corrado Clini, chiede che il provvedimento giudiziario venga riesaminato e puramente e semplicemente respinto. Ciò che voglio dire è che qui, su questo punto specifico, si apre un abisso, che rischia d'inghiottire ogni prospettiva di un diverso movimento riformatore. Nella crisi, infatti, le giustificazioni dell'attacco all'ambiente e al territorio - a qualsiasi prezzo e a qualsiasi condizione -, aumentano a dismisura. L'alleanza padronato-classe operaia rischia di diventare strategica. E se questo accadesse, non ci sarebbero più le forze per cambiare il mondo. L'ideologia delle grandi opere - la Tav in Val di Susa, la Tav di Firenze, eventualmente la ripresa del grande ponte sullo Stretto di Messina, in ogni caso la perdurante, ciclopica distruzione del territorio nazionale da parte della speculazione immobiliare - inutili, costose, altamente remunerative solo per alcuni e soprattutto altamente distruttive, poggia anch'essa su questo gigantesco ricatto: per lavorare bisogna far danno, alla salute, all'ambiente, al territorio e alla fine anche all'economia: non è possibile che accada altrimenti. Invece non è vero. Questa è una parte davvero non irrilevante dell'inganno di cui è portatore il «pensiero unico», giustamente stigmatizzato dal gruppo degli economisti sul manifesto (24 luglio). Lavoro non contro l'ambiente e la salute e il benessere, in molteplici modi, dei cittadini; ma lavoro inserito armonicamente in un quadro di sviluppo rispettoso del diritto di sopravvivenza di tutti è possibile, purché l'ideologia dominante sia rovesciata. Essenziale, per cominciare, è che le due cose vengano pensate insieme e contemporaneamente, e non separatamente (come del resto cerca di fare sul manifesto Guido Viale, troppo poco ascoltato). Non è semplice, lo so bene anch'io, ma i fondamentali ci sono già tutti, bisogna sforzarsi di rimetterli insieme. Se invece dalla crisi si pensa di uscire contrapponendoli, andiamo diritti verso la catastrofe. Motivo di più per pensare, e non solo per chiacchierare.

 

Una storia di veleni e di ricorsi. Cos'altro doveva fare il giudice? - A.Marescotti*

TARANTO - «Mi complimento per gli sforzi e i risultati ottenuti da Ilva. Attraverso i recenti dati clinici che ci giungono dalle Asl territoriali, emergono dati confortanti in relazioni alle malattie più gravi, patologie che non risultano in aumento, anche grazie al miglioramento dell'ambiente e della qualità dell'aria». Questo affermava il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, nell'ottobre del 2011 sulla rivista (promossa da Ilva) Il Ponte N.3 , a pagina 19. Poi sono arrivate le due perizie della magistratura, una dei chimici e una degli epidemiologi. Il sindaco è stato clamorosamente smentito dai periti della procura che hanno invece scritto queste cose. 1) Nel 2010 Ilva ha emesso dai propri camini oltre 4 mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto e 11 mila e 300 tonnellate di anidride solforosa (oltre a: 7 tonnellate di acido cloridrico; 1 tonnellata e 300 chili di benzene; 338,5 chili di Ipa; 52,5 grammi di benzo(a)pirene; 14,9 grammi di composti organici dibenzo-p-diossine e policlorodibenzofurani (Pcdd/F). Vedere pag. 517 della perizia dei chimici. 2) I livelli di diossina e Pcb rinvenuti negli animali abbattuti e accertati nei terreni circostanti l'area industriale di Taranto sono riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva di Taranto. Vedere pag. 521 della perizia dei chimici. 3) La stessa Ilva stima che le sostanze non convogliate emesse dai suoi stabilimenti sono quantificate in 2148 tonnellate di polveri; 8800 chili di Ipa; 15 tonnellate e 400 chili di benzene; 130 tonnellate di acido solfidrico; 64 tonnellate di anidride solforosa e 467 tonnellate e 700 chili di Composti Organici Volatili. Vedere pag. 528 della perizia dei chimici. 4) La fuoriuscita di gas e nubi rossastre dal siderurgico (slopping), fenomeno documentato dai periti chimici e dai carabinieri del Noe di Lecce, ammonta a 544 tonnellate all'anno di polveri? Vedere pag. 528 della perizia dei chimici. 5) Sarebbero 386 i morti (30 morti per anno) attribuibili alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi. 6) Sono 237 i casi di tumore maligno con diagnosi da ricovero ospedaliero (18 casi per anno) attribuibili alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi. 7) Sono 247 gli eventi coronarici con ricorso al ricovero (19 per anno) attribuiti alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi. 8 ) Sono 937 i casi di ricovero ospedaliero per malattie respiratorie (74 per anno) (in gran parte tra i bambini) attribuiti alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi. 9) Sono 17 i casi di tumore maligno tra i bambini con diagnosi da ricovero ospedaliero attribuibili alle emissioni industriali. Vedere pag. 220 della perizia degli epidemiologi. 10) I periti hanno concluso che l'esposizione continuata agli inquinanti dell'atmosfera emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione «fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte». Ripercorriamo alcuni passi della vicenda. 2008 Le analisi di laboratorio (commissionate da PeaceLink) sul pecorino evidenziano concentrazioni di diossina e Pcb tre volte superiori ai limiti di legge. L'Asl di Taranto ordina l'abbattimento di 1.300 capi di bestiame allevati a ridosso dell'Ilva. 2009 Ventimila persone sfilano a Taranto contro l'inquinamento aderendo all'appello lanciato da Altamarea. 2010 PeaceLink e Altamarea evidenziano troppa diossina nelle carni di ovini e caprini. Un'ordinanza della Regione Puglia vieta il consumo del fegato degli ovini e caprini cresciuti in un raggio di 20 chilometri dall'area industriale di Taranto. 2011 Il Fondo Antidiossina Taranto fa analizzare dei mitili. Emergono valori estremamente preoccupanti. L'Asl di Taranto vieta il prelievo e la vendita delle cozze allevate nel primo seno del Mar Piccolo. I mitili presentano concentrazioni di diossina e Pcb superiori ai limiti di legge. 2012 La magistratura mette i sigilli agli impianti più inquinanti dell'Ilva. Che altro dovevano fare i magistrati?

*presidente di Peacelink: www.peacelink.it

 

Lo stato sociale è in agonia. Eppure c'è chi insiste - Duccio Valori*

La vicenda dell'Ilva di Taranto deve portare ad un attento riesame delle scelte fatte in questi ultimi anni in materia di privatizzazioni; a sua volta, questo riesame implica la presa di coscienza dell'agonia nella quale versa lo stato sociale che i meno giovani tra noi ricordano e forse rimpiangono. In cosa consisteva questo stato sociale? Innanzitutto, nella tutela dell'occupazione. Le grandi imprese non potevano fallire: qualora le cose fossero andate troppo male, c'era sempre un Iri, o un Efim, o un Eni - o, per le imprese di medie dimensioni, una Gepi - che avrebbero provveduto al salvataggio sia dell'impresa che dei posti di lavoro. Le piccole imprese, o le attività di servizio private, godevano di una sostanziale immunità fiscale: in altri termini, o non pagavano le tasse o pagavano molto meno del dovuto. Quando le grandi imprese avevano esuberi consistenti, non si licenziava, ma si realizzavano prepensionamenti: e questo, a memoria di chi scrive, fu molti anni or sono il caso della Finsider. Certo, c'era molto che non andava nel sistema descritto: oneri oggi impensabili venivano posti a carico del bilancio dello Stato, con la conseguente - ed oggi evidente - lievitazione del debito pubblico. C'erano però anche aspetti positivi. Gli occupati, nella sostanziale certezza dell'intangibilità del posto di lavoro, potevano indebitarsi per comprare la casa e l'automobile, far studiare i figli, ecc. Allo stesso tempo, pagavano tasse e contributi e, sotto alcuni aspetti, restituivano allo Stato quello che dallo Stato avevano ottenuto. Le grandi imprese, private o pubbliche investivano anche senza finalità di massimizzazione del profitto; cosa che oggi invece non avviene (e questo è il caso dell'Ilva di Taranto, che non ha effettuato gli investimenti ecologici che avrebbero evitato la chiusura di alcuni reparti). Oggi per limitare il disavanzo pubblico, e quindi per ridurre temporaneamente il debito, si taglia su alcune delle funzioni essenziali dello stato sociale: sull'istruzione, sulla sanità, sulle pensioni, e - sia pure indirettamente - sull'occupazione: se un'azienda è in difficoltà, che chiuda o licenzi alcune migliaia di dipendenti non fa alcuna differenza. E così il sistema economico si avvita in una recessione senza uscita: meno occupati e meno consumi - meno automobili per Marchionne, al quale è scoppiato in mano il bluff di Fabbrica Italia - meno entrate per il fisco e per l'Inps. Allo stesso tempo, cresce il settore privato. «Meno Stato e più mercato», come hanno sempre sostenuto i fautori di un'economia meno soggetta alla politica. Ma dove ci ha portato questa filosofia? Le Banche, ormai tutte privatizzate, si sono arroccate in un cartello praticamente inattaccabile. Intesa San Paolo, per non fare che un esempio, paga lo 0.1% di interessi ai depositanti, ma applica interessi che vanno dal 10 al 20% a chi richieda un fido; allo stesso tempo è l'intero sistema bancario che ha provocato la crisi attuale che chiede allo Stato (ed ottiene) consistenti sostegni per evitare il fallimento che avrebbe largamente meritato, ma che si deve evitare nell'interesse dei depositanti! La sanità pubblica, un tempo (con qualche eccezione) esempio di elevata qualità, diviene sempre più la sanità dei poveri; la scuola pubblica, che a suo tempo inviava a quella privata i ragazzi e le ragazze non recuperabili, perde colpi rispetto a quella privata, con un generale scadimento dei livelli culturali. La stessa università statale, dominata da ignoranza e nepotismi, viene gradualmente soppiantata dalle varie Luiss e Bocconi. Le strutture statali, che dovrebbero garantire la salvaguardia dell'interesse pubblico rispetto a quello privato, tendono sempre più a latitare; le Soprintendenze autorizzano i peggiori scempi: a Roma, il restauro del Colosseo, sponsorizzato da un privato (!) viene affidato a ditte specializzate non nel restauro, ma nell'edilizia! È improbabile che si possa rimediare in tempi brevi ai danni di vent'anni di berlusconismo; è grave però che si insista ciecamente sulla stessa strada, ignorando o fingendo di ignorare dove essa ci stia portando.

*ex Direttore Centrale Iri

 

Tutta la città e gli operai in difesa delle acciaierie - Riccardo Chiari

PIOMBINO - Alle otto del mattino erano in duemila al ponte delle acciaierie, pronti a partire dietro gli striscioni della Rsu Acciaierie Piombino e della Magona. Quando poi il corteo ha iniziato il suo cammino verso la centrale piazza Cappelletti, i manifestanti hanno visto che quasi l'intera città aveva chiuso i negozi, gli uffici e i laboratori. In visibile solidarietà con gli operai del secondo polo siderurgico italiano dopo Taranto. Ma anche perché, se chiudono le fabbriche, tutti sanno che non ci sono solo a rischio 5mila posti di lavoro, fra diretti e indotto, in un'area di 50mila abitanti. Sarebbe l'intero comprensorio della Val di Cornia a subire un pesantissimo choc depressivo della sua economia. Non certo compensabile dal pur fiorente turismo estivo. Così la manifestazione, riuscitissima, era stata battezzata dai sindacati confederali «Piombino non deve chiudere». Una missione possibile in un paese normale. Non in un paese dove, da anni, le politiche industriali sono materia per la trasmissione tv «Chi l'ha visto?». Il caso Piombino è diverso da quello di Taranto. Inquinamento e problemi ambientali, che pure esistono a causa degli scarsi investimenti fatti sugli impianti, non sarebbero un fattore decisivo. Invece si rischia di chiudere per le difficoltà finanziarie della Severstal-Lucchini, che possiede le storiche Acciaierie ma non trova partner per uscire dalle secche. E per la decisione dell'altra multinazionale Arcelor Mittal di vendere la sua Magona. Cosi alle Acciaierie si fermerà l'altoforno per tutto agosto, con i 2.200 addetti che andranno in cig o in ferie, aspettando che l'autunno porti qualche buona notizia sul fronte di nuovi soci industriali. Mentre a settembre Arcelor Mittal vuole tagliare del 50% le linee produttive, inviando in cig la metà dei suoi 550 addetti. Insomma migliaia di posti di lavoro a rischio, visto che intorno al polo siderurgico gravita un ramificato indotto fatto di manutenzioni, pulizie, commercio e trasporti, in particolare portuali. Per giustificare i passi indietro e la ricerca di nuovi partner (dall'indiana Tata all'italiana Arvedi), dalla Lucchini e dalla Magona si parla invariabilmente di scarsa competitività da costi e flessione della domanda internazionale. Ma di fronte al caso Taranto la confindustriale Federacciai ha subito chiesto che l'Ilva continui a produrre nonostante i veleni emessi dalla fabbrica («la vicenda ripropone brutalmente il tema della reale possibilità per interi settori dell'industria di base, non solo la siderurgia, di rimanere a operare sul suolo patrio»). Mentre su Piombino, secondo polo siderurgico del paese, la «sensibilità industriale» di Federacciai sembra pari allo zero. Dalla Cgil e dalla sinistra extraparlamentare di Sel e Rifondazione, fino all'Idv e ad alcuni esponenti del Pd (Stefano Fassina, Enrico Rossi), non si smette di denunciare la lunga inazione governativa: «Quel che serve davvero - esemplifica Rossi - è una seria politica industriale nazionale. Non solo per Piombino». Ma al tavolo che, prima o poi, il ministro Passera attiverà su Piombino come area di crisi, non comparirà mai l'ipotesi di un rinnovato e intelligente intervento pubblico in un settore, pur strategico, come quello dell'acciaio. Piuttosto quella, cara al sindaco piombinese Gianni Anselmi e a gran parte del Pd, di «nuovi paradigmi industriali»: «Lo Stato deve tornare a investire sul nostro territorio - chiede infatti il democrat Anselmi - ma in forme diverse dal passato». Cioè impegnando finanziamenti pubblici da indirizzare sulle bonifiche, sulle infrastrutture, sull'industria leggera e sul potenziamento del porto nel duplice versante commerciale e turistico. Non sull'industria dell'acciaio.

 

Mai così tanti disoccupati in Spagna ma Rajoy ha già tagliato i sussidi - G.Grosso

MADRID - Mai così male: secondo i dati diffusi ieri dall'Agenzia nazionale di statistica, la Spagna ha toccato nel trimestre in corso il record storico di disoccupazione. Quasi un quarto della popolazione attiva (il 24,6 %) non ha lavoro: 0,5 punti in più rispetto al precedente picco negativo, registrato nel 1994, e quasi un milione di posti di lavoro bruciati rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Tutto questo a pochi mesi dall'ultima riforma del lavoro targata Partido Popular, che, alla prova dei fatti, disattende in maniera eclatante l'obiettivo dichiarato di voler risollevare il mercato del lavoro. Il dato sulla disoccupazione, emerso dal trimestrale studio sulla popolazione attiva, fotografa impietosamente uno degli effetti più devastanti di questa crisi e risulta ancora più drammatico tra i giovani: il 52% degli under 30 non ha un impiego. A gettare un'ombra persino più cupa sulla situazione, vi è poi il fatto che la notizia giunge nel pieno della stagione estiva, durante la quale l'occupazione tende a crescere. Ciò significa che la crisi morde anche nel turismo, uno dei settori tradizionalmente forti dell'economia spagnola. Con beffardo tempismo, i dati sull'impiego vengono resi noti solo due settimane dopo l'approvazione dei tagli al sussidio di disoccupazione voluti dal governo conservatore di Mariano Rajoy. Dal 13 luglio scorso, infatti, l'assegno per chi è senza lavoro è stato ribassato del 10% a partire dal settimo mese di disoccupazione: una delle misure più odiose dell'ultimo dei pacchetti di provvedimenti varati nel nome dell'austerità, accolto dalle proteste dei sindacati e delle opposizioni. E proprio Comisiones Obreras, il maggiore sindacato del Paese definisce «pessimi» i numeri resi noti ieri, puntando il dito sulle responsabilità del governo: «Esigiamo un cambio radicale di questa politica. Bisogna adottare altre misure che non siano tagli ed evitare di gettare il peso della crisi sui lavoratori dipendenti e i disoccupati», ha dichiarato Paloma López, della segreteria del sindacato. Sulla stessa linea, le reazioni dell'opposizione, che insiste sull'inadeguatezza della riforma del lavoro del Partido Popular, facendo esplicito riferimento alla contestatissima misura che ha facilitato il licenziamento, rendendolo molto meno oneroso (sia dal punto di vista economico, che da quello burocratico) per i datori di lavoro: «È la conferma che questa riforma del lavoro che abbassa il costo del licenziamento, sommata alla recessione, non fa che creare più disoccupati con meno diritti», ha affermato Oscar López, dirigente del Psoe. Già al tempo dello studio della riforma, in realtà, il governo era stato messo in guardia - sia dagli esperti, che dalle stesse opposizioni - sulla pericolosità, in un periodo di stasi del mercato del lavoro, di un provvedimento che rendesse più facile il licenziamento; il premier Rajoy, però, fece orecchie da mercante, con i disastrosi risultati che da ieri sono sotto gli occhi di tutto il Paese. Uno scoglio, questo della disoccupazione, su cui l'esecutivo sa di giocarsi molto e sul quale sta cercando di non incagliarsi, ripetendo con paranoica e surreale insistenza (e risultati sempre meno convincenti) il mantra dell'eredità lasciata dal precedente governo del Psoe. Anche in Europa c'è preoccupazione per la situazione del Paese iberico, giacché l'elevato tasso di disoccupazione spagnolo inquina anche il dato continentale, salito all'11%, secondo gli ultimi dati diffusi da Eurostat. Dallo studio emerge che il Paese più in salute è la Germania; al capo opposto della classifica, ovviamente, c'è la Spagna.

 

La «troika» vuole di più, in arrivo altri tagli - Argiris Panagopoulos

ATENE - Non c'è tregua. Il premier greco Samaras, la Troika (Ue, Bce, Fmi) cercano di tranquillizzare i mercati, ma la Grecia, già al bordo del baratro, continua a sprofondare. Samaras si è incontrato ieri con i rappresentanti della Troika, che fanno pressioni per un altro giro di duri tagli nei prossimi giorni, tra i quali l'abolizione della tredicesima e quattordicesima e altri tagli nei salari e le pensioni. Ufficialmente però i rappresentanti della Troika non hanno parlato dei nuovi tagli per il 2012 -2013. Da parte sua il leader socialista Venizelos, durante il suo incontro con la stessa troika nella sede centrale del Pasok, ha chiesto di allungare l'applicazione del Memoramdum fino alla fine del 2016 per aiutare la Grecia di evitare una recessione prolungata. Una proposta che ha avuto la sua risposta negativa già dal Eurogruppo e l'Ecofin e sembra di essere fatta avanti solo per essere utilizzata come alibi per i nuovi tagli. Secondo la Reuters però la politica europea di Bruxelles starebbe preparando - entro l'agosto - un altro taglio dei debito greco tra i 70 e i 100 miliardi, per portarlo al quasi 100% del Pib, considerato più sostenibile, visto che l'obiettivo per la diminuzione al 120% fino al 2020 è quasi certo che non sarà raggiunto. Il problema però è che la Bce e le banche centrali nazionali dovranno registrare perdite e qualcuna sarà costretta a ricapitalizzare. Sempre le stesse fonti della Reuters, il Fmi sarebbe favorevole al nuovo taglio del debito greco che hanno le banche centrali europee - che ammonta tra i 220-230 miliardi. La situazione in Spagna e in Italia non sembra di allarmare più di tanto i greci, che credono che la cosa più importante sia fermare la macelleria sociale in atto in Europa e non cadere nella trappola dei mercati per accettare i tagli che propongono i governi. Perfino il moderato presidente dell'unico sindacato confederale del settore privato Gsee, Panagopoulos ha usato un linguaggio molto duro dopo il suo incontro di ieri con i rappresentanti della Troika. «Siamo d'accordo che siamo in disaccordo su tutto», ha detto Panagopoulos, denunciando che i rappresentanti della Troika «si sono presentati come dottori per offrirci la medicina... ma si è dimostrato che erano ciarlatani e apprendisti stregoni che medicavano con false tisane». Girando le minacce della Troika per la valutazione degli impiegati pubblici, Panagopoulos ha detto che «se i rappresentanti della troika erano impiegati pubblici dovevano essere licenziati». Per Panagopoulos il sindacato greco potrà aprire trattative solo se si ripristina il salario minimo precedente ai tagli e si legalizza di nuovo la contrattazione nazionale collettiva, messa al bando dalla Troika e dai governi di Papadimos e Samaras. Per il leader di Gsee la recessione in Grecia dovrà superare il 5,80% e la disoccupazione, qualora venissero applicate le misure dei creditori, arriverà al 28% nel 2012. Il leader di Syriza, Tsipras attacca duramente la politica della Troika, utilizzando gli stessi toniche aveva usato contro Barroso, tornato in Grecia giovedì scorso dopo tre anni di assenza. Per Tsipras Troika e Barroso «continuano a ricattare il paese per applicare politiche che portano solo alla distruzione totale dell'economia e della società». Tsipras ha denunciato il populismo di Samaras per «nuovi tagli dallo stipendio del primo ministro e dei ministri fino all'ultimo impiegato statale». Il leader di Syriza, mentre veniva annunciata la divisione degli asset tossici della Banca dell'Agricoltura per procedere ad una sua rapida privatizzazione, promette battaglia proprio contro il piano delle privatizzazioni del governo. Le operazioni redditizie della Banca dell'Agricoltura, con le bolle del Fondo europeo e della Banca Centrale Greca, passeranno alla Banca Pireos del famigerato banchiere Salas, uno che sa utilizzare le offshore per prestiti e aumenti di capitale alla sua banca sull'orlo del fallimento. Il riassetto del sistema bancario greco ha cominciato ieri con il peggiore dei modi. Salas però non ha avuto scrupoli nel farsi avanti in prima persona per attaccare le sinistre e specialmente Syriza durante gli ultimi mesi della crisi politica e la vicinanza delle urne. Ieri sera sembra che per Salas i conti siano tornati nel «paese più corrotto del mondo», come giudicava la Grecia il suo ex primo ministro Papandreou. Ma che ne pensano i greci della politica del governo? Ad appena due settimane dalla formazione del nuovo governo Saramas, gli ellenici avrebbero già voltato le spalle all'esecutivo di Saramas. Un sondaggio della Vprc rivela infatti che il 61% dei greci crede che il governo non ha mantenuto le promesse e solo il 23% crede che sia stato coerente con quanto annunciato in campagna elettorale. Ancora meno, il 16,50%, ha una opinione positiva per il governo tripartito. Quattro greci su dieci vedono il paese già fuori dall'eurozona. Il Syriza, stando sempre allo stesso sondaggio, sarebbe l'unico partito che avanza, con poco meno del 30%, superando di poco la Nuova Democrazia, mentre Koubelis della moderata e governativa Sinistra Democratica sembra il leader più gettonato, con il 52% delle preferenze, seguito da Samaras con il 42%, mentre per Venizelos il 62% ha una valutazione negativa e solo il 31% positiva.

 

Tutti con Draghi e la borsa vola - Anna Maria Merlo

PARIGI - Mario Draghi ha parlato troppo e troppo presto? Dopo l'euforia di giovedì, che aveva fatto seguito alla frase «faremo tutto, credetemi, sarà sufficiente», ieri, c'è stata un'altalena di Borse e spread, ma alla fine i mercati si sono placati perché è scesa in campo la politica, che il presidente della Bce aveva sollecitato con forza a prendere le armi per la «grande battaglia» per salvare l'euro, che la Banca centrale non può combattere da sola. I malumori della Bundesbank, che non vuole saperne dell'acquisto di obbligazioni pubbliche da parte della Bce, sono stati messi a tacere con un comunicato del ministro delle finanze tedesche, Wolfgang Schäuble, che afferma di aver «accolto con favore» le dichiarazioni di Draghi. François Hollande e Angela Merkel si sono sentiti al telefono, un colloquio che si è concluso con un comunicato dove si dichiarano «determinati a fare tutto per proteggere la zona euro» e invitano gli stati membri e le istituzioni europee ad «assumersi ognuno le proprie responsabilità nei rispettivi campi». Cioè la Bce fa la sua parte e adesso tocca ai governi, che finora hanno sempre agito troppo poco e troppo tardi. C'è la «necessità di un'applicazione rapida delle conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno», ripetono Hollande e Merkel. Le mosse diplomatiche di queste ore contemplano anche un incontro, ieri a Londra, tra Giorgio Napolitano e Mario Draghi. Martedì Mario Monti sarà a Parigi per un pranzo all'Eliseo con François Hollande. Monti poi prenderà il bastone del pellegrino per tentare di convincere il falco dei falchi: la piccola ma determinata Finlandia, capofila dei virtuosi intransigenti. Il primo ministro italiano sarà mercoledì e giovedì a Helsinki su invito del suo collega Jyrki Katainen. Dietro i movimenti diplomatici, si precisa l'offensiva finanziaria per frenare la speculazione. Si tratta di una tabella di marcia molto impegnativa, rivelata a grandi linee da Le Monde. Le mosse dovrebbero essere: 1) il Fesf, poi il Mes (quando entrerà in vigore, al meglio a metà settembre, se la Corte di Karlsruhe lo approva) potrebbe intervenire sul mercato primario, comprando direttamente obbligazioni dagli stati maledetti. In un primo momento potrebbe riguardare solo la Spagna (e non l'Italia). 2) rilancio degli acquisti di obbligazioni sul mercato secondario da parte della Bce, sospese da metà febbraio scorso. Dovrebbe riguardare gli stati pronti ad avviare un'azione con fondi di soccorso. 3) il Mes dovrebbe ottenere la licenza bancaria, cioè di fatto la possibilità di finanziarsi senza limiti presso la Bce. Se ne saprà di più al consiglio del direttivo della Bce del 2 agosto, quando potranno venire tirate le fila del lavoro diplomatico di questi giorni. A parte il caso Grecia, che resta a sé, al centro delle preoccupazioni dell'estate c'è la Spagna. Per far funzionare la tabella di marcia di Draghi, Madrid dovrebbe chiedere una «sorveglianza». Ma il governo Rajoy si sta impuntando e continua a dire che la Spagna non ha bisogno di un salvataggio globale, «un piano completo di salvataggio non è un'opzione», ha detto il ministro delle finanze Luis de Guindos. Dietro le quinte, però, ci sarebbe in corso una trattativa per un aiuto di 300 miliardi alla Spagna. A Madrid, a differenza della Grecia che non rispetta il Memorandum, potrebbe venir concessa una sorveglianza "alleggerita" (come già gli è stato concesso, un anno di più, fino al 2014, per rientrare nell'equilibrio di bilancio). La gestione del caso Spagna dovrebbe venire isolata da quella del caso Grecia. Per quest'ultima, si spera di poter far passare l'estate senza incidenti gravi: c'è la scadenza del rimborso di 4 miliardi il 20 agosto, e Atene potrebbe essere autorizzata a tornare sui mercati per dei prestiti a brevissima scadenza per avere la liquidità necessaria. Poi si vedrà a settembre, quando ci sarà il rapporto della troika, che è sul posto da martedì. Il presidente della Commissione José Manuel Barroso è stato ad Atene giovedì, per cercare di convincere il governo Samaras a dare manifestazioni di buona volontà. Ma, nei fatti, già si parla di nuova ristrutturazione del debito greco. Ma se ne parlerà in autunno, incrociando le dita per passare l'estate.

 

Presidenziali alla mexicana - Gianni Proiettis

A quasi un mese dalle elezioni generali del 1 luglio, anziché calare, la marea delle proteste popolari continua a crescere. Giovedì migliaia di persone hanno circondato la sede di Televisa, la più grande tv (privata) del paese: denunciano la corruzione e la disinformazione sistematica - negli slogan dicevano «dite la verità». Dall'inizio del mese non c'è stato un fine settimana senza manifestazioni che riempissero le strade della capitale e delle principali città del paese, rivelando l'indignazione di gran parte della società civile di fronte a un'elezione chiaramente adulterata. Il Movimiento Progresista, la coalizione dei tre partiti di sinistra che sostiene la candidatura di Andrés Manuel López Obrador (di solito chiamato con il nomignolo Amlo), ha presentato centinaia di ricorsi, 364 in totale, sostenuti da migliaia di prove e documenti, per chiedere l'annullamento delle elezioni presidenziali. non sono oggetto di contestazione invece quelle per il Senato, la Camera, i governatori e gli enti locali. Ma è nelle presidenziali che, secondo i ricorsi presentati al Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación (Trife), sono state commesse gravi irregolarità da parte della coalizione Pri-Partido Verde e del suo candidato Enrique Peña Nieto, che avrebbe vinto, secondo i risultati ufficiali, con il 38,2% dei voti contro il 31,6% di Amlo. Le denunce non si riferiscono a brogli nelle urne, come nel 2006, ma a irregolarità precedenti: come ad esempio l'uso nella campagna elettorale di finanziamenti occulti superiori più di dieci volte al tetto consentito, che era di 336 milioni di pesos (20 milioni di euro); l'acquisto di milioni di voti con regali in generi alimentari, materiali da costruzione, denaro; il ricorso a promesse o minacce sugli strati più vulnerabili della popolazione; la divulgazione di sondaggi d'opinione falsi per generare una sensazione di invincibilità del loro candidato; la contrattazione di una campagna televisiva pluriennale - e già per questo illegale - per costruire l'immagine di un futuro presidente, campagna basata sull'invasione mediatica, la denigrazione dell'avversario, l'informazione viziata. La questione più spinosa. Ma in quella che è già passata dalle cronache alla storia come la «elección comprada», la questione più spinosa è la provenienza degli enormi capitali impiegati nella campagna, sospettati di uscire dalle arche degli stati governati dal Pri - 20 su 32 - o, peggio, di essere frutto di riciclaggio di denaro sporco (cosa che fa assonanza con narcotraffico). In ogni caso, crescono di giorno in giorno le prove di una rete di finanziamento per operazioni elettorali fraudolente in favore di Peña Nieto. Ma il Pri, il Partido Revolucionario Institucional che anela riprendere al Pan la presidenza perduta nel 2000 - senza in realtà aver mai smesso di cogovernare in questi dodici anni - reagisce a queste accuse, corroborate da prove irrefutabili, con un contrattacco isterico e scomposto e accusa Amlo e la coalizione progressista di finanziamenti illeciti. E' il vecchio trucco del ladro che corre gridando «al ladro!», ma che con l'aria che tira, in pieno risveglio della società civile, difficilmente funzionerà. Ha fatto troppo scalpore l'assalto dei supermercati della catena Soriana, il giorno dopo le elezioni, da parte di folle che facevano acquisti da panico con schede magnetiche di credito regalate dal Pri prima delle votazioni. E sono state raccolte innumerevoli carte di credito dell'istituzione finanziaria Monex, contenenti somme complessivamente miliardarie, distribuite ad ambigui «operatori elettorali». Sono i metodi più moderni per comprare un'elezione, ma lasciano più tracce delle vecchie valigette piene di banconote. La legislazione elettorale messicana è una casbah di vicoli pittoreschi che non portano da nessuna parte. Basta considerare che le indagini aperte sui finanziamenti illegali potrebbero concludersi nel 2013 - e finire con una semplice multa, per quanto alta, per il partito infrattore - mentre lo stesso tribunale elettorale, composto da sette giudici, deve dichiarare il vincitore delle elezioni entro il 6 settembre, per notare l'assurdità della regolamentazione. Come se non bastasse, per la stessa legislazione, l'uso di finanziamenti occulti per la campagna non è ragione sufficiente per annullare l'elezione. E' per questo che la coalizione progressista, per invalidare le elezioni presidenziali, ha scelto di ricorrere direttamente all'articolo 41 della Costituzione, che stabilisce l'equità della competizione e la libertà del suffragio come requisiti indispensabili per la validità di un'elezione. Quante speranze ci sono che il Trife dichiari non valide le elezioni presidenziali e organizzi nuove elezioni entro 18 mesi, con un presidente interino nominato dal Parlamento? In un sondaggio fra i lettori del quotidiano La Jornada, in maggioranza di sinistra, solo il 12 per cento dice di sperarci. La reputazione del Trife, il supremo tribunale elettorale, così come quella dell'Ife, l'Instituto Federal Electoral, non è delle migliori. Ad alimentare le (deboli) speranze di un annullamento c'è il precedente delle recenti elezioni comunali di Morelia, in cui la vittoria del Pri è stata dichiarata non valida per non aver rispettato i tempi consentiti di propaganda elettorale, un'infrazione tutto sommato minore. A raffreddare le speranze, sul fronte opposto, ci sono le dichiarazioni di uno dei giudici del tribunale che, dopo le ultime dimostrazioni di domenica in una trentina di città contro l'imposizione di Peña Nieto alla presidenza, ha affermato che le manifestazioni popolari non influenzeranno minimamente la decisione della corte, che si basa solo sul rispetto della Costituzione. Trascurando il dettaglio che la sovranità risiede nel popolo. Un patto di successione e impunità. Il comportamento del Pan, il Partido de Acción Nacional dell'estrema destra cattolica che si appresta a lasciare il potere, è stato definito ambiguo e perfino «schizofrenico» rispetto alle elezioni. Il presidente uscente Felipe Calderón, che rimane in carica fino al 1 dicembre, ha ricevuto il candidato del Pri nella residenza presidenziale di Los Pinos, creando l'impressione - o quanto meno l'illusione ottica - di un prossimo passaggio di poteri. D'altra parte, una trentina di paesi, fra cui l'Italia, hanno riconosciuto Peña Nieto fin dal 2 luglio, intervenendo così indebitamente in un processo che è ancora sub judice. In ogni caso la segretaria generale del Pan, Cecilia Romero, afferma con grande sicurezza che Peña Nieto assumerà la presidenza in dicembre - e Josefina Vázquez Mota, la candidata del Pan, si è dichiarata sconfitta la sera stessa delle elezioni, quando lo spoglio delle schede era appena iniziato. Mentre il presidente del partito, Gustavo Madero, condivide con la coalizione progressista le accuse al Pri di aver comprato le elezioni, ma non vuole richiederne l'annullamento. Un po' come dire che si può protestare ma il passaggio di poteri è già deciso e non si tocca. La marea della protesta ha trovato anche un altro alveo, più visibile e rumoroso di quello istituzionale. Da quando, a maggio, è sorto il movimento «YoSoy132», nato in un'università privata della capitale come risposta a una sbruffonata di cattivo gusto di Peña Nieto, lo schema della successione presidenziale, accuratamente preparato dall'oligarchia e da Televisa, si è inceppato, mettendo il Pri di fronte a un'emergenza inattesa. Gli studenti si sono infuriati quando Peña Nieto, all'università, ha rivendicato l'episodio repressivo di San Salvador Atenco, quando lui stesso, appena eletto governatore dello stato di Messico nel 2006, fece massacrare dalla polizia un'intera comunità che resisteva alla costruzione di un aeroporto sulle proprie terre - due morti, centinaia di feriti e arrestati, decine di donne violentate: e così ha riportato a galla il vero volto del Pri, che si pubblicizza come «nuovo» ma è lo stesso partito-stato che ha alle spalle 70 anni di dominio fondati sul binomio plata o plomo, soldi o piombo. Gli sviluppi successivi hanno dimostrato che imporre un presidente non è proprio come vendere un dentifricio o un elettrodomestico.

 

«Prima guardavamo la televisione, adesso è la tv che guarda noi» - L.H.Navarro

Il movimento #YoSoy132 sta innovando il modo di fare politica pratica in Messico. Per cominciare, lo ha fatto incidendo nello spazio pubblico senza essere un partito politico. Ha mostrato che è sbagliato identificare politica e partito. Ha insegnato che si può trasformare la realtà, che si può marcare distanza efficacemente dallo Stato in modo apartitico.

Il movimento si è dato le sue regole, le sue forme di governo, i suoi meccanismi di rappresentazione, le sue richieste, il suo piano d'azione. Strada facendo ha dimostrato una capacità di articolazione fuori del comune. Nato dalla libera associazione creativa e disinteressata dei giovani che lo formano, è autonomo e indipendente da qualunque gruppo o partito politico. Il suo apartitismo non significa che sia contro i partiti: semplicemente non vuole essere chiuso nella stessa gabbia. Per esempio, gli studenti e i portavoce di #YoSoy132 hanno considerato indovinate e positive le iniziative di Andrés Manuel López Obrador nel suo piano in difesa della democrazia, e però hanno aggiunto: «Siamo totalmente indipendenti dalle sue iniziative, ci manteniamo apartitici, pacifici e neutrali». Il movimento è sorto come un fatto, come un avvenimento politico che ha modificato il corso della campagna elettorale e della vita politica del paese. Nessuno lo ha previsto, né ideato o inventato, né ha realizzato un lavoro di organizzazione per fondarlo. Semplicemente, è successo. Però il movimento continua a succedere. Le sue iniziative non smettono. Le sue azioni collettive continuano a provocare rotture e portano la politica nazionale su una rotta inedita. Irrompono nel corso degli avvenimenti politici e li deragliano. Cambiano, senza permesso, il copione della tragicommedia politica nazionale e obbligano a riscriverlo. Come se la stanchezza e il riflusso non esistessero, i suoi appelli a scendere nelle strade per frenare l'imposizione di Enrique Peña Nieto sono seguiti, una settimana dopo l'altra, da decine di migliaia di cittadini. E, sebbene la forza di #YoSoy132 non si debba misurare da quello che ne dicono i media, ognuna delle sue proposte è ripetuta e falsata continuamente dagli intellettuali mediatici. Per qualcosa sarà. I giovani del movimento stanno creando collettivamente il loro destino. Lo stanno facendo con immaginazione e inventiva, evitando di ripetere il passato. Niente è scritto in anticipo nel loro futuro. Nessuno sa realmente che cosa succederà, sebbene chi partecipa sente che le sue azioni stanno provocando la nascita di una realtà differente. Detto in altro modo: l'incertezza è il nome del gioco. La reazione del mondo politico istituzionale di fronte alla protesta è stata di rabbia e sconcerto. #YoSoy132 è un nuovo attore nella lotta per l'emancipazione. Su questa strada, il movimento rivendica, nei fatti, principi che non sono mai diventati obsoleti. E' per questo che ha stabilito una politica di alleanze che lo avvicina ai campesinos di Atenco, ai comuneros di Cherán, al Congreso Nacional Indígena, ai maestri democratici della Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación o agli elettricisti del Sindicato Mexicano de Electricistas. Queste relazioni hanno provocato invettive isteriche da parte di chi, anziché apprendere dal movimento, pretende di dargli lezioni.#YoSoy132 non ha rivendicazioni particolari. Porta avanti esigenze che riguardano l'insieme della società, che coinvolgono tutti gli interessati a un cambiamento di rotta del paese. L'esigenza di democratizzare i mezzi di comunicazione elettronici e di frenare l'imposizione di Enrique Peña Nieto sono richieste condivise da ampi strati della popolazione. Il movimento ha fissato un proprio calendario, diverso dai tempi del potere. Per esempio, ha programmato un accerchiamento pacifico di Televisa per lo stesso giorno in cui cominciano i giochi olimpici, in cui sono in gioco poderosi interessi commerciali. Con la sua azione, ha obbligato i media elettronici a prestargli attenzione. Nell'analizzare la nuova primavera dei popoli, il filosofo francese Alain Badiou cita il commento di un ribelle egiziano che può esemplificare con precisione quello che succede in Messico in questo campo: «Prima io guardavo la televisione, adesso è la televisione che mi guarda». Nella protesta anti-Peña Nieto di domenica scorsa, come in occasioni precedenti, si respirava l'assenza di paura. Malgrado le campagne di demonizzazione, #YoSoy132 è riuscito a eliminare dalle sue fila il timore che paralizza. Domenica scorsa una moltitudine è sfilata in corteo, con umore festivo e indignato al tempo stesso, disposta a cambiare il paese. La realtà sta nelle strade, avvertiva un cartello nella manifestazione, affermando, senza dirlo, che non sta sugli schermi della tv né sulle pagine dei giornali del potere. Questa realtà, quella delle strade, assicura oggi che un altro paese è possibile.

 

La Stampa - 28.7.12

 

"L'euro rischia la distruzione. E tra i tedeschi l'umore peggiora" - Tonia Mastrobuoni

Ha firmato con i più importanti economisti europei riuniti sotto la sigla "Inet" un appello che parla del rischio elevatissimo di una fine dell'euro. E in quest'intervista Lars Feld, che figura nel più importante consiglio di economisti tedeschi, quello dei cosiddetti "cinque saggi" di Angela Merkel, spiega quali sono i suoi timori, anche riguardo agli scenari e agli umori che circolano nel suo paese. Professore, l'impressione è che in Germania si stia discutendo con una certa leggerezza delle conseguenze della fine dell'euro. «L'uscita della Germania dall'euro o un crollo della moneta unica, sarebbero molto costosi. Attualmente le imprese, le banche e lo Stato sono esposte verso il resto dell'eurozona per 2.800 miliardi di euro. A questi vanno aggiunti i titoli a rischio che gravano attualmente sul bilancio della Bundesbank. Totale, 3.300-3.400 miliardi. Nel caso di un'uscita dall'euro finirebbero in una sorta di limbo. Non verrebbero cancellati ma bisognerebbe chiarire come convertirli. Per l'economia tedesca significherebbe che buona parte dei crediti non riuscirebbero a rientrare in tempo nel paese per scongiurare fallimenti a catena di imprese medie. Con la conseguenza di una contrazione massiccia dell'economia tedesca e un aumento dei tassi. È il messaggio di Moody's». Rischierebbe il default, nel caso? «No, ma ad una recessione peggiore di quella attraversata dopo il crollo di Lehman Brothers. La situazione finanziaria tedesca rimarrebbe sotto controllo». Certo, con il nuovo marco la Germania potrebbe comprarsi mezza Europa... «Non è così facile da dirsi. Certo, il potere d'acquisto sarebbe maggiore, ma d'altra parte ci sarebbero grandi svantaggi per l'export. Faccio un esempio pratico: anche la Svizzera potrebbe comprarsi molto ora in Europa, in virtù del franco forte; invece risente soprattutto degli svantaggi dell'apprezzamento della sua valuta». Pensa che l'appoggio all'euro del governo sia ancora pieno? «Mi sento di parlare a nome di Angela Merkel ma anche del governo quando dico che la Germania crede nell'euro e che farà tutto ciò che può, per preservare l'integrità dell'eurozona». Ma forse nel suo paese molti pensano che sia meglio uno shock adesso che l'agonia dei salvataggi continui... «È vero, alcuni pensano che sia meglio una fine terrorizzante che un terrore senza fine. E si percepisce che tra i tedeschi la disponibilità a farsi carico dei salvataggi sta diminuendo. Tuttavia il senso dell'appartenenza all'Europa resta forte. Anche se il tempo vola. Perciò è indispensabile dare attuazione a soluzioni più ampie. Sono seriamente preoccupato per la sopravvivenza dell'euro». Voi di Inet proponete una temporanea mutualizzazione dei debiti per i paesi virtuosi. «Sì, siamo convinti che il solo fatto di annunciarlo, magari al prossimo vertice europeo, avrebbe un effetto benefico sugli spread. Voglio ricordare che non è un processo breve: bisogna cambiare i Trattati ed è una misura legata a una serie di garanzie non facili da digerire per qualcuno, come le riserve auree». Intanto però la Spagna si dirige a tutta velocità verso il default. «Se ci saranno ancora delle turbolenze, la Bce potrà intervenire comprando titoli di Stato e difendere questa scelta con l'esigenza di tutelare il corretto funzionamento della politica monetaria. Certo, non può annunciare al mercato che garantirà migliori condizioni di finanziamento: sarebbe una monetizzazione delle finanze pubbliche attraverso la Bce». E l'Italia può essere liberata dal contagio della crisi spagnola? «Sì, per il semplice motivo che ha fondamentali molto diversi. L'Italia è un paese molto ricco. Non deve certo nascondersi, nel confronto con la Germania. Non ha assolutamente un problema di solvibilità. Inoltre sta risanando talmente bene i bilanci che ha un avanzo primario migliore di quello tedesco. Lo sforzo è notevole. Ma l'Italia ha un problema strutturale di bassa crescita che deriva da un mercato del lavoro molto rigido e incrostato. So che non è un problema semplice da risolvere. Ma le misure adottate sinora per la riforma del lavoro sono insufficienti. Se al governo Monti riuscirà di rendere il mercato molto più flessibile, l'Italia avrà fatto un gigantesco passo in avanti».

 

Aumenta l'età media della pensione. L'Italia si avvicina alla Germania

ROMA - Nei primi sei mesi del 2012 l'età media per l'accesso alla pensione nel privato è stata di 61,3 anni, un anno in più rispetto ai 60,4 anni registrati nel 2011. È quanto emerge da tabelle Inps che l'Ansa è in grado di anticipare. L'età media è superiore di due anni rispetto alla Francia (59,3 anni) e vicina a quella tedesca (61,7 anni). Il dato sull'aumento dell'età media di pensionamento risente soprattutto dell'effetto combinato dello scalino per la pensione di anzianità e dell'introduzione della finestra mobile mentre non tiene ancora conto della riforma Monti-Fornero che dispiegherà i suoi effetti a partire dal 2013. Per chi è uscito dal lavoro grazie alla pensione di anzianità l'età media di pensionamento è passata dai 58,8 del 2011 a 59,8 anni nei primi sei mesi del 2012 mentre per la pensione di vecchiaia si è passati da 62,9 anni a 63,3. L'incremento più contenuto per l'anzianità si è avuto per l'anzianità dei lavoratori dipendenti (da 58,7 a 59,1 anni. Nella vecchiaia si è avuta una vera e propria impennata dell'età media per i lavoratori autonomi (da 63,3 a 68,4 anni) a fronte di una caduta di quasi il 90% del numero degli assegni passati dai 32.939 dei primi sei mesi 2011 a 3.621 nei primi sei mesi del 2012. Se si guarda al complesso delle pensioni Inps (vecchiaia e anzianità) aumenta il divario tra l'età media alla decorrenza tra i lavoratori dipendenti e autonomi e raggiunge i due anni. Per i dipendenti si è passati da 59,9 anni nel 2011 a 60,9 anni nel primo semestre 2012 mentre per gli autonomi si è passati da 61,2 a 62,9 anni. Il dato sull'aumento dell'età media di pensionamento risente soprattutto dell'effetto combinato dello scalino per la pensione di anzianità e dell'introduzione della finestra mobile mentre non tiene ancora conto della riforma Monti-Fornero che dispiegherà i suoi effetti a partire dal 2013. Per chi è uscito dal lavoro grazie alla pensione di anzianità l'età media di pensionamento è passata dai 58,8 del 2011 a 59,8 anni nei primi sei mesi del 2012 mentre per la pensione di vecchiaia si è passati da 62,9 anni a 63,3. L'incremento più contenuto per l'anzianità si è avuto per l'anzianità dei lavoratori dipendenti (da 58,7 a 59,1 anni. Nella vecchiaia si è avuta una vera e propria impennata dell'età media per i lavoratori autonomi (da 63,3 a 68,4 anni) a fronte di una caduta di quasi il 90% del numero degli assegni passati dai 32.939 dei primi sei mesi 2011 a 3.621 nei primi sei mesi del 2012. Se si guarda al complesso delle pensioni Inps (vecchiaia e anzianità) aumenta il divario tra l'età media alla decorrenza tra i lavoratori dipendenti e autonomi e raggiunge i due anni. Per i dipendenti si è passati da 59,9 anni nel 2011 a 60,9 anni nel primo semestre 2012 mentre per gli autonomi si è passati da 61,2 a 62,9 anni. Nuovi assegni in calo del 47%. Crollo delle nuove pensioni nei primi sei mesi del 2012: gli assegni liquidati dall'Inps - secondo quanto risulta all'Ansa - sono stati 84.537 con un calo del 46,99% rispetto allo stesso periodo 2011(erano 159.485). Il dato è l'effetto della finestra mobile e dello scalino scattati nel 2011 mentre la riforma Fornero ha impatto dal 2013.

 

Angela e la Germania. La prova più difficile - Gian Enrico Rusconi

La dichiarazione congiunta Merkel-Hollande che parla della «necessità di applicare velocemente le decisioni prese dal Consiglio europeo del 28 e 29 giugno» è impegnativa. Di fatto è un'approvazione della linea strategica di Draghi, secondo cui la Bce sosterrà la moneta europea anche con l'acquisto di titoli sovrani dei paesi in difficoltà. Bene. Adesso - dopo le parole - aspettiamo i fatti. Gli avversari più tenaci di questa linea si trovano in Germania. Non nel governo, ma nel cuore della classe dirigente tedesca. Ieri la Bundesbank aveva criticato apertamente e fortemente la posizione della Bce, trovando largo consenso sulla stampa. Unica voce autorevole discorde, di sostegno a Draghi, è stata quella del ministro dell'Economia Wolfgang Schäuble. In un secondo momento è stata la volta della cancelliera. Che cosa sta accadendo in Germania? Stanno (finalmente) venendo alla luce le tensioni da tempo latenti all'interno della classe dirigente tedesca nel suo insieme? Diciamo subito che non si tratta semplicisticamente di falchi e colombe. Ma neppure - contrariamente alle apparenze - di contrasti tra istituti che hanno competenze e responsabilità differenti: tecnico-finanziarie da una parte e strettamente politiche dall'altra. Al di là delle sue competenze formali, la Bundesbank è un istituto di primaria importanza politica. Non c' è bisogno di esser esperti di economia o di sistema bancario: basta leggere i commenti di approvazione alla nota della Bundesbank che sono apparsi sui grandi giornali. Accanto alle considerazioni tecnico-economiche viene fuori la vera ragione del no alla Bce. L'iniziativa di Draghi - si dice - illude gli Stati debitori che la loro crisi venga risolta «dall'Europa», senza che si diano da fare a mettere in ordine i propri bilanci e rendere competitive le economie delle nazioni. «La Bce rischia i soldi dei contribuenti senza essere legittimata democraticamente». Quello di Draghi è «un cavallo di Troia, che non difende più i principi, ma un'Europa in cui è il Sud a comandare. La conseguenza sarà una redistribuzione a spese del Nord senza risolvere alcun problema». A questo punto mi chiedo quando l'aggettivo complimentoso di Draghi «il tedesco» sarà sostituito da quello di Draghi «l'italiano». E' triste scrivere queste cose, se non rappresentassero il bordone populista che sta sullo sfondo di tutte le considerazioni del discorso pubblico «politicamente corretto». Involontariamente il governo di Berlino e la stessa cancelliera Merkel ha sostenuto la sua strategia di rigore di questi anni con ampi difetti di incomprensione di altre situazioni nazionali certamente meno virtuose, ma non per questo immeritevoli di sostegno. Siamo ora ad una svolta? E' probabile. O quanto meno me lo auguro. Non mi sorprende che la grande tattica Angela Merkel abbia finalmente capito che la sua posizione (e quella della Germania) in Europa è diventata insostenibile. E alla lunga dannosa per la stessa economia tedesca. Ma il lavoro di convincimento sull'opinione pubblica sarà molto impegnativo. Dovrà dare fondo a tutta la sua popolarità. Paradossalmente la cancelliera avrà vita meno difficile in Parlamento, dove la socialdemocrazia potrebbe darle una mano per tenere a bada i democristiani e i liberali ultrarigoristi. Questi con il loro atteggiamento non solo hanno isolato la Germania dall'Europa, ma non si rendono conto che a medio termine indeboliscono la stessa economia tedesca. L'economicismo è sempre ottuso. Ma Angela Merkel potrebbe essere di fronte ad una prova molto difficile. Personalmente sono convinto che molti tedeschi in posizione di responsabilità economica e finanziaria (forse nella stessa Bundesbank), sono pronti a lasciar fallire l'euro e a costituire una comunità economica del Nord. Naturalmente non faranno nessuna azione «sovversiva». Semplicemente lasceranno andare le cose come vanno ora. Ci penseranno i mercati. L'Europa del Sud sarà alla deriva tra inevitabile rigore e rivolte sociali. E' una prospettiva terribile che fa carta straccia di tutta la retorica europeista di cui si sono nutriti molti tedeschi sino ad un paio d'anni fa. Spero naturalmente che questo sia solo un incubo. Ma ancora una volta dobbiamo guardare a Berlino per una alternativa, anche se - stavolta - come italiani abbiamo le carte in regola.

 

Aleppo circondata dall'esercito. "E' iniziata la controffensiva"

ROMA - L'esercito siriano ha avviato la controffensiva per riconquistare i settori ribelli ad Aleppo, seconda città della Siria e snodo cruciale del conflitto fra lealisti e opposizione. Lo ha riferito l'Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdh). Le forze armate siriane che si ammassano da giorni nella periferia cittadina "si dirigono ora verso il quartiere di Salaheddine, dove si trova la maggior parte di ribelli, e i combattimenti più violenti dall'avvio della rivolta sono in corso in diversi quartieri" ha spiegato alla France Presse il presidente dell'Osdh, Rami Abdel Rahmane. "Possiamo dire che l'assalto è cominciato" ha aggiunto. I Comitati locali di coordinamento dell'opposizione hanno riferito di combattimenti alla periferia di Salaheddine, sobborgo situato nel sudovest di Aleppo. Anche la Commissione Generale per la rivoluzione siriana (Cgrs), un'altra sigla dei ribelli, ha dato notizia di rinforzi militari a Salaheddine "in mezzo alle potenti raffiche dell'artiglieria pesante" e agli scontri fra lealisti e ribelli. L'assalto avviene a più di una settimana dall'apertura di questo nuovo fronte, lo scorso 20 luglio. Da giorni l'esercito, appoggiato da elicotteri e carri armati, si era addensato intorno ai quartieri roccaforte dei ribelli dove si sono concentrate le forze di regime con l'obiettivo di riconquistare la città che si trova 355 chilometri a nord di Damasco. Stando alle informazioni raccolte dai cronisti sul posto, da un paio di giorni ormai l'opposizione non lanciava attacchi significativi proprio con l'intenzione di risparmiare le munizioni dei razzi anti-carro Rpg. "I civili hanno lasciato il quartiere" ha assicurato uno dei combattenti raggiunto telefonicamente dalla France Presse. Gli Stati Uniti, che hanno ammesso di temere un massacro, hanno condannato in anticipo "l'aggressione odiosa e riprovevole delle forze del presidente Bashar al-Assad contro la popolazione civile". Londra ha, dal canto suo, messo in guardia la comunità internazionale sul rischio di un "disastro umanitario" mentre il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha insistito sulla necessità di "aumentare al massimo la pressione da parte di tutti su Assad anche per scongiurare il rischio di un nuovo massacro". Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha invitato "il governo siriano a interrompere l'offensiva". In tutto il paese, la repressione e i combattimenti hanno provocato soltanto ieri 120 morti. Dall'avvio della rivolta nel marzo 2011, secondo l'Osdh, sarebbero morte oltre 19mila persone.

 

l'Unità - 28.7.12

 

Il populismo double face - Michele Prospero

L'ennesima sparata di Antonio Di Pietro, che colpisce alla cieca nell'intento di mettersi alla testa di un listone dei «non allineati», ha fatto già cilecca. Un alleato di peso reclutato per dare corpo ai suoi desideri espansionistici, Nichi Vendola, l'ha subito liquidato. Ha subito troncato con sprezzo il sogno di grandezza dell'improbabile «Tito molisano». L'ex Pm è ormai isolato e provoca tensioni persino tra le le sue sbigottite truppe. Può andare dove vuole con i suoi mezzi strategici un po' ammaccati, tanto il destino del suo antipartito personale sembra ormai bello e segnato. Persino i grillini desiderano starne alla larga e fuggono infastiditi dal colonialismo dipietrista. Dopo il declino del Cavaliere, che scappa come può dalle Procure dopo averne combinate di tutti i colori, non ha più senso l'immagine sbiadita del magistrato ruspante che lo insegue e gli sbatte addosso il tintinnio delle manette. Appartengono alla stessa cronaca di un gioco a guardia e ladro, che ha sostituito per anni la politica e per fortuna ora non c'è più. Scaraventati via dalla storia, che con un insopportabile ritardo arriva comunque a chiedere il conto anche alle facce più toste, Berlusconi e Di Pietro conducono ora la stessa battaglia. Quella di retrovia, inscenata alla disperata per sopravvivere, seppure acciaccati, ad un tempo che sentono come non più loro. Sono due logori eroi legati alla stessa narrazione, Di Pietro e Berlusconi. Questa poco nobile coppia di apparenti poli opposti meglio di ogni altra figura incarna il senso della defunta seconda Repubblica, da nessuno rimpianta. Il discolo miliardario che pretende di farla franca e il feroce castigatore del malcostume, che sorveglia e punisce in nome dell'Italia dei valori, recitano ruoli diversi, ma nella stessa commedia. Proprio come al medesimo e sempre più prevedibile spartito attingono Travaglio, con le ispirazioni da oracolo nel grembo che condiscono i suoi maniacali tormenti, e Sallusti con le agitazioni a comando per fare da obbediente scudo agli incubi padronali. Ora che, dopo essere scomparso tra le rovine e infilzato dalle ingiurie, il defenestrato Berlusconi riappare, Di Pietro non sta a guardare. Queste creature gemelle che ricorrono agli stessi toni per aggredire il capo dello Stato, la Corte costituzionale, sono fatti della stessa pasta stantia. Coltivano una metafisica dell'intrigo che scorgono in ogni cosa. Il mondo è per loro solo un infinito complotto, un condensato di furbizia e di intrallazzo. Con la loro mente deviata, che si barcamena tra le ombre di fantasmi minacciosi e le allucinazioni di una privata potenza, urlano contro le macchinazioni da sventare e si esibiscono in continue vanterie. Alla testa di moribondi antipartiti personali, entrambi rivendicano un assoluto comando e non resistono al vezzo dell'autocitazione, che dovrebbe conferire un che di epocale ai loro detti, invero poco memorabili. Amano così tanto la menzogna politica che spesso lasciano l'impressione di darla da bere anche a loro stessi, e finiscono così per restare impigliati nella rete infinita delle loro oceaniche bugie. Prediligono delle semplificazioni devianti e sbandierano delle proposte assurde, gettate in mischia tanto per sparala grossa. Nessun senso della vergogna, quella che risparmia al politico la sensazione di essere ridicolo, li accompagna e perciò rimangono ingabbiati nelle raffiche delle loro eterne precisazioni e delle rituali smentite. E proprio questa smisurata mancanza di sobrietà che li induce a straparlare è anche la ragione della loro obsolescenza. Con un'Italia così malridotta, sarebbe una sciagura se al voto si andasse per contare gli orfani di un imbarazzante Cavaliere che tenta il colpo gobbo (sperando che le macerie diventino le sue amiche mortali) e una pattuglia di «non allineati» che insultano ogni istituzione della Repubblica e anche dove regna trasparenza gridano al tradimento. Questi due spavaldi oracoli patentati, che avvertono la concorrenza sleale del comico che impazza senza scrupoli semantici, e si adeguano con facilità al lessico del populismo, continuano a nuocere con le loro oscene bambinate. Se ancora esiste un esiguo margine per la salvezza di questo malcapitato Paese, esso passa, come sempre, tra le mani della sinistra. Ritrovando l'unità, e aprendo anche il dialogo con i partiti moderati, quelli non infetti dal letale virus del plebiscitarismo, alla sinistra tocca domare una cupa emergenza economica, seppellire i populismi triviali e tentare una rinascita della società all'insegna di un nuovo patriottismo della Costituzione.

 

Cambio di rotta a Berlino? - Paolo Soldini

Helmut Schmidt, mesi fa, sottopose ai suoi connazionali una domanda interessante, cui nessuno, che si sappia, ha ancora dato risposta. Perché - chiese l'ex cancelliere - i tedeschi sono ossessionati dal fantasma dell'inflazione e non si preoccupano affatto dei rischi della deflazione? Si dice: perché nella coscienza collettiva della Germania è vivissima la memoria della Grande Inflazione del 1922-'23. In quegli anni per fare la spesa bisognava uscire di casa con la carriola piena di banconote. Il problema, però, resta: perché i tedeschi, invece, non hanno né memoria né paura della Grande Depressione, innescata dalla tremenda politica recessiva del cancelliere Heinrich Brüning dal '30 al '32? Eppure fu proprio il malessere provocato da quella politica, i licenziamenti di massa, l'impoverimento del ceto medio, gli scontri nelle strade che provocarono la fine della Repubblica di Weimar e l'avvento di Hitler al potere. Se si considera il modo con cui l'establishment della Repubblica federale si è mosso e si muove nel gran disordine della crisi dell'euro, si percepisce subito che il quesito di Schmidt è del tutto pertinente. L'austerity policy dettata da Merkel, accettata dalle istituzioni europee e, fino alla vittoria di Hollande, dai governi della grande maggioranza dell'Eurozona ha messo in serie difficoltà i Paesi del sud e ha steso una pesante ipoteca sulla sopravvivenza stessa della moneta unica. Ormai i problemi creati dalla recessione cominciano a farsi percepire anche a Berlino. E non solo per quanto riguarda l'export. Ogni giorno, praticamente, vengono aggiornate al rialzo le stime di quanto l'uscita della Grecia (solo della Grecia) dall'euro costerebbe subito alla Repubblica federale: ieri i calcoli degli istituti di ricerca indicavano 80 miliardi. Nessuno azzarda cifre su eventuali forfait di Spagna o Italia o sulla repentina scomparsa dell'euro che ne sarebbe l'inevitabile conseguenza. Ma è tanto chiaro che l'economia tedesca ne sarebbe travolta che Moody's rivede l'outlook e ieri un piccolo istituto americano, l' Egan-Jones Ratings, è arrivato addirittura a ipotizzare un «possibile fallimento» della Germania. Berlino come Atene? Via, non scherziamo. Però forse è il caso di leggere anche con questa chiave le reazioni tedesche alla mossa di Mario Draghi e all'eventualità che la Bce possa operare direttamente sui mercati secondari dei titoli come fece l'anno scorso. La cancelliera e il governo hanno taciuto per un bel po'. Poi a parlare ci ha pensato la Bundesbank ed è stato un secco altolà. Come la pensi la Banca centrale tedesca in materia di interventi diretti della Bce è testimoniato dalle clamorose dimissioni del tedesco Jürgen Stark dal board quando si profilò per la prima volta l'acquisto diretto di titoli. Allora la cancelliera non ci pensò dieci minuti a sostituire Stark con Jörgen Asmussen, di provenienza socialdemocratica e meno rigido. Stavolta è andata oltre: rompendo il silenzio con una telefonata a Hollande, ha praticamente sconfessato la sua Banca centrale e il suo presidente Weidmann. Non solo ha riecheggiato Draghi dicendo che «faremo di tutto per salvare l'euro», ma si è anche adeguata alla formula dell'«applicazione immediata» delle decisioni del Consiglio europeo di fine giugno che tante turbolenze aveva provocato nelle ore precedenti. L'interpretazione corrente è che quelle decisioni prevedano anche l'intervento diretto della Bce. Poco prima, il ministro delle Finanze Schäuble era stato altrettanto chiaro: Berlino rispetta le decisioni dell'Eurotower. L'evidente contrasto tra la Bundesbank e il governo è il segnale di un mutamento in atto a Berlino? Schäuble, è vero, ha posto un significativo paletto, spiegando che la Germania è comunque contraria alla concessione della licenza bancaria all'Efsf e, quando sarà, all'Esm. Ma pare di capire che lui e la cancelliera abbiano mollato abbastanza sul principio del «rispetto dei ruoli» da parte dell'istituto europeo di Francoforte. Ciò significa che la Bce non è più considerata a Berlino solo il cane da guardia dell'inflazione, come fu voluta alla sua creazione e com'è stato fino all'avvento di Draghi? Frau Merkel e il suo Schäuble si spingerebbero fino ad accettare persino che stampi moneta (o consenta agli Stati di stamparne) per sostenere gli acquisti di titoli? A giudicare dalle parole parrebbe di sì, anche se si deve essere prudenti perché non mancano precedenti di evoluzioni dell'orientamento del governo tedesco poi precipitosamente rientrate di fronte al rischio di lacerare la coalizione che lo sostiene. È questa l'incognita che grava sugli sviluppi dei prossimi giorni. Se la cancelliera sentirà troppo sul collo il fiato di coloro che la contestano da destra e vedrà la sua poltrona in pericolo, sarà forte il rischio che torni in qualche modo indietro. Non sarebbe la prima volta. Però un'evoluzione, a Berlino, c'è stata. Bisogna riconoscerlo e, magari, lavorare perché si traduca presto in fatti.

 

Corsera - 28.7.12

 

Forza, liberateci dal porcellum - Antonio Polito

C'è una sola cosa peggiore che tenersi il Porcellum : farne un altro. Fare cioè un'altra legge elettorale a furia di colpi di maggioranza, ritagliata sui bisogni del momento di chi la fa, considerata una truffa da chi la subisce, capace dunque di avvelenare per anni la lotta politica spingendo gli schieramenti alla reciproca delegittimazione. Cioè esattamente quanto è avvenuto dal 2006 a oggi col Porcellum. Eppure il fantasma di un Porcellum bis ha ripreso a girare nel Palazzo. È bastato ad evocarlo il ritorno sulla scena del delitto di Calderoli, reo confesso della «porcata» e riciclato come esperto della Lega. Raccontano i bene informati che Berlusconi e Maroni stiano considerando di sacrificare anche la riforma elettorale, dopo quella costituzionale, sull'altare di una rinata Alleanza del Nord. L'idea sarebbe di sfruttare la maggioranza di cui ancora i due partiti dispongono al Senato per far approvare almeno in quel ramo del Parlamento una legge ad personas , gradita cioè solo a loro. Il progetto, a dire il vero, sembra così suicida da far sperare che verrà abbandonato: rompere sulla riforma elettorale vorrebbe dire fornire un alibi formidabile a Bersani per mettere fine alla legislatura e tornare a votare con il Porcellum . Il Pd vuole cambiarlo, ed è sincero; però con la vecchia legge vincerebbe le elezioni in carrozza, e se proprio la destra gliene dà il destro, la tentazione di approfittarne diventerebbe irresistibile. Ma poiché tutti dicono che Berlusconi, fino a ieri accusato di puntare alle elezioni anticipate, ora le veda come il fumo negli occhi perché perderebbe malamente, almeno l'interesse di parte dovrebbe sconsigliare un disastro comune. Sarebbe infatti bene ricordare ai partiti che toccare le leggi elettorali è la cosa più delicata che esista, e questa è la ragione per cui nelle democrazie mature lo si fa molto raramente. È infatti il momento in cui i giocatori della partita democratica se ne fanno arbitri, fissandone le regole, disponendo dunque del potere di danneggiare gli outsider . Per esempio: qualsiasi nuovo sistema deve oggi sottrarsi al sospetto di essere costruito contro il movimento di Grillo o quello di Vendola, entrambi non rappresentati in Parlamento. L'ideale sarebbe agire sotto il velo dell'ignoranza, cioè così tanto tempo prima del voto e così indipendentemente dai sondaggi da non potersi cucire la legge addosso come un abito su misura, al contrario di quanto avvenne col Porcellum. E invece, paradossalmente, la ragione per cui i partiti oggi stanno facendo melina rinviando il più possibile la legge è proprio il velo dell'ignoranza in cui sono immersi: non sanno con che alleanze, con che proposte, e con quali candidati premier andranno al voto. Vogliono decidere dunque prima quello, e poi vedere quale sistema conviene di più. In secondo luogo una legge elettorale deve scegliere il punto di equilibrio tra le esigenze di rappresentatività e quelle di governabilità. Per esempio: la legge tedesca garantisce di più la rappresentatività, quella francese di più la governabilità. La nostra legge attuale, unica in Europa, premia invece le coalizioni. Ma ora che le coalizioni non ci sono più non si può premiarle, se non per indurle a formarsi in modo fittizio e poi sciogliersi dopo il voto. Infine, non in ordine di importanza, una nuova legge dovrebbe garantire la più elementare delle esigenze: la scelta degli eletti da parte degli elettori. Si può fare con le preferenze o con i collegi uninominali o con le liste bloccate su piccole circoscrizioni. O con un misto di tutti questi sistemi. Voglio dire che è assolutamente impossibile, con il vasto repertorio di modelli che le democrazie di tutto il mondo offrono, non trovare quello giusto per l'Italia, o almeno quello meno sbagliato. E che dunque le titubanze, i giochetti e i ritardi finora messi in scena si spiegano esclusivamente con la ricerca esasperata del vantaggio di parte. Questa purtroppo è una delle cause per cui la nostra democrazia è oggi così debole e fragile. Mentre Monti si occupa dello spread dei Btp, sarebbe ora che i partiti si occupassero dello spread democratico che si sta accumulando.

 

Quel tifo dall'estero per Monti - Francesco Verderami

Come cambiano le cose e in poco tempo. Se fino a qualche mese fa Stati Uniti e Russia avevano opinioni divergenti sulla situazione politica italiana, ora Obama e Putin convergono nelle loro posizioni, e auspicano che l'esperienza Monti non si esaurisca con la fine della legislatura. Certo, non è una novità che le relazioni tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi attraversino una fase molto positiva. La crisi economica ha imposto a Washington di spostare l'attenzione dall'area del Pacifico verso l'Europa, riaprendo la rotta atlantica che per anni era stata quasi del tutto abbandonata, e che veniva solcata soprattutto per questioni militari. Il punto è che - a causa dell'emergenza - il ritrovato interesse per il Vecchio Continente ha prodotto anche importanti modifiche nei rapporti con le cancellerie dell'Unione. Per Obama oggi Monti è un interlocutore importante, tanto da aver spinto l'amministrazione statunitense a rivoluzionare il tradizionale modello di relazioni bilaterali, introducendo un sistema inedito per i due Paesi. È tramite il premier italiano che il presidente americano cerca di capire lo stato dell'arte nell'area dell'euro, esortando il suo interlocutore a proseguire nell'azione politica che sta producendo al tavolo dell'Unione, apprezzandone la linea, compiacendosi anche per la cura che il suo governo pone - per esempio - rispetto a una maggiore integrazione del commercio transatlantico. Non è questione di reciproca simpatia, ovviamente, c'è sempre un interesse alla base di questi rapporti. Ma è evidente la novità segnata dall'inusuale frequenza dei contatti tra i due, che di norma si sentono al telefono con cadenza quasi settimanale. E nei momenti critici, che di questi tempi sono frequenti, la linea viene usata anche più spesso. Sarà perché fin dall'inizio Obama ha salutato la nomina di Monti alla guida del governo con toni entusiastici, sarà perché lo considera un «protagonista attivo» dell'Unione, fatto sta che l'inquilino della Casa Bianca fa il «tifo» per il professore. È vero che il vocabolario diplomatico non contempla la parola «tifo», però è questo il messaggio che i vertici dei partiti della «strana maggioranza» hanno recepito dopo una serie di incontri riservati con emissari dell'amministrazione americana. Il linguaggio adottato dagli ambasciatori sarà stato consono al tipo di colloqui, attento a non calpestare le regole delle relazioni internazionali, a non dare l'idea di ingerirsi negli affari italiani, però il sostegno a Monti e l'auspicio che il premier non traslochi da palazzo Chigi nel 2013 è parso a tutti inequivocabile. Di sicuro non sarà stata una sorpresa per i dirigenti politici italiani ascoltare quei ragionamenti. Più sorprendente, per lo stesso Monti, sarà stato ascoltare le parole di incoraggiamento che gli sono giunte da Putin nel corso del loro recente incontro a Sochi. Il presidente russo, a più riprese, ha sottolineato come la «stabilità politica» sia importante per favorire la stabilità economica internazionale e anche le relazioni commerciali, spingendosi fin dove si era spinto in passato solo per l'«amico Silvio». Così sono cambiate le cose e in pochi mesi: nelle valutazioni sull'Italia - un tempo divergenti - Stati Uniti e Russia finiscono ora per trovare un punto di sintonia. È molto pericoloso monetizzare la democrazia, trasformarla in merce di scambio sui mercati finanziari, darle un valore come fosse una valuta. E mettere le mutande alle elezioni, determinare l'esito del risultato prima della sfida, sarebbe come tentare di imbrigliare la storia. Infatti il premier non fa che ripetere di esser pronto a lasciare l'incarico appena terminerà il suo mandato. «Ci tiene a far sapere che non si impegnerà», ha spiegato Casini l'altro giorno a un dirigente dell'Udc. Stesso messaggio è stato destinato alle altre forze che appoggiano il governo. Ma ci sarà un motivo se i partiti della «strana maggioranza» discutono e si dividono sul «Monti dopo Monti», se il tema terrà banco anche la settimana prossima che il premier trascorrerà tra Madrid, Parigi ed Helsinki, se la questione si riproporrà con più vigore con l'approssimarsi delle urne, se si preparano appelli perché questa esperienza prosegua anche dopo le elezioni. È evidente che il professore rimarrà un passo indietro rispetto al dibattito pubblico in atto, ossequioso della politica a cui spetta l'ultima parola. E se il suo lavoro verrà riconosciuto positivamente, starà ai partiti chiamarlo nel caso per rinnovargli la fiducia, dopo la sfida elettorale. Intanto dagli spalti, dentro e fuori i confini nazionali, c'è chi tifa per lui.

 

«Si vendono appartamenti abusivi» - Gian Antonio Stella

«Vendesi appartamenti abusivi». Lo striscione, dalla vistosa scritta bianca su fondo rosso, campeggia in un cantiere di Eboli. E rappresenta, oscenamente, un salto di qualità. La certificazione che ormai in questo campo è stato superata ogni soglia del pudore. Totò imbastì uno sketch formidabile, sul tema. Tuonava: «Abusivi di tutto il mondo unitevi! Ci vogliono abolire! È un abuso! Abusivi: diciamo no all'abuso!». Eccitava la rivolta, è vero, dei posteggiatori abusivi e non dei costruttori fuorilegge. Il tema, però, è quello. Rivendicato due anni fa addirittura in uno stupefacente manifesto affisso sui muri di Ischia, dove nonostante la terribile lezione del terremoto del 1883 che annientò Casamicciola, sono stati denunciati in questi anni 28 mila abusi edilizi su una popolazione di 62 mila abitanti: «La politica dominante è morta! Dopo sessant'anni di coma vegetativo, ne danno il triste annuncio i cittadini "abusivi" tutti. Le esequie si terranno in forma privata presso i seggi elettorali nei giorni 28 e 29 marzo 2010. Sulla scheda elettorale scrivi: "voto abusivo!"». Insomma, la giustificazione dell'abusivismo è così diffusa, in questo Paese, che già avevamo assistito a episodi clamorosi. Uno per tutti, la costruzione pochi anni fa a Casalnuovo, in provincia di Napoli, a ridosso della zona rossa di estremo pericolo in caso di eruzione del Vesuvio, di 73 palazzi totalmente abusivi e senza fondamenta per un totale di 450 abitazioni, costruiti da un certo Domenico Pelliccia. Tutte abitazioni vendute dal notaio grazie a un'autocertificazione falsa in base alla quale sarebbe stato possibile godere del condono del 2003. Quel caso da manuale, che vide banche pronte a concedere mutui senza troppe puzze sotto il naso e rappresentanti di Telecom e dell'Enel e dell'acquedotto disponibili a fare gli allacciamenti senza badare alla illegalità totale del nuovo rione, fu solo una delle conferme di una cosa che in certe zone sanno tutti. Cioè che ormai l'andazzo dell'abusivismo è tale che molta gente non si fa problemi a vendere abitazioni abusive e altri non si fanno problemi a comprare. «Conosco anch'io gente di Montecorvino, in provincia di Salerno, che ha accettato di comperare case abusive pur sapendo che non erano in regola - racconta Michele Buonomo, presidente di Legambiente in Campania -. Spesso si tratta di persone che non sono in grado di acquistare una casa regolare e si accontentano di qualcosa che sulla carta non potrà diventare mai loro perché queste abitazioni costano molto ma molto meno, perché sanno che la probabilità che siano abbattute dalle ruspe è bassissima, perché scommettono sull'arrivo, un giorno o l'altro, di un nuovo condono». Una scommessa scellerata. Sulla quale giocano politici scellerati. Che arrivano a fare addirittura le campagne elettorali promettendo miracolose sanatorie o come minimo l'impegno a non mandare le ruspe. Spiega il libro Breve storia dell'abuso edilizio in Italia dell'urbanista Paolo Berdini, che trabocca di dati, citazioni e numeri, che le case illegali nella penisola, in larga parte concentrate nel Mezzogiorno, sarebbero 4.400.000. Vale a dire che, fatti i conti su una famiglia media, almeno 10 milioni di italiani vivono o vanno in vacanza in una casa abusiva. E lì entra in ballo il calcolo della peggiore politica: un abusivo è solo un abusivo, 100 abusivi con parenti e annessi possono eleggere un consigliere comunale, 1.000 possono determinare l'elezione di un sindaco o un deputato, un milione consentono di conquistare o perdere Palazzo Chigi. Fatevi un giro, se vi capita, dalle parti di Triscina e Trecase, nella zona archeologica di Selinunte. Ci sono migliaia di case così abusive ma così abusive che non hanno potuto usare il condono craxiano del 1985 né quelli berlusconiani del 1994 e del 2003 e neppure la sanatoria delle sanatorie della Regione Sicilia ai tempi di Totò Cuffaro. Sono invendibili, eppure ogni tanto, con un contratto privato, qualcuna passa di mano. In alternativa percorrete il lungomare di Torre Mileto, tra Termoli e Rodi Garganico, dove nei decenni si sono ammassate centinaia e centinaia di villette sgangherate escluse da ogni sanatoria. Pare impossibile, ma capita di vedere dei cartelli: «Vendesi». Mai però, neppure in una Regione come la Campania che secondo il Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l'edilizia e il territorio) detiene il record italiano (e occidentale, presumibilmente) delle abitazioni abusive che qui sono il 19,8%, si era visto uno striscione come quello che Enzo Armenante, un anziano e combattivo esponente del Wwf campano, ha fotografato in un cantiere in via Cristoforo Colombo a Eboli e inviato a Fulco Pratesi, che del Wwf italiano è il fondatore e il presidente onorario. La sfida è sfrontata. Totale: «Vendesi appartamenti abusivi». E più sotto: «Info in sede». Vale la pena di aggiungere una sola parola di commento?

 

I più ricchi d'Europa: due italiani nella top ten

Michele Ferrero e Leonardo del Vecchio sono i due imprenditori più ricchi d'Italia e riescono anche a piazzarsi bene nella classifica dei Paperoni d'Europa. I due industriali italiani sono, rispettivamente, al quinto e al settimo posto della classifica voluta dall'emittente economica americana Cnbc. I DUE PATRIMONI - Ferrero, fondatore dell'omonima casa dolciaria che produce tra l'altro la Nutella, ha un patrimonio stimato di circa 13,3 miliardi di euro. Del Vecchio, titolare del gigante degli occhiali Luxottica, ne ha circa 11 miliardi. IL PODIO - A primeggiare è lo spagnolo Amancio Ortega Gaona: il fondatore del gruppo Inditex (si è dimesso dalla presidenza l'anno scorso), la casa madre di Zara, ha un patrimonio netto di 32,5 miliardi di euro, che ne fa il più ricco di Eurolandia e il quinto al mondo. Secondo è il tedesco Karl Hans Albrecht, che assieme al fratello Theo controlla la catena di supermercati Aldi (la principale concorrente di Lidl, presente in 17 paesi d'Europa, ma non in Italia, e negli Stati Uniti), con un patrimonio di 21 miliardi. Al terzo posto una donna, Liliane Bettencourt, l'unica ereditiera diretta del fondatore di L'Oréal (Eugène Schueller), con un patrimonio che supera 19 miliardi e al centro dell'attenzione dei media per le cause di interdizione da parte della figlia per i suoi eccessi di generosità verso uno stretto collaboratore. GLI ALTRI RICCONI - Al quarto posto c'è un altro francese, Bernard Arnault, del gruppo Lvmh (Louis Vuitton e Moët & Chandon, ma anche Givenchy, Dior, Fendi, Tag Heuer, Donna Karan e altri), con una cifra più o meno pari a quella di «madame L'Oréal». Poi troviamo, come detto, Ferrero, e un altro transalpino, François Pinault, che controlla un altro gruppo del lusso, Ppr (Yves Saint Laurent, Balenciaga, Bottega Veneta e Alexander McQueen), oltre ad Artemis, leader del vino, la casa d'aste Christie e il prestigioso Palazzo Grassi di Venezia dove è esposta una mostra-museo della sua collezione (11,5 miliardi). Alle spalle di Pinault, Del Vecchio, poi l'ennesimo francese, Serge Dassault, con 9,3 miliardi: è il titolare del gruppo di aeronautica omonimo (e rifornisce numerosi eserciti). Nono e decimo sono due tedeschi Berthold e Theo Albrecht, nipoti del Karl Hans che domina la classifica. Secondo Cnbc hanno entrambi un patrimonio di 9 miliardi di euro circa.

 

Europa - 28.7.12

 

La via stretta - Roberto Della Seta e Francesco Ferrante

Del dramma sociale di Taranto si può pensare tutto tranne giudicarlo sorprendente. La storia dell'Ilva è antica e molto esemplare. È la storia dei grandi poli dell'industria pesante italiana, quasi sempre industria pubblica, disseminati dagli anni Cinquanta e Sessanta nel cuore di città grandi e piccole: Porto Marghera a Venezia, Bagnoli a Napoli, Cornigliano a Genova, e poi Taranto, Mantova, Manfredonia, Augusta. Scelta che già quando venne compiuta - questa è una prima verità da affermare contro troppi racconti fantasiosi - mostrava evidenti controindicazioni. Controindicazioni per il rischio di esporre centinaia di migliaia di persone all'impatto ravvicinato di un forte, spesso devastante inquinamento. Quel modello poi entrò in crisi, e non solo perché l'ambiente e la difesa dall'inquinamento sono diventati sempre più importanti nella percezione sociale. È entrato in crisi anche sul piano squisitamente industriale. Così è rimasta l'eredità terribile di decenni di avvelenamento impunito, di immense aree da bonificare, e al tempo stesso se ne sono andati centinaia di migliaia di posti di lavoro. Qui è la differenza con Taranto, dove alla fine del secolo scorso lo stabilimento siderurgico Italsider, con il suo carico di problemi ambientali mai affrontati, venne acquistato dalla famiglia Riva, e dove tuttora lavorano oltre diecimila persone cui se ne aggiungono almeno altrettante nell'indotto. I padroni privati dell'Ilva, come prima i padroni pubblici, hanno responsabilità rilevantissime per non avere fatto ciò che potevano e dovevano - come investimenti e come miglioramenti tecnologici - per abbattere l'impatto inquinante della fabbrica. Così, come ha evidenziato Legambiente in un suo recente dossier, l'Ilva di Taranto è oggi lo stabilimento industriale di gran lunga più inquinante d'Italia, primo emettitore industriale di diossina, di idrocarburi policiclici aromatici, di piombo, di mercurio, di benzene, di cromo. L'aria di Taranto è una miscela pestilenziale di veleni, e questo determina, da decenni, conseguenze sanitarie assai gravi. Che la magistratura da alcuni anni abbia cominciato ad occuparsi dell'Ilva come di altre situazioni analoghe di inquinamento industriale impunito - basti pensare alle inchieste dell'allora procuratore Casson su Porto Marghera - non è stato solo inevitabile: è stato ed è provvidenziale. Ma nel caso di Taranto la via da percorrere è particolarmente stretta: bisogna riportare l'llva in condizioni di legalità e in condizioni di sicurezza ambientale e sanitaria per chi ci lavora e per tutti i cittadini di Taranto, e nello stesso tempo bisogna evitarne la chiusura che rappresenterebbe per la città una catastrofe sociale insopportabile. È, lo ripetiamo, una via molto stretta, ma è l'unica realistica e responsabile. È la via imboccata non da oggi dalla Regione Puglia di Vendola, che con una legge del 2008 ha equiparato i limiti alle emissioni in atmosfera di diossina per gli stabilimenti pugliesi a quelli europei. I Riva hanno cercato in ogni modo di fermare questa norma, ma fortunatamente hanno perso e hanno dovuto avviare interventi concreti per ridurre le emissioni inquinanti. Ora bisogna proseguire sulla stessa strada con ancora maggiore convinzione, e tutte le forze in campo - regione, enti locali, governo, sindacati, ambientalisti - devono sentirsi mobilitati per dare a Taranto, nei tempi più rapidi, un'Ilva che non sia più fabbrica della morte. Infine, una notazione generale. Dopo i sigilli messi dalla magistratura all'Ilva, qualcuno è tornato ad agitare l'idea che lavoro e ambiente siano interessi inconciliabili, e che in una fase come l'attuale di acuta crisi economica il primo interesse debba avere la meglio sul secondo. Bene, questa è una colossale stupidaggine per due buoni motivi. Il primo è che crisi o non crisi, la maggioranza dei cittadini, a Taranto come in qualunque altra città, non è disposta ad accettare alcuno scambio tra sviluppo e salute. Il secondo motivo è che questo scambio è del tutto illusorio. Per l'industria italiana, puntare sull'eccellenza ambientale non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi; è l'unico mezzo per difendere le sue ragioni competitive e con esse il lavoro di milioni di persone. Questo vale per la siderurgia come per l'automobile, per la chimica come per tutto il manifatturiero. Finora, bisogna dirlo, né la classe politica né quella industriale l'hanno davvero capito: c'è da sperare che lo choc tarantino glielo insegni.

 

Il vero duello americano - Guido Moltedo

Economics versus demographics. I dati dell'economia contro quelli della demografia. Sono loro i due veri sfidanti delle presidenziali americane. Se l'economia prevarrà, come fattore cruciale del voto del 6 novembre, Romney dovrebbe avvantaggiarsene e potrebbe avere la meglio su Obama. Se invece conterà soprattutto una buona affluenza alle urne da parte delle minoranze, in primo luogo i latinos, e in particolare negli stati in bilico dove il loro voto è determinante, ma anche di settori importanti dell'elettorato, come quelli femminile e omosessuale, Barack Obama non dovrebbe avere problemi a ottenere la rielezione. A tratteggiare così il duello presidenziale è Sidney Blumenthal, in una conversazione informale. Fu lui, in anni ormai lontani, a teorizzare la politica americana come una permanent campaign. E poi è stato (informalmente lo è ancora) consigliere dei Clinton. Ridotto all'osso, il duello consiste nel sapere spostare, da una parte e dall'altra, l'asse strategico sul terreno dell'economia (Romney) o su quello degli elettori che fanno la differenza in un'America nella quale i bianchi sono ormai solo una componente, tendenzialmente minoritaria, del corpo elettorale (Obama). In una certa misura, ovviamente, i due campi si sovrappongono. Perché la crisi economica colpisce con più severità, ovviamente, gli strati popolari e i ceti medi, dove è presente una notevole componente ispanica, e costituisce un tema verso il quale l'elettorato femminile è particolarmente sensibile. Qui si svolge uno scontro furioso, con Romney che cerca di presentarsi come il presidente che meglio saprebbe gestire l'uscita dalla crisi, per via della sua esperienza in Bain Capital, una di quelle imprese finanziarie responsabili della bolla speculativa all'origine dello sconquasso economico. Ma Romney è affetto da una sorta di sindrome di Tourette, l'incoercibile pulsione a proferire parole oscene e imbarazzanti. Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti non avrà l'irrefrenabile coazione a dire sconcezze, ma, con l'identica inconsapevole assenza di freni inibitori di un paziente di Tourette, non fa che rilasciare dichiarazioni e sparare battute stupefacenti per la loro carica autolesionistica, e difficilmente spiegabili con il metro della politica. A parte l'ultima gaffe - a Londra, all'esordio della sua prima missione all'estero, dove ha suscitato un vespaio, criticando l'organizzazione britannica dei giochi olimpici - c'è ormai una ricca sequenza di sue battute strabilianti. Quel che colpisce è il modo disinvolto, prima ancora che cinico, con cui fa certe affermazioni, alcune ormai celebri, che rimbalzano di blog in blog, come: «Vuoi scommettere diecimila dollari?», «quanto mi piace licenziare la gente», «non mi preoccupano i poverissimi». È un super-ricco che pensa di parlare sempre con i suoi pari, e quindi non controlla il suo linguaggio. Gli strateghi obamiani martellano proprio su questo, sulla sua distanza siderale dai problemi e dal sentire della gente comune, sul suo passato in Bain. E hanno mandato in onda spot che lo dipingono come un bieco capitalista, che ha esportato posti di lavoro all'estero e che ha nascosto fortune in banche svizzere e in paradisi fiscali. Spot efficaci, indubbiamente, e tuttavia non in grado di spostare significativamente l'attenzione del pubblico dalla gestione attuale dell'economia da parte di Barack Obama. Perché il rischio, per il presidente democratico, è che il voto di novembre si trasformi in un referendum su di lui, in quanto associato alla debacle dell'economia americana. Non sarà vero, ma che importa? Il problema è che il voto di protesta, come è già avvenuto in Europa, potrebbe sommergere il presidente in carica, a prescindere da chi sia il suo avversario. E gli ultimi dati, forniti ieri dal governo americano - nel secondo trimestre la crescita annua è stata appena dell'1,5 per cento -, non sono per niente incoraggianti per la Casa Bianca. Anche per questo, i consiglieri presidenziali lavorano sul terreno più propriamente politico, cercando di intrecciare gli strumenti moderni offerti dall'information technology, al fine di segmentare in modo raffinatissimo l'elettorato e le sue domande, e quelli classici della mobilitazione e del contatto diretto, con l'obiettivo soprattutto di convincere gli elettori riluttanti, tendenzialmente democratici, a recarsi alle urne, superando anche i nuovi ostacoli creati ad hoc dai governatori e dai parlamenti repubblicani per rendere difficile l'accesso alle urne soprattutto dei votanti delle minoranze. Su questo terreno, Obama è in netto vantaggio rispetto a Romney. Lo sfidante repubblicano è detestato dai neri - è stato sonoramente fischiato alla recente assemblea della più importante organizzazione africanoamericana, la Naacp - e quasi altrettanto dai latinos. Ed è guardato di traverso da molte donne per le sue posizioni sull'aborto, e dai gay per il suo no alle nozze omosessuali. Sono due personalità, Obama e Romney, che più diverse non si potrebbe immaginare. Eppure sono associati da un tratto caratteristico comune e, in un'elezione presidenziale, senza precedenti. Obama è un africano-americano, Romney mormone. Sono figli di due comunità, entrambe con molti nemici. Obama, suo malgrado, per il colore della sua pelle, è il presidente più polarizzante nella storia americana. I mormoni sono considerati una setta, perfino una mafia, e guardati a dir poco con sospetto. Obama ha fatto la storia diventando il primo presidente nero. Romney cerca di diventare il primo presidente mormone. Entrambi, nelle loro ambizioni, incontrano forze ostili, spesso fortemente, irriducibilmente nemiche. Dunque, non solo l'economia e la demografia. Quanto conteranno, il 6 novembre, i pregiudizi, gli odi inconfessabili, i non detti di molti elettori, nel determinare la conferma di un presidente nero o l'avvento di un presidente mormone?

 




Data notizia28.07.2012

Notizie correlate