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Politica Italiana


 

Manifesto - 29.7.12

 

Della crisi esistono due letture, ma l'informazione non se ne accorge - A.Burgio

Immaginiamo che al tempo della disputa tra geocentrici ed eliocentrici esistesse già un sistema dell'informazione simile all'attuale (televisioni, quotidiani e rotocalchi). E supponiamo che dalla vittoria degli uni o degli altri dipendessero le condizioni di vita della gente che da quelle televisioni e da quei giornali veniva informata. Come giudicheremmo, in questa ipotesi, una informazione che avesse sistematicamente nascosto la disputa e, per esempio, rappresentato la realtà sempre e soltanto sulla base della teoria geocentrica? Di questo, a mio modo di vedere, si tratta nella lettera sul "Furto d'informazione" che abbiamo inviato a molte agenzie di stampa e ad alcuni giornali nei giorni scorsi e che il manifesto (soltanto il manifesto) ha pubblicato integralmente in prima pagina. Il tema della nostra denuncia è l'«ordine del discorso pubblico» sulla crisi. Un tema concretissimo e materiale, produttivo di fatti altrettanto concreti, che recano nomi illustri: senso comune, ideologia, consenso. Naturalmente la crisi è fatta di dinamiche economico-finanziarie, alla base delle quali operano, sul piano nazionale e «globale», determinati assetti di potere e una determinata struttura dei processi di produzione e circolazione. Su questo terreno si sono verificate, a partire dal 2007, le vicende che hanno innescato la tempesta finanziaria. Ma la questione che subito si pone - basta un attimo per comprenderlo - è che qualunque cosa si dica a questo riguardo è frutto di interpretazioni. Soltanto persone faziose, intolleranti come Giuliano Ferrara possono pretendere che un'opinione (la loro) sia «oggettiva» e inoppugnabile. Chiunque altro converrà che ogni narrazione implica assunzioni teoriche, ipotesi e, appunto, interpretazioni. Nel caso della crisi, semplificando al massimo, si fronteggiano due schemi interpretativi. Il primo, mainstream e prevalente sul piano politico, riconduce la crisi a due cause: la crisi fiscale (dovuta a un eccesso di spesa pubblica - i cosiddetti sprechi - in materia di welfare e di pubblico impiego) e la sproporzione tra retribuzioni e produttività del lavoro. Da qui fa discendere, a catena, la crisi dei debiti sovrani, i severi verdetti delle agenzie di rating e le decisioni dei mercati finanziari. Dopodiché la terapia è scontata: essa impone una «rigorosa» politica di tagli (santificata nel fiscal compact), licenziamenti e blocco delle assunzioni, deflazione salariale, privatizzazioni e alienazione del patrimonio pubblico, riduzione delle tutele e dei diritti del lavoro dipendente. L'idea-base di questa visione (coerente col discorso sulle «compatibilità» che da venticinque anni fa proseliti anche a sinistra) è che da mezzo secolo viviamo (più precisamente: la massa dei lavoratori dipendenti vive) «al di sopra delle nostre possibilità». La speranza che la informa è che il «risanamento» della finanza pubblica «rassicuri» i mercati e plachi la fame degli speculatori. O meglio: che questi scelgano altri obiettivi, posto che speculare è la loro ragion d'essere. L'altra interpretazione della crisi, familiare ai lettori di questo giornale, rovescia la prospettiva. Sostiene che la crisi sia figlia dell'assenza di regole al movimento del capitale industriale (delocalizzazioni) e finanziario (speculazione), della povertà dei corpi sociali (provocata proprio dalle «terapie» propugnate dalla prima ipotesi) e della socializzazione delle perdite dei privati (a cominciare dalle banche, alle quali gli Stati hanno regalato migliaia di miliardi di euro, 4600 nella sola eurozona). Afferma che, lungi dall'essere giudici imparziali, le agenzie di rating lavorano per la privatizzazione delle democrazie (in quanto i governi obbediscono alle loro decisioni), oltre a spianare la strada alla speculazione. Ritiene che le politiche adottate dai governi servano soltanto a drenare enormi ricchezze verso le oligarchie finanziarie. E suggerisce misure di tutt'altro segno: regolazione dei mercati (non c'è bisogno di essere in tutto d'accordo con Lenin per avere una buona opinione degli accordi di Bretton Woods); una riforma della Bce che ne faccia una vera banca centrale (come la Fed e la Bank of England, che dal 2008 acquistano massicciamente i rispettivi titoli di Stato); incremento dell'occupazione (a cominciare dal settore ambientale, dal welfare e dalla formazione) e riduzione dell'orario di lavoro per accrescere la domanda aggregata; equità fiscale (anche per mezzo di prelievi strutturali su patrimoni e rendite); drastica riduzione della spesa militare. Sottesa a questa prospettiva è la tesi enunciata di recente da Amartya Sen, secondo il quale questa crisi non è il sintomo del fallimento degli Stati, bensì l'effetto del fallimento del mercato, che gli Stati hanno provveduto a salvare. Quanto alle proposte (da tempo avanzate da autorevoli studiosi, tra cui Luciano Gallino, Giorgio Lunghini e Guido Rossi), esse dimostrano come la stucchevole litania che ne lamenta l'assenza rientri nella sistematica disinformazione che abbiamo denunciato. Ora, poniamo che questa pedestre sintesi sia accettabile: che cosa ne discende riguardo alle questioni poste dalla nostra lettera? Una conseguenza molto semplice che, come ha osservato Carlo Freccero, chiama in causa direttamente i compiti dell'informazione e, indirettamente, la qualità della nostra democrazia e le relazioni pericolose tra potere economico e potere politico al tempo della «neoliberismo globalizzato». Se è vero che esistono due letture della crisi, di entrambe queste letture la stampa ha il dovere di tenere conto. Questo dovere incombe in primo luogo sul servizio pubblico (in Italia, la Rai) e sulle maggiori testate indipendenti, sempre che esse intendano assolvere una funzione nazionale e non operare come partiti politici. Tenere conto della presenza di due posizioni contrapposte significa, in questo caso, non presentare quelle dei governi europei e delle istituzioni comunitarie come risposte obbligate, bensì, se non altro, spiegare che si tratta di scelte coerenti con una di queste posizioni, e da essa imposte. Quando un governo decide di tagliare ancora le pensioni, di cancellare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di «rivedere la spesa» riducendo posti di lavoro e servizi, di aumentare la pressione fiscale sul lavoro dipendente e di alienare il patrimonio pubblico, la stampa libera di un paese democratico ha il preciso dovere di spiegare al pubblico dei non addetti ai lavori che ciò non avviene perché «c'è la crisi», ma perché questo governo considera indiscutibile la sovranità dei mercati e ritiene giusto subordinarle ogni altro interesse. Dopodiché tutto il dibattito su chi è tecnico e chi politico andrebbe, come merita, dritto in archivio. Ognuno vede che - fatte pochissime eccezioni - l'informazione non assolve questo dovere, che probabilmente nemmeno riconosce. La nostra lettera ha denunciato tale stato di cose, sottolineandone la rilevanza sul terreno democratico. E proprio perché siamo convinti del nesso che lega informazione e democrazia, abbiamo chiamato in causa anche le massime autorità dello Stato, che a nostro giudizio rischiano di venir meno all'obbligo di imparzialità nella misura in cui offrono il proprio incondizionato sostegno alle scelte politiche del governo, sposandone, per ciò stesso, le legittime ma discutibili opzioni teoriche. Siamo ingenui? Ignoriamo che tutto ciò non avviene per caso? È probabile che ogni denuncia sconti un po' d'ingenuità, ma saremmo imperdonabili qualora ritenessimo che un appello all'onestà intellettuale possa risolvere ogni problema. Vi è tuttavia un eccesso di realismo in chi ritiene inevitabile che la stampa («l'avversario») sia reticente o faziosa. Non è scritto che il servizio pubblico debba condurre battaglie di parte, e comunque non è accettabile e va denunciato. Altrimenti perché indignarsi per le censure e la disinformazione che spesso, a ragione, gli imputiamo? E perché cercare di impedirle? Quanto alla stampa indipendente, anch'essa ha qualche problema di legittimazione, e non potrebbe rivendicare apertamente il diritto di nascondere ai propri lettori una parte significativa della verità. Tra l'ingenuità e un iperrealismo che rischia di regalare alibi alla disinformazione, preferiamo credere che il confronto delle idee comporti una sfida impegnativa per tutti. Non per caso il silenzio (quello di chi semplicemente preferisce ignorare tutta questa discussione) resta la via più comoda, anche se di certo non la più nobile.

 

Missione Bundesbank - Anna Maria Merlo

PARIGI - L'euro dovrebbe passare l'estate ed essere ancora in vita a settembre. Questa settimana sarà decisiva, per lastricare la strada che permetterà di tenere in carreggiata la moneta unica, che la speculazione ha preso di mira e, di fatto, già minato alla radice, imponendo tassi di interesse divergenti sulla stessa valuta (lo spread). Il 2 agosto, giovedì, ci sarà il consiglio direttivo della Bce. A questo appuntamento, il board dell'istituto di Francoforte potrebbe arrivare unito: è questa la speranza di Mario Draghi, il presidente della Bce che ha preso in mano il destino dell'euro prima del precipizio, la scorsa settimana, e che ora lancia un appello ai dirigenti politici perché facciano la loro parte. La Bundesbank non conferma, ma secondo un'indiscrezione Draghi dovrebbe incontrarsi con Jens Weidmann, governatore della banca centrale tedesca, dove si arroccano i falchi che non vogliono lasciare le briglie lunghe agli stati maledetti che non hanno ancora fatto tutti i compiti a casa necessari. L'incontro avrà probabilmente luogo, nell'ambito dei tradizionali contatti con i governatori che precedono i consigli direttivi della Bce. Draghi dovrà convincere Weidmann a dare il via libera alla manovra a breve che la Bce è pronta ad avviare subito: cioè a ripetere quello che già aveva fatto nell'estate dell'anno scorso, per evitare all'Italia spread da capogiro. Peccato però che quel precedente abbia reso il fronte dei falchi molto sospetto e renda difficile a Angela Merkel accettare la manovra: allora c'era Berlusconi al governo che, felice dell'allentamento della morsa sul tasso di rischio, aveva approfittato della situazione per accontentare le sue lobbies, rimandando le famose «riforme» che rappresentano la conditio sine qua non dei «compiti a casa». Un anno fa, la Bce aveva comprato abbondantemente debito italiano sul mercato secondario, e aveva fatto diminuire i tassi. Adesso non è tanto l'Italia a preoccupare, l'Europa si fida di Mario Monti. Il problema è, oltre alla solita Grecia, la Spagna di Mariano Rajoy, che continua a negare che Madrid abbia bisogno di un prestito complessivo e non solo del piano di aiuti di 100 miliardi già concesso alle banche. La Bce, ormai appoggiata chiaramente oltreché dalla Spagna e dall'Italia, parti in causa, anche dalla Francia, propone che i fondi salva-stati (oggi il Fesf, che è quasi senza soldi con solo più 250 miliardi in cassa di cui circa la metà già impegnati, e domani il Mes, quando entrerà in vigore, non prima della metà di settembre) comprino debito pubblico sul mercato primario, cioè direttamente. Al direttivo della Bce alcuni ex falchi (come il governatore della banca centrale austriaca) sono ormai disposti ad accettare la conseguenza di questo passo: la licenza bancaria per il Mes. Sulla Spagna ci sono pressioni perché accetti di essere messa sotto tutela, anche se «alleggerita» (rispetto a Grecia, Irlanda e Portogallo), con lo scopo di avere le garanzie che non si ripeteranno gli scherzetti di Berlusconi. La Grecia, invece, resta in alto mare: aspettiamo «risultati, risultati, risultati», ha ripetuto José Manuel Barroso, presidente della Commissione, nel suo breve viaggio a Atene, giovedì scorso. Per mettere a punto il fronte pro-intervento, Monti sarà all'Eliseo, a pranzo con François Hollande martedì. Poi il primo ministro italiano dovrebbe andare a Helsinki in settimana, per convincere i falchi finlandesi. Questa l'impalcatura per salvare l'euro. Resta, evidentemente, il dramma dell'economia reale. La Spagna ha un tasso di disoccupazione mai visto da quando esistono le statistiche. La «coesione sociale» dell'Europa, elogiata da Draghi nel discorso del 26 luglio, rischia di venire travolta da un salvataggio tardivo dell'euro che non tiene conto della mancanza di lavoro e della miseria crescente dei cittadini.

 

Torneremo in piazza - Gianmario Leone

TARANTO - Sono rientrati in fabbrica alle 6.30 di ieri mattina. Dopo una tre giorni di fuoco, che ha visto blocchi d'accesso a tutte le principali arterie di ingresso alla città cessati alle 23 di venerdì sera, sciopero di oltre 48 ore, manifestazioni oceaniche, sit-in e assemblee con i sindacati (fischiati a più riprese quelli della Uilm, il più rappresentato in fabbrica), gli operai dell'Ilva sono rientrati in quella che per loro è una seconda casa, dove indossano le tute blu, per molti di loro una vera e propria seconda pelle. Lo stato di agitazione è però tutt'altro che sopito. La tensione e la paura di un futuro quanto mai incerto, restano intatte. E lo resteranno almeno sino a venerdì 3 agosto, quando è prevista l'udienza del Tribunale del riesame che esaminerà i ricorsi dell'azienda sia contro le otto misure cautelari ai domiciliari nei confronti di otto dirigenti ed ex dirigenti del gruppo Riva, sia per quanto riguarda il sequestro di ben sei aeree dello stabilimento: cokerie, acciaierie, parchi minerali, area agglomerazione, area altiforni e gestione materiali ferrosi. Ovvero, il cuore pulsante dell'Ilva di Taranto. Ma in attesa del primo giorno del giudizio (ricordiamo che dopo il riesame si andrà in Cassazione), Fim, Fiom e Uilm, hanno deciso di giocare d'anticipo, proclamando uno sciopero di 24 ore per la giornata del 2 agosto, in cui si svolgeranno una manifestazione ed un'assemblea pubblica in città. Nella stessa giornata, a palazzo di Città, è prevista una seduta del consiglio comunale di Taranto che, in un ordine del giorno aggiunto all'ultimo momento, prevede anche la discussione sulla vicenda Ilva. Questo per quanto attiene alla cronaca delle proteste. Sul fronte giudiziario, i magistrati, ritenendo il sequestro degli impianti «inevitabile», non hanno alcuna intenzione di fare passi indietro. D'altronde, è oramai evidente a tutti che la storia dell'Ilva, da giovedì, è cambiata per sempre. Non soltanto per i pesantissimi provvedimenti richiesti dalla procura e autorizzati dal Gip Patrizia Todisco. Ma anche e soprattutto per la consapevolezza che, seppur lentamente, in questi giorni ha iniziato a farsi largo tra gli operai: che venerdì hanno sconfessato azienda e sindacati, dichiarando come siano stati i capi turno e i quadri insieme ai delegati sindacali, nel primo pomeriggio di giovedì, ad aprir loro le porte dello stabilimento invitandoli a bloccare la città, perché la magistratura aveva sequestrato gli impianti. Sequestro che sino al grado di giudizio della Cassazione, come hanno ribadito gli stessi magistrati, resterà solo sulla carta, non operativo. Pur sapendo ciò, azienda e sindacati hanno comunque forzato la mano, generando un panico diffuso che ha investito migliaia di operai e bloccato una città intera, portando la tensione alle stelle. Non solo. Perché sono stati gli stessi operai a chiedere spiegazioni, senza peraltro ottenerle, sul perché nella giornata di venerdì, mentre loro protestavano nelle strade per difendere il lavoro e quindi anche l'azienda, all'interno del siderurgico la forza lavoro rimasta abbia prodotto più di tutti gli altri giorni (22 colate, invece delle solite 18). A tutto questo però, c'è una risposta. La si trova nelle oltre 600 pagine del provvedimento del Gip. Che oltre a ribadire come l'azienda abbia agito dal '95 in poi inseguendo soltanto una «logica del profitto», nell'ordinanza applicativa delle misure cautelari degli otto dirigenti ora gli arresti domiciliari, motiva tali provvedimenti perché «in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità, realizzavano con continuità e non impedivano una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive nocive in atmosfera». I vertici Ilva - sempre secondo il gip - «operavano con continuità e piena consapevolezza una massiva attività di sversamento nell'aria di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale e omettevano di gestire in maniera adeguata impianti e apparecchiature idonee a impedire lo sversamento di una quantità imponente di emissioni nocive per la salute dei lavoratori». Attraverso - si legge ancora nel provvedimento di arresto «l'attività di sversamento delle sostanze nocive provocavano e non impedivano la contaminazione dei terreni ove insistevano diverse aziende agricole locali; provocavano e comunque non impedivano, omettendo di adottare gli opportuni accorgimenti, continui e permanenti sversamenti nell'ambiente circostante di minerali e polveri tali da offendere, imbrattare e molestare persone, in considerazione di una esposizione continua e giornaliera". Parole che pesano come macigni sulla proprietà della famiglia Riva e su politica e sindacati da sempre al sostegno dell'azienda, e mai davvero a protezione della salute di operai e cittadini e a difesa dell'ambiente pubblico.

 

Le spregiudicate alleanze di un patriarca a capo di un impero - Loris Campetti

Un padrone d'altri tempi, dunque un padrone d'oggi. Il sistema costruito nel dopoguerra è stato smantellato e la democrazia nelle relazioni sindacali sfuma rapidamente sotto l'influenza della filosofia di Marchionne, supportata da una politica commissariata. Per questo Emilio Riva, così antico da ricordare i padroni delle ferriere, è perfetto per il nuovo ordine. Il "rottamaio" lo chiamano, figlio d'arte di un mercante di rottami ferrosi. Tra ferro e ruggine Riva ha iniziato la sua carriera di padrone negli anni Cinquanta. Gran parte dei suoi 86 anni li ha passati accumulando ferro, acciaierie, soldi e rivolte popolari e oggi il suo è un vero impero industriale - tra i primi 5 in Europa e tra i primi dieci a livello mondiale - con fabbriche diffuse tra l'Italia, la Francia, la Germania, la Spagna... Emilio Riva prova fastidio per ogni forma sindacale, lui preferisce trattare direttamente con i "suoi" operai a cui non lesina pranzi, cene, piatti commemorativi in argento. Ma siccome l'Italia non è ancora come la vorrebbe lui, ecco che un qualche rapporto con i sindacati deve pur averlo. A modo suo, naturalmente. Mettendo a disposizione i suoi mezzi per organizzare rivolte, per esempio, come emerse nel corso del conflitto esploso a Genova con la popolazione di Cornigliano stufa di convivere con un altoforno e i suoi portati di morte, collocato nel cuore della città. Il nemico contro cui Riva cerca l'alleanza operaia e la complicità sindacale varia di volta in volta: le istituzioni locali, la popolazione, la magistratura. Io vi do lavoro, dice, e quelli lì ve lo vogliono togliere sbandierando problemi ambientali. Preferite l'aria pulita o lo stipendio sicuro a fine mese? Ha funzionato troppo a lungo questo ricatto, rafforzato dal tentativo di collusione con le organizzazioni sindacali. Molti - gente maligna - si sono interrogati per anni sulle straordinarie performances della Uilm nello stabilimento di Taranto e dei tanti giovani assunti con la tessera presto in tasca del sindacato di Luigi Angeletti. Ma si tratterà sicuramente di un caso oppure della grande capacità di proselitismo di questo sindacato. I fischi operai di venerdì al segretario generale della Uilm, Rocco Palombella e gli applausi a scena aperta a quello della Fiom, Maurizio Landini, rappresentano una novità che lascia sperare. Landini infatti sostiene che il nemico non è il magistrato, il padrone resta la controparte vera dei lavoratori. Tanto più che il padrone si chiama Riva ed è il responsabile, sia pure non unico, dei danni ambientali prodotti dai suoi rottami e del rischio di scontro tra chi lavora e chi muore d'inquinamento. Tanto più che tra le vittime di quell'inquinamento e di quelle condizioni di mancata sicurezza ci sono proprio loro, gli operai dell'Ilva. Anche se Riva è sempre pronto a pagare la costruzione dei Cral aziendali. Emilio è padre di una nutrita schiera di figlioli che stanno seguendo le orme del genitore e del nonno rottamatore. Anche se non sempre l'amore fraterno l'ha vinta sulla meschinità degli interessi, finché il padre ottantaseienne si manterrà in buona salute a comandare, in casa e in fabbrica, sarà sempre lui. Che distribuisce ruoli di responsabilità restando sempre in famiglia: Emilio Riva non ne vuole sapere dei manager presi da fuori. Si dice che a un passo dall'acquisto dell'Arcelor, multinazionale francese molto importante, Riva abbia mandato tutto a monte proprio per evitare l'eredità di manager esterni, dunque non graditi. Tornando alla collusione sindacale, c'è un aneddoto interessante raccontatoci da un operaio-sindacalista che con Emilio Riva ha avuto modo di incontrarsi e trattare: «Io facevo parte del Cae - il comitato aziendale europeo del gruppo industriale, di cui fanno parte rappresentanti dell'azienda e dei sindacati - e una volta per una riunione fummo trasferiti in pullman dall'azienda in una località dell'ex Ddr. Anzi, il pullman si fermò in un autogrill e io chiesi al capo del personale: che ci facciamo qui? E lui: la riunione, mica siamo in villeggiatura, però domani vi porto a mangiare a Berlino. Devo aggiungere che in pullman c'erano anche i nostri genovesi, con le mogli». Autoritario, paternalista, antimeridionale padano convinto a meno che non si tratti di principesse, come la sua seconda moglie etiope. Patriota della mitica cordata Alitalia messa su da Berlusconi, ma con amicizie impegnative a sinistra. Ovunque ha comprato aziende, da privati o approfittando come a Taranto delle privatizzazioni a perdere, cioè all'italiana, Emilio Riva ha portato la zizzania tra i lavoratori e le popolazioni esasperando le contraddizioni. Ritardi nelle modifiche dell'organizzazione del lavoro e nei risanamenti in nome del profitto (e del lavoro, diceva agli operai), salvo poi ammettere, come fece anni dopo la chiusura del ciclo a caldo a Cornigliano, che un impianto di quel tipo in piena città non aveva senso, come per altro avevano sempre sostenuto il comitato contro l'altoforno e le donne di Cornigliano. Un patriarca del capitalismo italiano che si incazza se lo chiami capitalista e non "imprenditore", meglio ancora "datore di lavoro"; un vero ufficio di collocamento per figli di primo e secondo letto e nipoti da cui pretende obbedienza cieca. Ecco chi è Emilio Riva, uno da cui sarebbe meglio tenersi alla larga.

 

Accordo Stato-Regione, il bluff delle bonifiche - Gianmario Leone

TARANTO - Dopo la ratifica avvenuta giovedì a Roma tra governo centrale, regionale e locale, in molti hanno intravisto nel Protocollo d'intesa per Taranto (il quale, almeno per ora, non è stato sottoscritto dal gruppo Riva), il primo passo da parte dello Stato e della politica di voler dare vita ad un processo di risanamento e bonifica del «Sito d'interesse nazionale del territorio ionico». Peccato però che le cose non stiano assolutamente così. Anzi. Per scoprirlo è bastato prendere visione del documento, che prevede un quadro complessivo di interventi di 336 milioni, così suddivisi: 119 mln di «interventi per bonifiche», 187 mln per «interventi portuali» e 30 mln per «interventi per il rilancio e la riqualificazione industriale». Di essi soli 7,2 mln a carico del privato, la Tcl, impresa cinese che gestisce parte del traffico container nel porto di Taranto. Dalle tabelle in cui vengono riportati i vari finanziamenti infatti, vien fuori una rendicontazione dei progetti da anni in itinere per lo sviluppo di Taranto e una serie di cifre prive di copertura economica a carico dello Stato. Dal Mar Piccolo ai Tamburi, dai dragaggi al potenziamento delle banchine del molo polisettoriale, vengono elencati una serie di interventi già annunciati o stanziati anni addietro. Ad esempio, nei 336 milioni sono stati conteggiati i 190 milioni stanziati per lo sviluppo del porto previsti dall'accordo firmato lo scorso 20 giugno alla presidenza del consiglio. Progetti come «l'adeguamento della banchina del molo polisettoriale per consentire i dragaggi fina a 16,5 metri, comprensivi di distribuzione elettrica e superamento interferenze (51 mln in tutto, 35 dei quali relativi ai fondi Fsc della Regione Puglia); la «banchina tratto verso radice di 800 m a 14,5, consolidamento banchina, rotaie lato mare 14 m' (15 mln a carico dell'Autorità Portuale); «Riqualificazione e ammodernamento della banchina e dei piazzali in radice del molo polisettoriale 23,5 (22 mln a carico dell'Autorità Portuale e 1,5 mln); «Ammodernamento vie di corsa lato terra 3,3 (3 mln a carico dell'Autorithy e 300 mila euro di Tct). Tutti interventi già approvati e frutto di accordi e protocolli sottoscritti alcuni dei quali addirittura nel 2009 e ratificati lo scorso mese. Altri concreti interventi previsti nel protocollo, non ce ne sono: i ministeri interessati hanno infatti «promesso» di introdurli nella prossima delibera Cipe. Ma per chi mastica la materia, si sa quanti anni di burocrazia debbano passare prima di riuscire ad ottenere tali finanziamenti. Basti pensare che proprio la prossima delibera Cipe dovrebbe prevedere lo stanziamento di 21 mln per la «bonifica e messa in sicurezza permanente dei sedimi contaminati da Pcb nel Mar Piccolo». Sito per il quale già nel 2006 ministero dell'ambiente, Regione Puglia e Provincia di Taranto avevano stanziato 36 mln poi spariti nel nulla (mentre da due anni i mitilicoltori vedono le loro cozze distrutte in discarica perché inquinate da Pcb e diossina oltre i limiti di legge). Di nuovo, in realtà, c'è ben poco: 8 mln previsti per la bonifica del quartiere Tamburi, il più esposto visto che le prime palazzine sorgono ad appena 200 metri dal siderurgico. Decisamente pochi se si fa riferimento ai 56 mln stanziati anni addietro dalla Regione per la bonifica del quartiere, poi destinati altrove, per finanziare progetti nella provincia di Brindisi. Per le risorse dirette, che ammontano a 60 mln, il protocollo non dice come saranno reperite. Nel documento si legge semplicemente «copertura da definirsi a carico dello Stato».

 

Torino 2. Mirafiori, il gigante senz'auto né parte - Gabriele Polo

TORINO - Dalla porta 2 sono scomparsi i banchetti degli ambulanti: niente più radioline, frutta e verdura, magliette o mutande. Se ne sono andati con i «clienti». E' in crisi anche il chiosco-bar in cui per anni si sono mescolati caffè, cornetti e volantini sindacali: rischia di chiudere insieme al colosso per cui aveva aperto. Resiste un anziano venditore di pile e batterie; è in pensione e arrotonda così. Ma solo quando di lì passa qualcuno, quattro-cinque volte al mese. Che, poi, sono i giorni in cui di lavoro per i 5.000 operai delle carrozzerie; da settembre saranno solo 2.500. Il dissanguamento di Mirafiori è segnato anche dalla scomparsa del piccolo commercio ai cancelli: vale pochissimi centesimi di Pil, qualcosa di più in termini simbolici. Trent'anni fa nella fabbrica più grande d'Europa ci «vivevano» 56.000 persone. Divise in tre turni orari, sfornavano più di 400.000 auto l'anno. Nel 1990 i lavoratori erano 40.000, continuando a produrre più o meno lo stesso numero di vetture. Altri dieci anni e, nel 2000, le presenze umane scendevano a 22.000, la produzione si perdeva nella crisi aziendale, l'annata migliore del XXI° secolo è stata il 2006 con 218.000 automobili. Un lungo declino, parallelo a quello della quota di mercato europeo del gruppo torinese: 14% a metà degli anni '80 (al secondo posto grazie al miracolo della Uno), 12% nel 1992, 7,5% dieci anni fa, 6,4% a giugno 2012 (e settimo posto in classifica). Una discesa spiegabilissima, perché oltre alla crisi economica globale e quella specifica dell'auto il Lingotto non sforna nuovi modelli da anni, con l'eccezione della nuova Panda, al massimo appiccica il logo Fiat o Lancia a rifacimenti Chrysler. Quando si perde il passo dell'innovazione di prodotto si resta tagliati fuori. Difficile recuperare, perché l'auto è un oggetto complesso, l'insieme di mille componenti e il frutto di tecnologie diverse. Per questo è industrialmente importante, chiede continua attenzione e alti investimenti, nonostante ogni singola vettura faccia guadagnare poco e sia una merce «vecchia» - almeno finché non si troverà il modo di renderla davvero ecologica, nelle dimensioni, nei materiali e nei propellenti. Oggi a Mirafiori ci sono circa 15.000 persone alle dipendenze della Fiat, tra impiegati e operai, tra «diretti» e «indiretti». Nel primo semestre 2012 sono state prodotte 25.000 vetture ma a fine anno non si arriverà a 50.000: il 20 luglio il Lingotto ha annunciato la fine della produzione di Musa e Idea, senza sostituirle con altri modelli, azzerando le già scarse ore di lavoro per 2.500 adetti: chiude una delle due linee residuali, dopo le ferie ripartirà - sempre a basso regime - solo la produzione della Mito. «Ma in officina - raccontano gli operai - si dice che i fornitori hanno ricevuto ordini solo per il mese di settembre, poi non si sa». Rabbiosi, pentiti, speranzosi. Insieme con gli ambulanti dai cancelli di Mirafiori se ne è andata anche l'opinione pubblica cittadina. Lentamente, un po' alla volta, proporzionalmente all'evaporazione della Fiat da Torino. Anche allegramente, pensando che quella fabbrica e quell'azienda fossero troppo pesanti, credendo di poter trovare altrove un'alternativa più divertente. Torino si è allontana dai quei cancelli e da quella memoria, badando al centro tirato a lucido e rimuovendo i «brutti ricordi» della company-town. La città turistica, la città olimpica, la città d'arte, la città evento nel 150° dell'Unità italiana... Ogni stagione ha trovato il proprio presente, uno qualunque, fuorché città-fabbrica. Soprattutto «quella» fabbrica. Che sfumava anche altrove, naturalmente, dai 150.000 addetti italiani dell'auto di trent'anni fa ai 60.000 di oggi. Ma qui la discesa è più ripida: per storia, per numero di stabilimenti chiusi, per le ripercussioni sull'indotto (per ogni lavoratore Fiat «esodato» ne scompaiano 3 o 4 dell'indotto), per lo spreco di conoscenze, per mancanza di alternative. E, così, tanti «presenti» non hanno fatto un futuro. Né per la città, né per le 35.000 persone che - tra auto, Iveco, centri ricerca e servizi vari - dipendono ancora dal Lingotto. Impoverimento è una parola quasi vietata nella città ufficiale, ma ben conosciuta tra chi è cresciuto a «pane e auto», anche se su sponde opposte e «nutrendosene» in modo diverso. Vale per i delegati della Quinta lega Fiom: «Con gli 800-900 euro della Cig non si fa molto, ma è il vuoto di prospettive che spaventa. Qui stanno smontando le linee - alcuni pezzi li hanno portati alla Bertone - senza sapere se e quando verranno montati gli impianti per produrre le Jeep promesse da Marchionne. Che, poi, quanti ne faranno - se li faranno - di questi Suv? Quanto lavoro daranno? Qui ci sono 15.000 lavoratori, con tutto l'indotto si superano i 60.000 occupati nel torinese: che si fa? Cassa integrazione in deroga fino alla pensione?». Edi Lazzi, Nina Leone e Pasquale Loiacono sono tutt'altro che rassegnati, ma una paralisi simile a Mirafiori non l'hanno mai vista. Più o meno la stessa sensazione provata da uno che viene dall'altra parte della barricata, come Maurizio Magnabosco, responsabile del personale alla Fiat-auto dei grandi conflitti sociali: «Mirafiori ha sempre catalizzato tutto ciò che gira attorno al mondo dell'auto. Dalla progettazione alla distribuzione significa un sacco di mestieri e conoscenze messe in discussione con il dissanguamento di questa fabbrica. Non si può immaginare una Torino senza industria, né un'attività automobilistica a prescindere dalla Fiat... certo che se non si riesce a essere competitivi nemmeno in una fabbrica come Melfi è dura pensare al futuro di Mirafiori e dell'intero gruppo. Dovrebbe essere un problema di tutti, il tema centrale di discussione per la città. Ma c'è qualcuno che riesce ancora a parlare con Fiat?». Giorgio Airaudo, segretario nazionale e responsabile auto per la Fiom, ci ha provato più d'una volta. L'ultima è finita con il referendum e lo scontro di due anni fa ai cancelli di Mirafiori. Ma non solo per quello è pessimista: «Prima di Marchionne c'erano sette modelli che giravano su cinque linee. Dopo l'estate avremo un modello - in esaurimento - su una linea, mentre la cassa integrazione ormai coinvolge anche la palazzina nei cui corridoi aleggia il fantasma di 1.500 esuberi tra tecnici e impiegati. Nel frattempo il quartier generale Fiat risiede in pianta stabile a Detroit, dove sono stati spediti anche un bel po' di ingegneri italiani. Mirafiori non è stata ancora del tutto chiusa per storia e per motivi d'immagine. Il rischio più concreto è di ritrovarci a Torino con un solo stabilimento dell'auto attivo, l'ex Bertone, una piccola Mirafiori da 1.500 addetti - "perfetta" per farci i Suv e consimili -, con quella originale a deperire verso il nulla. Per questo servirebbe un intervento politico». Auspicio che sembra anche una richiesta di ravvedimento rivolto a gruppi dirigenti che hanno sempre sposato, senza discuterla troppo, la linea del Lingotto. Dalle dismissioni alla destinazione delle aree industriali abbandonate, dalla riconversione in chiave finanziaria dell'azienda fino all'approvazione delle ultime ipotesi industriali (si fa per dire) retoricamente chiamate «Fabbrica Italia» e le relative ricadute sui lavoratori. Oggi l'ex sindaco Chiamparino non gioca più a scopone con Marchionne, invoca l'arrivo di capitale tedesco e sposa la «provocazione» lanciata dalla Fiom tifando per Wolfsburg alla conquista dell'Alfa. L'attuale primo cittadino Fassino si dice «non rassegnato alla scomparsa della Fiat da Torino, convinto che la stessa Fiat sia consapevole che abbandonando la città andrebbe incontro a un grave problema identitario e fiducioso che nel futuro della città l'auto ci sarà ancora». Di diverso avviso gli ambienti borsistici, quelli che hanno visto le azioni Fiat ondeggiare, dai 5,34 euro con l'arrivo di Marchionne ai vertici del Lingotto (giugno 2004) ai 23 euro dei primi anni - garantendo l'eterna gratitudine degli investitori attenti solo alle proprie commissioni - fino al precipizio dei 3,5 euro di oggi: «Se ragiono come un investitore finanziario - confessa un broker torinese che lavora a Milano - non c'è nessuno meglio di Marchionne. Se ragiono da torinese, nessuno è peggio di lui». Doppio e un po' schizofrenico, come Torino, che ignora la fabbrica ma continua ad appoggiarsi a chi la possiede, affidando - un po' per abitudine, un po' per scarsa fantasia - a quella proprietà e a quei dirigenti la possibilità di evitare una scomparsa troppo brusca. Decide tutto uno solo. La quotidianità che si vive dentro e attorno i 3 milioni di metri quadri della fabbrica torinese non spinge all'ottimismo. Né aiutano le dichiarazioni dell'amministratore delegato che un giorno sì e l'altro pure paventa la chiusura di uno o due stabilimenti in Italia. Mirafiori è il più vecchio di tutti (inaugurato da Mussolini il 15 maggio '39, in uno degli rari insuccessi di piazza del dittatore) e con l'anzianità del personale più elevata: facile immaginare quanti scongiuri si facciano da queste parti, mentre tra gli stabilimenti italiani è in corso la lotteria della sfiga: «Termini Imerese è andata. Restano Mirafiori, Cassino, Pomigliano, Melfi: a chi toccherà?». Forse a tutti un po' alla volta: come è successo al colosso torinese, dove c'è ancora tutto - meccaniche, presse, carrozzerie, enti centrali - anche se in misura sempre più piccola. Il problema è capire cosa vuole davvero fare l'uomo che siede - solo - al comando, visto che la frammentata famiglia di riferimento è unita solo dalla rendita, non scucirà un euro in difesa del motore, al massimo chiede prudenza e lentezza nelle dismissioni a Torino. Dipende tutto da Marchionne che ultimamente se la prende con Volkswagen perché ribassa troppo i prezzi (curioso per un «uomo del libero mercato»), maltratta un po' tutti e fa crescere il malumore anche tra i suoi fedelissimi che cominciano a dubitare del suo interesse per l'industria dell'auto. Eppure le sue intenzioni di fondo non sono così difficili da immaginare, variano «solo» nei particolari. L'obiettivo del manager italo-canadese con residenza in Svizzera è lanciare una Ipo (Offerta pubblica iniziale) per quotare a Wall Street un nuovo titolo - presumibilmente chiamato Chrysler - in cui portare tutta Fiat spa (rinviando al «dopo» la vendita dell'Alfa a Volkswagen), attirando investitori e valorizzandolo per una ventina di miliardi di dollari, utili a saldare i debiti con i sindacati americani e i prestiti bancari fatti per restituire i soldi che Obama gli aveva anticipato per resuscitare il marchio di Detroit. Poi potrà monetizzare il proprio lavoro, valutarlo tra i 200 e i 300 milioni di dollari, incassare e... andarsene altrove. Per far questo non ha moltissimo tempo (due anni), la crisi dell'auto non l'ha aiutato e - soprattutto - per raccogliere la fiducia degli investitori a Wall Street deve alleggerire il peso degli stabilimenti italiani. Ma evitando traumi, infondendo la sicurezza di chi ha il pieno controllo della situazione, dissanguando progressivamente le fabbriche con accordi che vincolino l'occupazione all'andamento del mercato. Dando l'impressione di governare un ridimensionamento, non una dismissione. Per Mirafiori - e non solo - sarebbe una lunga agonia e una morte certa dopo la quotazione a Wall Street. Non è un esito scontato, anche se in questi anni Sergio Marchionne non ha dovuto fare molte mediazioni. Potrebbero costringerlo - almeno a render conto e a rispettar le leggi - la politica e il governo italiano. Non fossero quel che sono. Altrimenti il futuro è nella parabola di un vecchio torinese, ex operaio Fiat: «Negli anni '70, in via Po c'era un negozio di un certo Gabbai, vendeva abiti fallati e due volte l'anno lanciava una chiassosa campagna al di grido di "Oplà, Gabbai, vendo tutto e mi ritiro". Vendeva tutto ma non si ritirava mai. Poi un giorno - dopo le ferie d'agosto - oplà, il negozio non riaprì più. Lui scomparve. Temo che la Fiat finisca così».

(2-continua)

 

L'oblìo di Genova - Lorenzo Guadagnucci*

Ora che la Cassazione ha detto parole definitive su due delle tre principali inchieste seguite al G8 di Genova del 2001, è davvero il tempo di tracciare un bilancio e di porsi, soprattutto, una domanda: servono a qualcosa queste sentenze? Diciamo subito che il bilancio è in chiaroscuro e lascia una forte sensazione di ingiustizia. Da un lato c'è una sentenza storica, con altissimi dirigenti della polizia di stato condannati in via definitiva per reati assai gravi, come il falso e la calunnia, e colpiti da un'interdizione quinquennale dai pubblici uffici, un'onta che comporta per loro l'interruzione di carriere che parevano inarrestabili. Dall'altro lato ci sono le abnormi condanne inflitte a dieci imputati chiamati a rispondere di un reato che somiglia a un bazooka giudiziario: devastazione e saccheggio, punito dal codice con un minimo di otto anni e un massimo di quindici, anche se le azioni giudicate non implicano, come nel caso specifico, né danni subìti né rischi corsi da persone. Non sfugge a nessuno, per com'è nata e com'è stata condotta l'inchiesta, che i dieci cittadini arrivati al giudizio di terzo grado (inizialmente erano 25) sono davvero dei capri espiatori: stavolta non è un'iperbole o un escamotage difensivo, ma la cruda realtà dei fatti. Si tratta di dieci persone prese nel mucchio e raggiunte da pene esemplari, che quasi stordiscono per la sproporzione sia rispetto ai fatti sia rispetto alle pene inflitte ad agenti e funzionari per le violenze e i falsi alla Diaz e per i maltrattamenti sui detenuti nella caserma di Bolzaneto (44 condanne in appello, quasi tutte già prescritte in attesa della Cassazione). Sono sentenze dirompenti, che dicono molte cose sullo stato della democrazia reale nel nostro paese. Indicano la drammatica urgenza di una vasta azione riformatrice. L'agenda dei provvedimenti che un potere politico avveduto e d'ispirazione democratico-costituzionale dovrebbe mettere subito in agenda, è presto fatto. 1) Legge sulla tortura, addirittura invocata nero su bianco dai giudici del caso Bolzaneto, che sono stati costretti ad inquisire agenti e medici penitenziari sulla base di figure di reati minori, che hanno infatti portato a pene lievi e prescritte. 2) Obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare su caschi e divise codici di identificazione: la loro assenza ha permesso ai picchiatori entrati in azione alla Diaz di sfuggire - tutti . all'inchiesta giudiziaria. 3) Nuova smilitarizzazione della polizia di stato, ufficialmente avvenuta con la riforma del 1981, ma ormai vanificata nella realtà concreta. 4) Istituzione di un'autorità indipendente di tutela dei diritti umani: polizia, carabinieri e le altre forze dell'ordine hanno dimostrato di non essere trasparenti né dotate di strumenti efficaci di verifica dei propri comportamenti ed errori. 5) Abolizione del reato di devastazione e saccheggio, concepito nell'ottocentesco codice Zanardelli e «valorizzato» nel codice Rocco dell'epoca fascista con evidenti quanto inaccettabili finalità di punizione politica dei dissidenti. Sono interventi necessari e anche possibili, nonché premessa logica per una più vasta e radicale riforma democratica delle forze dell'ordine. Ma sono interventi che non sono in agenda per nessuna forza politica parlamentare. All'indomani delle sentenze, abbiamo avuto il silenzio della politica, rotto solo da poche incerte voci. Un paio di dirigenti del Pd hanno ripescato dal proprio passato l'idea di istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sul G8 genovese. Quasi un pezzo di antiquariato. La ricerca di responsabilità politiche per quanto accaduto nel luglio 2001, si dirà, è ancora attuale, ma la domanda a questo punto è un'altra: vogliamo o non vogliamo trarre intanto le conseguenze dalle responsabilità già accertate? A che serve rilanciare l'improbabile istituzione della commissione bocciata nella scorsa legislatura, se prima non si fa tesoro degli insegnamenti che arrivano dalle sentenze e dai fatti storici accertati? Chi sta in parlamento, semmai, dovrebbe fare un esame di coscienza e dire se è politicamente accettabile sostenere con i propri voti la permanenza al governo del sottosegretario Gianni De Gennaro, oggi plenipotenziario della sicurezza nel nostro paese, ma all'epoca responsabile dell'ordine pubblico di un evento che passerà alla storia come il più grave disastro di polizia degli ultimi decenni. Il sottosegretario De Gennaro ha commentato la sentenza Diaz con parole di rara impudenza: ha detto di condividere il dolore delle vittime, pretendendo di essere preso sul serio. A undici anni dai fatti e all'indomani di un giudizio di Cassazione, è una condivisione del dolore così grottesca che personalmente la rifiuto e la considero un'offesa personale. Il sottosegretario De Gennaro ha poi speso importanti parole di solidarietà per i dirigenti di polizia condannati, tutti suoi stretti collaboratori, dimostrando di non saper distinguere i sentimenti personali dal ruolo pubblico ricoperto, un ruolo che richiederebbe ben altro comportamento, ossia scuse solenni, toni umili, dimissioni immediate. Mi chiedo, a undici anni dal celebre intervento dell'onorevole Massimo D'Alema alla Camera dei deputati, durante il quale parlò di «notte cilena» alla scuola Diaz, che cosa sia rimasto in parlamento di quella sensibilità politica, di quel senso di indignazione di fronte alla violenza del potere, che avevano scosso le coscienze di centinaia di parlamentari. La triste verità è che siamo alla paralisi politica, all'incapacità anche culturale di intervenire su materie delicate che hanno a che fare con l'esercizio concreto del diritto al dissenso e alla partecipazione democratica. C'è una cultura dei diritti da ricostruire, mentre montano nel paese e nel resto d'Europa le tentazioni autoritarie, di fronte a una crisi economica pervasiva e a un'evidente perdita di consenso della classe politica attuale. Non si tratta più, a questo punto, di chiedere giustizia per il G8 del 2001, ma di costruire regole e prassi migliori, dimostrando di avere appreso la lezione di Genova. Legge sulla tortura, codici di riconoscimento, smilitarizzazione, revisione del codice penale, istituzione per i diritti umani devono diventare un pacchetto di riforme antiautoritarie, sottoforma di petizione e leggi di iniziativa popolare, sorretto dalla mobilitazione della società civile. Sindacati, grandi e piccole organizzazioni non possono più nascondersi o fingere di credere che il caso Genova G8 sia una vicenda a sé, scollegata dal futuro della nostra vita pubblica. Sono in ballo i diritti civili e politici che costituiscono l'architrave di una società che voglia ancora dirsi democratica. L'uso sproporzionato della violenza e anche l'utilizzo del codice penale a mo' di clava stanno diventando prassi quotidiana: per averne una palese dimostrazione basta gettare lo sguardo verso la Val di Susa oppure osservare quel che è avvenuto ai manifestanti del 15 ottobre 2011, ai terremotati dell'Aquila in corteo a Roma, ai militanti finiti nella retata guidata dal generale Ganzer (gravato da una condanna a 14 anni in primo grado e tuttavia mantenuto in servizio) e a numerose proteste operaie e studentesche. Per non dire dell'impiego di forze militari per fronteggiare la protesta sociale (è accaduto in Grecia) e di certe leggi liberticide di cui si comincia a parlare in vari paesi d'Europa. Sono tutti esercizi di democrazia autoritaria che vanno contrastati senza indugi. Va costruita con urgenza una coalizione sociale in grado di lanciare una campagna permanente di tutela dei diritti politici e sociali. Scopriremo presto se saremo all'altezza di questo compito. Nel frattempo qualcuno si faccia avanti. Perché - diciamolo - anche la cosiddetta società civile è stata fin troppo timida e silenziosa (salvo poche eccezioni) di fronte alle clamorose sentenze di Cassazione. Non è più tempo di attendere.

*Comitato Verità e Giustizia per Genova

 

La bandiera olimpica in mano ai militari  - Manlio Dinucci

Possano le Olimpiadi essere «un momento di rinnovata amicizia in cui forgiare la pace»: così l'arcivescovo di Westminster ha salutato gli atleti giunti a Londra da tutto il mondo. Proprio per rappresentare questo spirito, nella cerimonia di apertura il governo di Sua Maestà britannica ha fatto issare la bandiera olimpica con i cinque cerchi, simbolo di pace, da una squadra di 16 militari britannici, scelti tra quelli maggiormente distintisi nelle ultime guerre. A capo della squadra, comprendente militari delle tre armi, Tal Lambert,  responsabile delle comunicazioni delle basi aeree Lyneham e Brize Norton, impegnate l'anno scorso nella guerra alla Libia. Tra gli altri membri della Raf, il sergente Raval, distintosi nelle guerre dei Balcani e dell'Iraq. Tra quelli della marina e dei marines, l'ufficiale Hiscock, insignito della Queen's Gallantry Medal per le sue azioni nell'invasione dell'Iraq. Tra quelli dell'esercito, il sergente Reains distintosi nei combattimenti in Iraq e quindi Afghanistan, dove è stato ferito, e il caporale Rainey, con alle spalle due pericolose missioni in Afghanistan. Far issare ai militari non solo la bandiera britannica ma anche quella olimpica è stato un gesto altamente simbolico: la riaffermazione che le forze armate del Regno Unito e degli altri paesi Nato non conducono guerre di aggressione, ma operazioni di pace nell'interesse dell'intera umanità. Grave il fatto che il Comitato olimpico internazionale abbia autorizzato tale scelta, che andrebbe vietata in qualsiasi paese si svolgano le Olimpiadi. Altrettanto grave che lo abbia ignorato la stampa internazionale, presente a Londra con migliaia di giornalisti. Impegnati a descrivere il cappello indossato da Sua Maestà, al momento in cui la bandiera olimpica è stata issata dai militari che rinnovano le glorie dell'impero britannico.

 

Oltre 500.000 Mapuche scendono in piazza contro la repressione - Geraldina Colotti

Oltre 500.000 mapuche - il più numeroso fra i popoli nativi del Cile- hanno manifestato ieri a Santiago per protestare contro le brutalità dei carabineros nella regione dell'Araucania (nel sud del paese). Una manifestazione pacifica che, però, ancora una volta la polizia ha caricato con violenza e che è stata dispersa tra scontri e feriti. Lunedì scorso, oltre 200 carabinieri in tenuta antisommossa hanno sparato contro i mapuche (un'ottantina) che avevano occupato delle terre in Araucania. Tra i feriti, anche quattro ragazzini. Le loro immagini hanno fatto il giro del mondo provocando le proteste dell'Unicef, che ha condannato gli atti di violenza contro i minori. L'agenzia delle Nazioni unite per l'infanzia ha anche contestato le affermazioni delle autorità cilene le quali, per difendere i carabineros, hanno sostenuto che le famiglie mapuche usano i bambini come scudo umano durante le operazioni di polizia. Un'affermazione rifiutata con sdegno dalle donne native che hanno organizzato un presidio davanti alla sede dell'Unicef a Santiago proprio per denunciare gli abusi compiuti sui minori dai carabineros. Nelle ultime settimane, gli episodi violenza nelle zone mapuche sono aumentati. I nativi, che vivono in situazione di povertà estrema, chiedono di tornare sulle loro terre ancestrali. Ricordano che, nel 1641, l'Araucania venne riconosciuta ufficialmente dalla Spagna come un territorio autonomo mapuche, a seguito della valorosa resistenza dei nativi, decisi a salvaguardare la propria indipendenza. Il 95% di quel territorio autonomo di 10 milioni di ettari verrà colonizzato dalla giovane nazione cilena tra il 1818 e il 1883: per mezzo delle armi e di una politica di assimilazione che rendeva obbligatoria la nazionalità cilena e autorizzava l'occupazione delle terre mapuche. Durante la dittatura militare (1973- 1990) i mapuche vennero falcidiati dalla repressione. Intere comunità contadine furono torturate e assassinate. Il regime militare abolì tutte le organizzazioni che consentivano ai nativi di partecipare alle decisioni sul loro futuro. La Confederación Nacional de Mapuche fu proibita subito dopo il golpe, i leader arrestati o costretti all'esilio. Nei primi mesi della dittatura, l'80% dei detenuti nella prigione di Temuco, il principale centro cittadino della regione dei mapuche, era costituito da questa popolazione. Con il governo di Salvador Allende, spazzato via da Pinochet, molti mapuche avevano usufruito della riforma agraria recuperando, fino al '72, circa 700.000 ettari di terre. Un risultato conquistato con l'occupazione di terre appartenenti ai latifondisti da parte delle comunità. Nel settembre '72, una legge del governo Allende garantì ai mapuche alcuni diritti fondamentali sanciti dalla costituzione, fra cui la restituzione dei diritti sulla proprietà della terra perduta e l'insegnamento nella lingua madre Mapudungun (comunque con un ruolo asimmetrico rispetto allo spagnolo). Ma quella legge è stata spazzata via insieme alla costituzione, sostituita da quella imposta da Pinochet negli anni '80 - ancora in vigore - che dà mano libera alle grandi imprese private sui beni comuni del paese. Dalla metà degli anni '90, i mapuche hanno intensificato la lotta contro latifondisti, imprese agricole e forestali, subendo arresti e condanne smisurate comminate in base alle leggi antiterrorismo, rimaste le stesse dai tempi della dittatura. Oggi, contro i mapuche, il presidente-miliardario Sebastian Piñera (di destra) usa le pallottole e il carcere, ma anche la retorica: «Con loro abbiamo un debito, dobbiamo dargli più lavoro, educazione, salute», ha detto al termine di una riunione sulla sicurezza convocata dopo il ferimento dei ragazzini. Ma non a quella piccola minoranza «che non rispetta niente», ha aggiunto.

 

La Stampa - 29.7.12

 

I tedeschi: "La Spagna non ha bisogno di altri piani" - Alessandro Alviani

BERLINO - La Bce e il fondo salva-Stati Efsf non acquisteranno titoli spagnoli, Madrid non ha bisogno di un nuovo pacchetto di aiuti. Alla vigilia dell'atteso incontro di domani col suo collega statunitense Timothy Geithner, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble smentisce sulla Welt am Sonntag le indiscrezioni stampa secondo cui Bce e Efsf si preparerebbero, d'intesa con gli stati dell'Eurozona, ad acquistare i Bonos per abbassare i costi di rifinanziamento di Madrid. «In queste speculazioni non c'è nulla di vero», ha risposto Schäuble alla domanda se la Spagna presenterà presto una richiesta affinché l'Efsf compri i suoi titoli. Il pacchetto di aiuti già concordato per ricapitalizzare le banche spagnole è «abbastanza grande», inoltre il fabbisogno finanziario a breve termine della Spagna «non è alto». Schäuble si è detto convinto che gli sforzi della Spagna saranno ricompensati dai mercati. Il governo spagnolo ha preso tutte le decisioni necessarie e «va rispettato», perché si tratta di passi impopolari. «I mercati non onorano ancora queste riforme, ma ciò arriverà», la fiducia si riconquista lentamente. La decisione di Moody's di tagliare l'outlook della Germania «è sbagliata», ma «i mercati non prendono più molto sul serio le agenzie di rating», ha aggiunto Schäuble. Il quale ha definito «conti campati per aria» quelli dell'istituto Ifo secondo cui un default della Grecia costerebbe meno a Berlino se avvenisse fuori dall'Eurozona. Domani Schäuble vedrà Geithner sull'isola di Sylt, sul Mare del Nord, dove il ministro tedesco è in vacanza. Un colloquio di un'ora e mezza. Per motivi organizzativi non ci sarà la conferenza stampa inizialmente prevista, ma solo una nota scritta attesa per il pomeriggio. In serata Geithner vedrà a Francoforte Mario Draghi, il quale ieri è stato criticato dal vice cancelliere e ministro dell'Economia Philipp Roesler. «La Bce deve restare indipendente», il suo compito centrale è mantenere la stabilità monetaria, non finanziare i debiti pubblici, ha detto Roesler, che ha anche accusato il governo greco di non aver fatto le riforme promesse. Se Atene non rispetta gli accordi non ci saranno nuovi aiuti, per cui a quel punto sarà insolvente, ha spiegato. Sulla sua linea il vice capogruppo della Cdu, Michael Fuchs, secondo cui è impossibile salvare la Grecia. Intanto un sondaggio condotto per la Bild am Sonntag rivela che per il 71% dei tedeschi Atene dovrebbe lasciare l'Eurozona se non mantiene le promesse. Inoltre la maggioranza dei tedeschi (il 51%) è convinto che la Germania starebbe meglio senza l'euro; appena il 29% pensa il contrario. Rischia insomma di svanire nel nulla l'appello lanciato sulla Bild dal ministro spagnolo per gli Affari europei, Inigo Mendez de Vigo. Quanto succede in Germania è «molto pericoloso», si ha l'impressione che alcuni vogliano provocare a parole un default di Atene, se si continua così l'Eurozona andrà presto in pezzi, ha detto Mendez de Vigo. Berlino, ha aggiunto, dovrebbe mostrarsi più solidale: non dovrebbe dimenticare che dopo la seconda guerra mondiale venne aiutata parecchio.

 

Sos della Cgia: "Centocinquantamila negozi a rischio chiusura nel 2012"

MILANO - C'è una bomba ad orologeria sotto i negozi commerciali e le botteghe artigiane italiane: è il boom dell'aumento degli affitti che può essere innescato, in fase di rinnovo dei contratti di locazione, dalla nuova Imu. Se deflagherà, afferma la Cgia di Mestre, entro la fine del 2012 potrebbero essere 150mila le attività che abbasseranno le serrande. Intanto gli artigiani di Mestre, guidati da Giuseppe Bortolussi, hanno stilato la lista degli affitti mensili più cari pagati da negozianti e artigiani. Gli aumenti più importanti, tra il 2001 e il 2011, sono stati nei centri storici di Bari e Genova, rispettivamente con +89,1% e +70,1%, seguite da Torino (+57,4%) e Roma (+53,4%). Ma in termini assoluti, il top del canone medio mensile spetta a Venezia: 7.228 euro in centro, 1.794 in periferia. La Cgia - che ha elaborato dati Nomisma, Agenzia del Territorio e Istat - segnala che le cose non sono andate meglio in periferia, Negli ultimi 10 anni gli affitti per i piccoli commercianti e gli artigiani sono saliti dell'82,6% a Bari, del 57,8% a Torino, del 48,4% a Roma, del 48,1% a Genova e del 46,7% a Cagliari. Vistoso lo scarto, in negativo, con l'inflazione media nazionale, cresciuta nel periodo del +24%. «Noi stimiamo - osserva Bortolussi - che in Italia almeno 2 negozi/botteghe artigiane su 3 siano in affitto. È vero che in questi ultimi 2-3 anni c'è stato una leggero calo del prezzo degli affitti, tuttavia se sommiamo gli aumenti avvenuti negli ultimi 10 anni dei canoni di locazione, delle tasse locali e delle utenze, il peso dei costi fissi a carico dei piccoli negozianti e degli artigiani è diventato insopportabile». Per Bortolussi, quindi, non è da escludere che con la crisi che prosegue, il costante calo dei consumi e la concorrenza sempre dilagante della grande distribuzione, «almeno 150.000 piccole aziende commerciali ed artigianali siano costrette a chiudere i battenti entro il 2012». A confermare la situazione di difficolta delle micro imprese del commercio e dell'artigianato ci sono anche i dati raccolti dell'Istat: tra il 2005 ed il 2011 l'indice delle vendite del commercio fisso al dettaglio è diminuito del 4,7%, mentre le vendite della grande distribuzione sono aumentate del 6,6%. Ma per la Cgia c'è un altro problema che si presenterà nei prossimi mesi: «Con l'avvento dell'Imu - sottolinea Bortolussi - i proprietari di negozi e di laboratori artigiani hanno subito, rispetto il 2011, aumenti medi di imposta del +75%. È molto probabile che in sede di rinnovo dei contratti di locazione i proprietari di questi immobili si rivarranno sui conduttori, chiedendo un forte ritocco all'insù degli affitti». E si parte già da una situazione di super-canoni: un negozio/laboratorio in centro a Venezia, con una superficie media che nella città lagunare si aggira attorno ai 75 mq, costa un affitto mensile medio di 7.228 euro, seguono Roma (superficie media pari a 78,5 mq circa), con 4.133 euro e Milano (68 mq circa), con 3.099 euro.

 

Due test per le forze politiche - Luca Ricolfi

Sono fra i pochi italiani che non sognano di presentare una propria lista alle prossime elezioni politiche, e proprio per questo mi sento più libero di osservare le liste altrui. Che da un po' di tempo pullulano un po' ovunque, e rendono difficile orientarsi in vista della prossima scadenza elettorale. Prevista da alcuni per aprile 2013 (fine naturale della legislatura), da altri già per il novembre prossimo (elezioni anticipate). Anche limitando l'attenzione alle liste meno improbabili o improponibili, l'elenco è già piuttosto lungo: Movimento Cinque stelle (Grillo), Italia Futura (Montezemolo), Grande Sud (Miccichè e Poli Bortone), Sel (Vendola), lista Monti, lista Tremonti, lista Passera, lista Berlusconi, lista Giannino, lista Scalfari. Senza contare le liste già evaporate del Terzo polo (Fli, Api), o le molte liste che potrebbero travestire o incorporare i vecchi partiti. Dalle parti di Berlusconi, ad esempio, si parla di un nuovo nome per il Pdl («Vola Italia»?), e di un nuovo simbolo (l'aquilone); dalle parti di Casini si è spesso parlato di un contenitore per i cosiddetti moderati più ampio dell'Udc (il «Partito della Nazione»); dalle parti di Di Pietro e della Lega si cercano stratagemmi per non sparire: a Di Pietro piacerebbe essere, diciamo così, «ospitato» dal movimento di Grillo, Maroni ha già fatto togliere il nome di Bossi dal simbolo della Lega; il Pd sembra tentato dalla vecchia formula degli «indipendenti di sinistra», che questa volta potrebbe essere riesumata o candidando al Parlamento rappresentanti della società civile, o collegandosi a una lista civica (lista Scalfari?), o facendo entrambe le cose. Insomma, la confusione è grande, e il non sapere con che legge elettorale si voterà non fa che aumentare la confusione stessa. Una confusione che è amplificata dai sondaggi che gli aspiranti leader di nuove liste commissionano ai sondaggisti. L'argomento è un po' tecnico, ma vale la pena ugualmente accennarvi con un esempio. Un nuovo leader X commissiona all'istituto demoscopico Y un sondaggio per sapere quanti italiani sarebbero seriamente intenzionati a votare la sua nuova lista Z. Il sondaggista, raggiante, gli comunica: ben il 12%. Il nuovo leader presenta la sua nuova lista e, inaspettatamente, prende il 4% scarso, senza nemmeno passare la soglia di sbarramento. Che cosa è successo? Il sondaggista ha preso una cantonata? No, semplicemente è successo che alle elezioni si sono presentate altre due liste affini alla lista Z - chiamiamole Z1 e Z2 - e tutte e tre insieme si sono spartite il 12% delle nostre intenzioni di voto, intercettando rispettivamente il 4% (lista Z), il 3% (lista Z1), il 5% (lista Z2). In breve, voglio dire che il successo elettorale di un partito non dipende tanto dal suo indice di gradimento, ma dal tasso di affollamento della regione dello spazio politico che intende occupare. Sicché, se non si sa ancora chi parteciperà al voto, gli esiti dei sondaggi possono risultare molto fuorvianti. Dunque il vero problema, per le prossime elezioni, sarà di capire come sarà fatto lo spazio politico e chi lo occuperà effettivamente, visto che ci saranno molte sigle nuove, e nello stesso tempo tante sigle spariranno o finiranno per restare sulla carta. In attesa di sapere chi si presenterà davvero, possiamo cercare di capire come sarà fatto lo spazio politico e che tipo di forze proveranno a occuparlo. Un modo per capirlo, a mio parere, sarà di sottoporre ogni forza politica, vecchia o nuova che sia, a due test, che chiamerò zattera-test e Monti-test. Il primo è un test, per così dire, sociologico. Si tratta di capire, scorrendo l'elenco dei candidati e le loro posizioni nelle graduatorie interne dei partiti, se la lista è una lista-zattera oppure no. Per lista-zattera intendo una lista concepita prevalentemente per traghettare nel nuovo Parlamento persone che, pur avendoci malgovernato per decenni, non intendono rinunciare alla carriera politica, o perché ne hanno assoluto bisogno (rinviati a giudizio e condannati più o meno definitivi), o perché non saprebbero cosa altro fare nella vita, o perché si ritengono indispensabili, insostituibili o, come amano dire quando parlano di se stessi, si sentono «una risorsa per il paese». Non è difficile costruire un tale test, studiando la composizione per età, genere, anzianità parlamentare e status penale dei candidati che ogni partito mette in pole position. Perché mentre è verissimo che un singolo non può essere escluso o demonizzato solo perché è maschio, ultrasessantenne e magari ha fatto 4 legislature, lo stesso discorso non vale per un partito che è pieno zeppo di persone con quel tipo di profilo. E' facile prevedere che, alle prossime elezioni, molte liste non passeranno lo zattera-test. Non solo, ma è estremamente probabile che il sistema con cui si voterà sarà comunque - sotto questo profilo - molto simile a quello attuale, proprio per consentire ai partiti di gestire le progressioni di carriera dei loro membri senza la fastidiosa interferenza dei cittadini-elettori. E' per questo che, a parole, tutti i partiti sono contro il porcellum, ma poi - quando si tratta di sostituirlo - si sbizzarriscono in proposte che conservano la loro «quota di porcellum», ossia la possibilità di assicurare l'elezione ai candidati scelti dal partito. Il secondo test, invece, è di natura strettamente politica. Alle prossime elezioni, lo si voglia o no, il metro fondamentale con cui dovremo misurarci sarà quel che ha fatto il governo Monti. Destra e sinistra c'entreranno poco, per il buon motivo che - quando sono state al governo - hanno entrambe fatto molto meno di quel che si sarebbe dovuto fare per evitare il declino dell'Italia. Sicché, alla fine, io vedo solo quattro posizioni di fondo, e quindi quattro esiti possibili di un Monti-test applicato a una forza politica. Provo a esporle sinteticamente, su una scala crescente di «montismo». Posizione A (anti-montiani). Monti ha fatto male, troppe tasse, troppa macelleria sociale. L'Europa e la Merkel ci strangolano. Non possiamo escludere un ritorno alla lira. Qui si ritrovano il Movimento Cinque Stelle (Grillo), la Lega Nord (Maroni), L'Italia dei valori (Di Pietro) e in parte Sel (Vendola). Posizione B (montiani semi-pentiti). Monti ha fatto bene, ma noi avremmo fatto un po' diverso, ossia meglio. E' la posizione comune di Pdl e Pd, che si differenziano fra loro solo per quel che di leggermente diverso avrebbero fatto. Questo «leggermente diverso» significa meno tasse per il Pdl, meno riduzioni di spesa pubblica per il Pd. In buona sostanza significa un po' meno rigore sui conti pubblici, anche se a spese di ceti sociali diversi (il Pdl a spese dei dipendenti pubblici, il Pd a spese delle partite Iva). Posizione C (montiani puri). Monti ha fatto il massimo, bisogna continuare con l'agenda Monti. Solo Monti ha l'autorevolezza per difendere gli interessi italiani di fronte all'Europa. Il cammino delle riforme va proseguito con determinazione. Qui troviamo l'Udc (Casini), i montiani del Pd (ad esempio Pietro Ichino), nonché - ovviamente - il variegato mondo delle liste-Monti più o meno esplicite (lista Passera?). Posizione D (oltre-montiani). Monti ha fatto bene, ma poteva e doveva fare molto di più. Più liberalizzazioni e alienazioni del patrimonio pubblico, più spending review, meno tasse sui produttori. In breve, si tratta di essere più montiani di Monti. Più che continuare con l'agenda del Monti-politico, andare avanti con l'agenda del Monti-studioso, del Monti commissario-europeo, del Monti editorialista del Corriere della sera. Qui troviamo la massima concentrazione di liste nuove: la lista Giannino (presentata ieri), la lista Montezemolo, una eventuale lista Marcegaglia, forse le minoranze liberal-liberiste di Pd e Pdl. Dunque il materiale per cominciare a riflettere non mancherebbe. E sarebbe bene cominciare a farlo al più presto perché, altrimenti, il rischio è che alle prossime elezioni succeda quel che succede sempre. E cioè che ognuno voti il leader o il partito che gli sta più simpatico (o meno antipatico), senza avere un'idea precisa delle conseguenze di quel voto sul futuro dell'Italia. Fino a ieri potevamo - forse - permetterci questo lusso, oggi non più.

 

Londra ci indica la ricetta per ripartire - Mario Calabresi

Può una nazione in crisi permettersi ancora di sognare? Può, guardando al proprio passato e alle difficoltà che ha superato, provare a pensare di avere un futuro? Può concedersi il lusso di prendersi in giro, di ironizzare sui suoi simboli, e nonostante questo sentire forte l'orgoglio di appartenere ad una comunità? La serata che ha aperto le Olimpiadi ci ha risposto di sì: è possibile e il Paese che ci riesce ha trovato la strada per uscire dal buio. Perché la Gran Bretagna è una nazione in crisi, che vive la peggiore recessione da 50 anni, costretta a tagli drastici a causa di un mondo che sta cambiando drammaticamente scenari e certezze. Ma nello spettacolo inaugurale il regista premio Oscar Danny Boyle ci ha ricordato che non è la prima volta che il mondo rivoluziona vite, professioni e sicurezze, che cambia completamente il panorama di fronte agli occhi, ha giocato con le nostre paure, gonfiandole per poi lasciarle volare in cielo, tranquillizzandoci con le favole che si leggono ai bambini. Quei bambini che saltano su un letto di ospedale siamo noi, impauriti, convalescenti, ma che dovremmo ritrovare il coraggio di fare una capriola, di vedere il mondo da un altro punto di vista. Nel quartiere dove è nato lo stadio olimpico il 40 per cento dei giovani è disoccupato, la rabbia e il malcontento li abbiamo visti sfogati nelle strade. Potrebbe sembrare un affronto costruire un gigantesco evento sportivo da quasi dieci miliardi di euro proprio lì, proprio di questi tempi, ma uscendo dalla metropolitana di fronte al Parco olimpico ci si rende conto di cosa significhi investire, scommettere, costruire opportunità. Un quartiere in stato di abbandono è stato completamente rivitalizzato e cinque aree tra le più depresse di Londra hanno cambiato faccia, sono state rifatte infrastrutture, stazioni, strade e canali. Ma ci sono almeno tre cose, che vanno ben al di là delle ricette economiche o degli investimenti, che mi porto a casa da Londra, che dovremmo tenere a mente se vogliamo provare a rialzarci. La prima è l'orgoglio per la propria storia, alta o bassa che sia, si possono mescolare Shakespeare e Harry Potter, i Pink Floyd e Mr. Bean, la rivoluzione industriale e Mary Poppins senza avere paura di perdersi. Se si ha un'identità forte allora si può tenere tutto insieme, la cultura alta e quella pop, senza bisogno di mostrarsi tronfi, seriosi, retorici o pesanti. Che bella lezione di leggerezza, come la intendeva Italo Calvino, quella capacità di essere liberi senza scadere nella superficialità. La seconda è l'ironia o, ancora meglio, l'autoironia, vero antidoto al cinismo che si mangia ogni passione, ogni possibilità di riscatto. Se poi a prestarsi al gioco è una vecchia regina, che ha appena festeggiato i suoi sessant'anni sul trono, allora l'effetto è contagioso. Noi italiani sembriamo non conoscere questo registro, o siamo comici o tragici, per sdrammatizzare le cose pensiamo che sia possibile solo rivolgersi al grottesco o nel peggiore dei casi fare i buffoni. Si può invece scherzare anche sui propri simboli senza per questo scadere nel dileggio e nell'insulto. La terza è la capacità di sentirsi parte della stessa storia, sapersi emozionare nel ricordare le sfide vinte, le sofferenze e le prove superate. Si può votare a destra o a sinistra, essere nobili o proletari ma riuscire alla fine a giocare nella stessa squadra, per gli stessi colori, perché, come diceva un uomo che non era inglese ma americano e si chiamava Abramo Lincoln, una casa divisa non potrà mai stare in piedi.

 

Giornata alle urne per la Romania: si vota la destituzione del presidente

BUCAREST - In Romania si vota oggi il referendum per l'impeachment del presidente Traian Basescu. Per la validità del voto è necessario superare il quorum del 50 per cento degli aventi diritto al voto, che in totale sono 18,3 milioni di elettori. A tre ore dall'apertura dei seggi, alle 8 ora italiana, aveva votato circa il 9% degli elettori. La procedura di impeachment è stata avviata dal premier Victor Ponta, esponente della sinistra, che accusa Basescu di aver travalicato il confine legale dei poteri assegnati dalla Costituzione. La mozione presentata da Ponta ha già sospeso Basescu dal suo incarico e un voto di maggioranza in Parlamento potrebbe definitivamente rimuoverlo dalla Presidenza. Basescu ha a sua volta accusato i suoi avversari di voler attuare un colpo di stato e ha chiesto ai suoi sostenitori di boicottare il voto. I sondaggi indicano che quasi due terzi dei rumeni sono favorevoli alla rimozione di Basescu, principalmente a causa delle dure politiche di austerità da lui supportate. Per aumentare l'affluenza alle urne, in considerazione della stagione estiva, le autorità hanno fatto installare seggi elettorali anche negli hotel, nei bar e nei ristoranti delle principali località di villeggiatura sul Mar Nero e hanno esteso fino alle 23 (ora locale) l'orario del voto.

 

In Siria arrivano anche i ribelli libici. Caos ad Aleppo: "Almeno 168 morti"

ROMA - Hanno combattuto contro il regime di Gheddafi e sono stati i primi ad entrare a Tripoli nell'agosto scorso. E ora hanno deciso di aiutare i ribelli siriani. Trenta libici ex militanti della brigata rivoluzionaria di Tripoli, hanno raggiunto la Siria per unirsi all'esercito siriano libero. Il gruppo, a quanto riferisce la Cnn online, è comandato da uno dei militanti libici più noti, Al-Mahdi al-Harati, che era a capo della brigata che per prima entrò nella capitale libica. Al Harati è da mesi in Siria alla guida di ex suoi uomini e alcuni disertori dell'esercito siriano che si sono uniti alla sua organizzazione "Liwaa al-Umma" ("Bandiera della brigata di nazione"). Alcuni video recenti su YouTube mostrano due diverse fazioni di ribelli siriani mentre annunciano di far parte della Liwaa al-Umma. Al-Harati ha raccontato alla Cnn di essere stato in Siria la prima volta lo scorso anno in quella che lui stesso ha definito una "missione esplorativa" per valutare la situazione sul terreno e scoprire di cosa avessero bisogno i siriani. «Dopo che molti siriani mi hanno chiesto aiuto ho sentito che era mio dovere fare di più e considerato il successo della brigata di Tripoli abbiamo deciso che era tempo di agire e questo significa la formazione della "bandiera di nazione», ha raccontato. Il capo della diplomazia siriana, Walid Moallem, è atteso oggi in Iran, principale alleato del regime di Bashar al Assad. Lo riferisce il ministero degli Esteri di Teheran. Moallem dovrà incontrare i dirigenti siriani e tenere una conferenza stampa congiunta con il collega, Ali Akbar Salehi, si legge in un comunicato. La visita di Moallem è stata preceduta in settimana dalla missione di una delegazione economica siriana guidata dal vice primo ministro Omar Ghalawanji. L'Iran è il principale alleato del regime di Assad e accusa i Paesi occidentali e gli arabi, particolarmente l'Arabia Saudita e il Qatar, di sostenere politicamente e militarmente i ribelli siriani. Nei giorni scorsi, il vice capo di Stato maggiore delle forze armate iraniane, il generale di brigada Massud Jazayeri, ha avvertito che gli alleati della Siria non «permetteranno un cambiamento del regime» a Damasco. Intanto il bilancio degli scontri di queste giorni continua ad aggravarsi: 168, 94 dei quali civili, secondo l'osservatorio siriano dei diritti dell'Uomo. 33 sarebbero ribelli e 41 soldati. Mentre sono già 4 le persone che hanno perso la vita oggi.

 

Anche le mamme in crisi. Gli Usa non fanno più figli - Paolo Mastrolilli

NEW YORK - Meno soldi, meno bambini. Un'equazione tanto ovvia, quanto pericolosa, che adesso minaccia anche il futuro degli Stati Uniti, a causa della crisi economica che non accenna a passare. Il tasso di fertilità delle madri americane, infatti, è sceso nel 2012 a 1,87 figli a testa, cioè il livello più basso degli ultimi venticinque anni. Nel 2013 si prevede che calerà ancora, andando quindi decisamente sotto la soglia di 2,1 bambini per donna, che è necessaria ad ogni generazione per riprodursi. Inutile ricordare gli effetti negativi che questo fenomeno ha sulla previdenza, le pensioni, e in generale il finanziamento dei servizi sociali che lo stato fornisce ai suoi cittadini. I dati di cui stiamo parlando, ripresi da vari media americani come Usa Today e Huffington Post, vengono da Demographic Intelligence, un centro studi di Charlottesville che analizza le tendenze demografiche per conto delle compagnie farmaceutiche e produttrici di accessori per l'infanzia. Sono informazioni precise, in altre parole, perché su di esse queste aziende basano le loro strategie industriali. Il picco più alto di riproduzione negli Stati Uniti era stato raggiunto nel 2007, quando erano nati 2,12 figli per mamma. Una media quasi doppia rispetto a quella di molti paesi europei, Italia inclusa, che ormai ospitano popoli in via di estinzione, se le tendenze non cambieranno nel prossimo futuro. L'America sembrava al riparo da questa emergenza, e anche perciò guardava al domani con più ottimismo, sul piano economico e sociale. Nel 2008, però, è arrivato il colpo alle spalle. Prima il fallimento della banca di investimenti Lehman Brothers, e poi una crisi che ha provocato la peggior recessione dagli anni della Grande Depressione, seguita dalla ripresa più timida, lenta e incerta di sempre. L'ultima notizia negativa è di venerdì, quando il Dipartimento al Commercio ha rivelato che nel secondo trimestre del 2012 il prodotto interno lordo americano è aumentato solo dell'1,5%, in frenata rispetto al 2% del quarto precedente. In queste condizioni, le giovani coppie stanno decidendo in larga maggioranza di rimandare i figli. Motivo: l'incertezza finanziaria. Di recente il Dipartimento all'Agricoltura ha calcolato che crescere un bambino fino all'età di 17 anni costa in media ad una famiglia americana 235.000 dollari, che salgono a 295.560 se corretti in base all'inflazione. In sostanza tra 12.290 e 14.320 dollari all'anno, quando va bene, senza considerare le spese per l'università. Una prospettiva troppo opprimente, per coppie che spesso non lavorano o guadagnano poco. Basti pensare che, secondo i dati del Dipartimento al Lavoro, negli Stati Uniti il 38% dei disoccupati ha tra 20 e 34 anni, ossia proprio l'età in cui si costruisce la famiglia e si pongono le basi per il successo professionale e retributivo. Il risultato è che le giovani coppie rinunciano ai figli, almeno nella fase iniziale della loro relazione, ma così spesso si precludono la possibilità di averne più di uno. Il fenomeno è particolarmente forte tra gli ispanici e le persone più povere, che non hanno studiato all'università. Questo significa anche frenare la mobilità sociale, oltre a limitare le prospettive economiche di un paese che così non riesce più a conservare i livelli della propria forza lavoro. Dunque meno bambini, meno lavoratori, meno produttività, meno contributi e anche meno consumi. Un cane che si morde la coda, minacciando il futuro degli Stati Uniti, così come minaccia già quello del Giappone e di varie nazioni europee. Un dato significativo è che se si guarda i grafici della fertilità, salta all'occhio come la situazione di oggi somigli molto a quella dei primi anni '80, quando l'America usciva dalla crisi petrolifera. Allora gli Usa trovarono la forza, il coraggio e le idee, per dimenticare i guai e tornare a crescere.

 

Corsera - 29.7.12

 

Imu, più pesante la seconda rata. Per chi affitta rincari fino all'80% - A.Baccaro

ROMA - Aumenti di imposta, rispetto all'acconto, fino all'80%. È quanto dovranno aspettarsi a settembre i proprietari di immobili locati, in sede di versamento del saldo dell'Imu (per chi ha scelto di pagare in due rate). Secondo i calcoli effettuati dall'Ufficio studi della Confedilizia, l'applicazione della maggiore aliquota deliberata dai vari Comuni, rispetto a quella base uniformemente adoperata per la prima rata e pari al 7,6 per mille, avrà effetti molto pesanti, soprattutto per chi ha affittato con contratti «liberi». «L'effetto per le locazioni è fortemente scoraggiante - commenta il segretario generale di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa -. C'è il rischio che si tengano le case sfitte». Oppure che i canoni in scadenza vengano gravati di forti aumenti. È bene ricordare, per correttezza, che la maggiorazione dell'esborso dell'imposta da Ici a Imu è determinata oltre che dall'aumento dell'aliquota, dall'incremento del 60% della base imponibile, dovuto alla variazione del moltiplicatore da applicare alla rendita catastale. Contratti calmierati. Ma vediamo qualche esempio, cominciando dai contratti «calmierati» e prendendo come campione un immobile di categoria A/2, cinque vani, in zona semiperiferica. Nelle città di Roma, Napoli e Perugia, ad esempio, dove per la seconda rata si applicherà un'aliquota del 10,6 per mille, l'aggravio rispetto alla prima rata sarà del 79%. A Roma, partendo da una rendita catastale di 787,60 euro, se la prima rata è stata di 503 euro, la seconda sarà di 900, per un totale di 1.403 euro. Una bella cifra se si tiene conto che una rata di Ici per un'abitazione simile era di 190 euro. A Napoli, stesso discorso: partendo da una rendita catastale di 800,51 euro e da una prima rata di 511 euro, ci si ritrova a settembre con 915 euro, per un totale di 1.426. A Napoli una rata di Ici per un'abitazione simile valeva 294 euro.

«Questo aggravio non è giusto soprattutto per chi ha accettato di calmierare i prezzi per ottenere dei vantaggi fiscali» chiosa Giorgio Spaziani Testa. Chi paga meno. Ma ci sono anche città in cui la seconda rata costerà di meno: è il caso di Milano, Trieste e Torino, dove l'aliquota scelta dal Comune è inferiore a quella base del 7,6 per mille: per le prime due si colloca al 6,5 per mille, per l'ultima a 5,75. Così, a Milano se per la prima rata per un immobile, sempre in affitto calmierato, con rendita catastale di 877,98 euro si è pagato 560 euro, per la seconda bisognerà sborsarne 399 (184 euro era la rata Ici), per un totale di 959 euro. A Torino, su una rendita catastale di 787,60 euro, si passa da un acconto Imu di 503 a un saldo 258 euro (era 41 la rata dell'Ici). Vanno segnalate anche le città che manterranno invariata l'aliquota base del 7,6 per mille, come Ancona, Aosta, Bologna, Firenze, Genova e Venezia. Contratti liberi. Passando ai contratti "liberi", le cose peggiorano. Lo studio di Confedilizia individua peggioramenti della seconda rata Imu pari al 79% a Roma, Napoli, Torino, Bologna, Genova, Venezia e Perugia, tutte città in cui l'aliquota applicata sarà quella del 10,6 per mille. Ma anche a Milano, dove l'aliquota sarà del 9,6 per mille, il saldo salirà del 53%. A Bologna il conto più salato: partendo da una rendita catastale di 1.020 euro, se la prima rata è stata di 651 euro, la seconda sarà di 1.165 (la rata Ici era di 305 euro), per un totale di 1.817 euro. A Roma si passerà da 503 a 900 euro (289 la rata Ici), a Napoli da 511 a 915 (294 Ici). A Milano dove l'acconto è stato di 560 euro, il saldo sarà di 856 (230 Ici), per un totale di 1.416 euro. Nessuna città, tra le più grandi segnalate nello studio, registra aliquote inferiori a quella base per la seconda rata. Ce ne sono però alcune che la lasceranno invariata al 7,6 per mille, come Aosta, e altre che stanno ancora decidendo, come Bari, L'Aquila, Potenza e Catanzaro.

 

Gli smemorati del Belpaese - Sergio Rizzo

Non serve la palla di vetro per immaginare come potrebbe andare a finire. Trasferendo le loro funzioni a Comuni e Regioni, il decreto salva Italia avrebbe cancellato di fatto le Province. Con la giustificazione di un ricorso pendente alla Corte costituzionale, anche se non si possono escludere pesanti pressioni politiche, il governo Monti aveva poi preferito imboccare con la spending review una strada diversa: non più l'abolizione, ma la riduzione del numero e l'accorpamento degli enti più piccoli. Una volta in Parlamento, si è però passati al semplice «riordino». Che non verrà deciso dall'esecutivo, ma dalle autonomie locali: cioè dalle stesse Province. Un po' come dare al cappone il potere di scegliere quando e in quale modo celebrare il Natale. Ecco la lezione impartitaci ancora una volta dalla tanto attesa revisione della spesa che si vota domani al Senato. Nel momento in cui siamo chiamati ad affrontare un'emergenza, dal terremoto alla crisi finanziaria, riusciamo a dare il meglio di noi stessi. Con il governo tecnico siamo perfino riusciti a reinterpretare in chiave moderna il ruolo di Cincinnato. Ma quando sembra che l'urgenza immediata sia passata, anche solo per un momento, allora salta fuori il lato peggiore. Bastano una dichiarazione di Mario Draghi, lo spread che allenta la morsa e un paio di giorni di euforia in Borsa per far tornare a galla, intatti e se possibile incattiviti, tutti i vecchi vizi. Veti incrociati, interessi corporativi, tornaconti personali. Alla faccia di un debito al 123,3 per cento del Prodotto interno lordo, della recessione, dei tassi d'interesse alle stelle. E se poi, fatalmente, lo spread dovesse riprendere la propria corsa, ci sono già i colpevoli pronti. Qualcuno tirerà in ballo la crudeltà mentale di Angela Merkel, che vuole impedire alla Banca centrale europea di aiutare i Paesi in difficoltà. Altri si rifugeranno nell'ovvietà: l'Italia non è la Grecia né la Spagna. Indignandosi perché ci hanno messo insieme ai Pigs , i «maiali» dell'Unione monetaria. Fioriranno dotte argomentazioni circa il fatto che la differenza di rendimenti fra Btp e Bund non riflette il vero stato della nostra economia reale. Né mancherà chi ci spiegherà che noi, i compiti a casa, li abbiamo già fatti, e semmai adesso tocca ai maestrini di Berlino. Aggiungendo magari che fra lo spread di Monti e quello di Berlusconi non c'è alcuna differenza: tanto valeva, perciò, tenerci il Cavaliere. In pochissimi diranno l'unica verità che vale la pena di ascoltare. Che se ci troviamo in questa situazione è perché i compiti a casa non li abbiamo fatti per vent'anni. E che la signora Merkel, alla quale si possono rimproverare tantissime cose, su un punto ha ragione da vendere: perché la moneta unica abbia un senso, chi ne fa parte deve avere i bilanci in ordine. Il tempo della finanza allegra è finito per tutti. Se l'Italia allineasse i costi per il funzionamento delle pubbliche amministrazioni a quelli della Germania il risparmio sarebbe di 50 miliardi l'anno. Far finta di ignorarlo è da irresponsabili. La revisione della spesa può essere l'occasione per una prova di maturità, dimostrando che siamo in grado di dare il meglio anche senza essere sull'orlo del baratro. Non sprechiamola.

 

Roesler contro Draghi: la Bce resti indipendente e difenda la stabilità

La Banca centrale europea è «pronta a tutto» pur di salvare l'euro. Questa dichiarazione di Mario Draghi, presidente della Bce, che giovedì aveva fatto volare le Borse e buttato giù lo spread Btp-Bund, non è andata a genio a una parte consistente dell'establishment finanziario tedesco e in particolare alla Bundesbank, la potente banca centrale della Germania. Già venerdì era stato fatto filtrare che la Bundesbank , ferma custode dell'ortodossia finanziaria a guardia della stabilità della moneta, restava contraria all'acquisto di titoli del debito sovrano da parte della Bce. STRADA DISAGEVOLE - E sabato il ministro dell'Economia tedesco Philipp Roesler ha lanciato a sua volta una freccia avvelenata contro l'interventismo di Draghi. . «La Bce deve restare indipendente», il suo compito è assicurare la stabilità dell'euro, non finanziare l'indebitamento degli Stati, ha detto Roesler in un'intervista al quotidiano Osnabruecker Zeitung. Certo Draghi può contare , «decisi a fare tutto per proteggere l'eurozona», una dichiarazione che riporta in pratica le stesse parole già pronunciate dal presidente della Bce. Ma comunque la strada del presidente della Bce resta non proprio agevole. L'appuntamento chiave è giovedì, quando i consiglieri dell'Eurotower si riuniranno a Francoforte trovando sul tavolo una serie di proposte che rimettono alla Bce il ruolo di difensore ultimo della tenuta dei Diciassette. INCONTRI - Nei prossimi giorni appuntamenti importanti aspettano anche il presidente del Consiglio Mario Monti, che volerà prima a Parigi e poi a Helsinki, per approdare infine a Madrid, per un tour che si inquadra nella girandola di incontri e contatti tra le cancellerie per dare seguito alle decisioni del vertice Ue di giugno sullo scudo anti-spread e l'unione bancaria. Mentre Mario Draghi - che affila le armi per combattere la speculazione - incontrerà il segretario al Tesoro Usa Tim Geithner e il collega della Bundesbank, Jens Weidmann, prima appunto della riunione del Consiglio dell'istituto di Francoforte fissata per giovedì.

 

Fermi a fotografare chi chiede aiuto - Davide Frattini

TEL AVIV - La bimba striscia incurvata dalla fame, cerca di raggiungere un centro di aiuto, è il Sudan annientato dalla carestia. Un avvoltoio la pedina, prende tempo: se la piccola perde, lui vince. Kevin Carter passa mezz'ora con l'obiettivo puntato sulla scena, l'indice pronto a scattare, spera che l'uccello apra le ali, vuole ottenere un effetto ancora più drammatico. «Ho aspettato e aspettato, alla fine ho fatto la foto, ho cacciato via l'avvoltoio con una pedata e me ne sono andato». L'immagine viene pubblicata sulla prima pagina del New York Times, nel maggio del 1994 Carter vince il Pulitzer, quella bambina diventa la sua ossessione. Perché tutti vogliono sapere se sia riuscita a salvarsi. «Non ne ho idea, me ne sono andato sotto un albero a piangere, parlare con Dio e pensare a mia figlia», risponde il reporter sudafricano. Lo accusano di essere lui il predatore. Due mesi dopo aver ricevuto il premio che potrebbe spalancare la sua carriera, Carter decide di chiuderla. Lascia un biglietto sul sedile del pick-up rosso dove si uccide: «Sono perseguitato dai ricordi degli omicidi e dei cadaveri e della rabbia e del dolore... dei bambini affamati o feriti, degli uomini folli dal grilletto facile, spesso la polizia, dei boia». ATTACCHI KAMIKAZE - Ci sono incroci a Tel Aviv che Ziv Koren cerca ancora di evitare, bar dove non è più tornato. Nel 2000 il World Press Photo ha decretato uno dei suoi scatti tra i 200 più importanti degli ultimi 45 anni: la carcassa di un autobus sventrata, l'attentato è appena avvenuto, i volti contorti dall'esplosione ancora riconoscibili. «I ricordi delle bombe sono troppo resistenti. Attorno al mio appartamento ci sono stati otto attacchi kamikaze e io correvo lì pochi minuti dopo. Ma il lavoro non è riuscito a distruggere il mio rapporto con la città, come le cicatrici non cambiano il rapporto con il tuo corpo». Il Guardian ha indagato le ferite che i fotoreporter si portano dentro, i rimorsi per aver continuato a fare il proprio lavoro mentre qualcuno lì attorno viene ucciso o massacrato di botte. «La sensazione - spiega Greg Marinovich, amico di Kevin Carter, al quotidiano britannico - è di essere stato un vigliacco, di non essere intervenuto». TESTIMONIARE - A Koren è successo nella Città Vecchia di Gerusalemme, seconda Intifada. «Mi sono trovato in mezzo all'assalto contro una garitta di soldati israeliani. Centinaia di palestinesi, sentivo le urla dei militari, chiedevano aiuto, non avrei potuto fare nulla, sarei diventato io stesso un bersaglio». Considera testimoniare più importante che intervenire: «È il nostro compito. La foto di Carter ha denunciato quello che stava succedendo in Africa, ha fatto di più per quei bambini di qualunque organizzazione non governativa». Negli ultimi venti mesi Loris Savino ha inseguito le rivolte arabe per il progetto Betweenlands. «Quando pensi di poter dare una mano lo fai - commenta Savino, in Israele con il videomaker Marco Di Noia -. Sono stato a lungo nei ghetti di Nairobi, assieme ai bambini di strada che sniffano la colla. Abbiamo comperato le medicine per loro, ma non è il ruolo di un fotoreporter. I volontari ci dicono: siete degli squali. Il nostro lavoro è documentare, aiutare con le storie che raccontiamo. Non possiamo diventare dei missionari».

 

Repubblica - 29.7.12

 

Ingroia: "Siamo pronti a fermare l'inchiesta se sulla trattativa c'è la ragion di Stato" - Salvo Palazzolo

PALERMO - Il magistrato Antonio Ingroia ha un dubbio: "Sulla vicenda della trattativa c'è una ragione di Stato che impedisce l'accertamento della verità sulla base delle ragioni del diritto penale? Se è così, dalla politica devono venire parole chiare: se si ritiene che debbano essere sottratte alla verifica della magistratura temi o territori coperti dalla ragione di Stato, lo si dica". E se emergesse davvero una ragione di Stato dietro al dialogo segreto con la mafia, cosa farebbe? "Di fronte a una legge, o a una commissione d'inchiesta politica, che ribadisse la ragione di Stato dietro alla trattativa, la magistratura non potrebbe che fare un passo indietro. In caso contrario, la legge ci impone di andare avanti per l'accertamento della verità". C'è stata o no una ragione di Stato nella trattativa? "È quello che vorrei sapere. Credo che sia necessario uscire dall'equivoco, alimentato dalle parole dette e non dette di autorevoli commentatori, a proposito di una presunta ragion di Stato che dovrebbe fermare l'azione della magistratura". Alcuni commentatori mettono in dubbio l'esistenza della trattativa. "Sentenze definitive stabiliscono che ci fu: da lì siamo partiti. E oggi il paese ha un'occasione unica: non vorrei che andasse perduta". Non c'è il rischio di enfatizzare il processo sulla trattativa, che dovrebbe avere innanzitutto il compito di accertare responsabilità individuali prima di proporre ricostruzioni storiche? "Lo ripeto da mesi. Il processo che inizierà è un'occasione, che non esaurisce lo sforzo di accertamento della verità. Occorrono altri momenti, e soprattutto la coesione istituzionale auspicata dal presidente della Repubblica. Non una chiusura corporativa di alcuni poteri dello Stato. E tanto meno una sorta di complicità istituzionale. Dovrebbe essere una coesione verso traguardi più alti: la verità sulla stagione 92-94, che pesa come un macigno sulla nostra democrazia". Il confronto fra politica e magistratura resta critico, forse anche per la sua inchiesta? "La coesione istituzionale dovrebbe esplicarsi in fatti concreti. Innanzitutto, il dovuto rispetto nei confronti della magistratura. E invece in questi giorni siamo stati insultati, sui giornali abbiamo letto cose infami. Ma noi abbiamo la coscienza a posto, abbiamo sempre rispettato le regole. Ci siamo comportati come Loris D'Ambrosio avrebbe fatto al nostro posto. E lo dico per la conoscenza e la stima dell'uomo delle istituzioni D'Ambrosio. Anche lui avrebbe fatto ogni sforzo per la verità". Maggiore rispetto per i pm, dice lei, e toni pacati: bastano per un dialogo più costruttivo fra politica e giustizia? "La politica dovrebbe essere soprattutto meno impegnata a cacciare indietro l'azione della magistratura. Ad esempio, sottraendole strumenti fondamentali, come le intercettazioni". Però, anche il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale sembra essere un atto d'accusa verso i pm di Palermo, per non aver creato un clima di dialogo sulle intercettazioni del capo dello Stato. "La Procura di Palermo non ha fatto altro che cercare il clima meno conflittuale possibile, senza violare le leggi vigenti, né le prerogative del presidente. Se si ritiene che si debba modificare la legge, lo si faccia, come l'ex ministro Flick chiedeva. Oppure, sarà la Consulta a risolvere il problema". Gianluigi Pellegrino ha proposto su "Repubblica" l'applicazione dell'articolo 271 per arrivare alla distruzione d'ufficio delle intercettazioni inutilizzabili. "Noi non possiamo fare giurisprudenza creativa. Quell'articolo è applicabile solo a casi tassativi. Dunque, o interviene la Corte Costituzionale, o una legge apposita per la distruzione delle intercettazioni riguardanti il presidente della Repubblica, attraverso una procedura straordinaria". Ha ormai deciso di andare in Guatemala? "Dispiace sempre lasciare. Ma se non cambiano le condizioni, passi avanti non se ne possono fare. Il magistrato si è ritrovato in una stanza buia, devono essere gli altri attori politico-istituzionali ad accendere la luce. Se dovesse accadere, potrei anche restare". Medita di passare dalla parte della politica, per accendere lei quella luce? "Sono e resto un magistrato. Forse, adesso, un po' deluso. Ma non smetterò di cercare la verità, anche dall'altra parte del mondo".

 

Roma, ex della banda della Magliana consulente per le politiche sociali - F.Angeli

ROMA  -  Dalla banda della Magliana al Campidoglio. Tra gli uomini di fiducia che il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha voluto nella sua avventura, c'è anche Maurizio Lattarulo, ex Nar, già braccio destro del boss De Pedis e luogotenente dell'estremista nero Massimo Carminati. Condannato con sentenza definitiva il 6 ottobre del 2000 "in quanto membro dell'associazione a delinquere banda della Magliana", 'Provolino', così lo chiamavano gli altri della gang, nel luglio del 2008 viene arruolato dal primo cittadino della Capitale come consulente esterno per le Politiche Sociali. "Sarebbe curioso capire con quali competenze in materia", si domanda Giovanni Barbera, presidente del consiglio del XVII Municipio di Roma, che domani invierà alla commissione trasparenza del Comune un'interrogazione urgente. Prima ancora di nominare nel 2009 l'amico Stefano Andrini, pure lui estremista di destra, come ad di Ama Servizi, e di sistemare con l'infornata di Parentopoli, nel 2010, il Nar Francesco Bianco come operaio all'Atac, Lattarulo ottiene un posticino nel cuore del potere. Con delibera della giunta comunale entra nello staff dell'assessorato alle Politiche sociali. Contratto a termine, articolo 90, che con "riserva di accertamento dei requisiti per l'accesso allo stesso" inizia il 23 luglio 2008 e cessa con la fine del mandato di Alemanno. Da luglio a dicembre 2008 riceve dal Comune 13mila euro e rotti, nei due anni successivi 30.670 euro e 65 centesimi. E oggi è segretario particolare dell'attuale presidente della Commissione politiche sociali, Giordano Tredicine. "Non sappiamo con quale tipo di contratto sia rimasto ", dicono fonti interne del Campidoglio. Ma nella seduta in consiglio comunale di fine giugno, in cui si discuteva del bilancio Acea, lui c'era. Nell'ordinanza di rinvio a giudizio firmata dal giudice Otello Lupacchini, il magistrato che istruì il processo contro i componenti della Banda della Magliana, viene citato novanta volte il suo nome. "Provolino" è in prima linea al fianco di personaggi del calibro di De Pedis, Massimo Carminati, del cassiere della banda Nicoletti, di Paolo Frau e di Giuseppe de Tomasi. "Stava con i 'testaccinì  -  ricorda Lupacchini, oggi sostituto procuratore generale presso la Corte d'Appello  -  e le riunioni per decidere gli affari della banda avvenivano in via di Villa Celimontana 38". Insomma non era un personaggio di poco spessore Maurizio Lattarulo, tanto che nell'ordinanza di rinvio a giudizio viene indicato più volte come "braccio destro di De Pedis" e 'tirapiedì di Carminati. Il suo ruolo, raccontano le carte, insieme agli altri boss, era quello di gestire i circoli scommesse e le sale giochi della città, "aperti dalla banda per riciclare il denaro sporco provento di usura e spaccio". Racket e gioco d'azzardo erano il suo settore di competenza, fino al salto di qualità: l'usura. C'è un passaggio dell'ordinanza in cui Enrico Boldrini, pentito della gang e negli anni '80 gestore di un negozio di noleggio di videogiochi finito nelle maglie della Banda, sostiene che Lattarulo (con Carminati e Maragnoli) andava da lui a riscuotere il pizzo (20 milioni di lire ogni fine mese) per conto di De Pedis. Ridotto in miseria, Boldrini si diede alla latitanza e quando tornò, per ricominciare bussò alla porta di Provolino: "Mi rivolsi a Lattarulo, il quale, in più occasioni, mi erogò finanziamenti per qualche decina di milioni di lire, al tasso del 4 o 5% mensile". E ancora: "Confermo di aver indirizzato al Lattarulo dei gestori di circoli in difficoltà economiche: si trattava di persone che versavano nelle mie stesse situazioni di vessazione". Forse tutto questo deve essere sfuggito ad Alemanno quando ha deciso di affidargli la consulenza per le Politiche sociali.

 

La maggioranza dei tedeschi contro l'euro. Un sondaggio imbarazza Merkel e Schaeuble

BERLINO - La cancelliera Angela Merkel e il suo ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble difendono Mario Draghi e si dichiarano pronti a salvare l'euro a ogni costo, ma i loro elettori e cittadini voltano loro le spalle. Secondo il sondaggio che uscirà su Bild am Sonntag il 51 per cento dei tedeschi non crede più nell'euro, e ritiene che la Germania starebbe meglio e sarebbe più prospera e stabile se non avesse abbandonato il marco federale a vantaggio della moneta unica. Solo 29 tedeschi su cento, cioè ben meno (secondo i sondaggi) degli elettori stimati del partito della cancelliera, la CduCsu, sono invece del parere che l'euro abbia portato più vantaggi che svantaggi alla Repubblica federale. Il sondaggio, anticipato nei lanci stampa di Bild am Sonntag, cioè l'edizione domenicale del quotidiano popolare conservatore-democratico del grande gruppo editoriale Axel Springer (Bild, l'edizione quotidiana normale, è il quotidiano più letto d'Europa con tirature e readership sui cinque milioni e oltre, ed è influentissimo sull'opinione pubblica nel decidere chi governa) è un duro colpo alle speranze di salvataggio dell'euro, in questo difficile weekend di attesa della riapertura dei mercati. Tanto più seria è la situazione fotografata dall'indagine, se teniamo conto del fatto che venerdì la cancelliera Merkel e Schaeuble hanno difeso Draghi 1 contro gli attacchi della Bundesbank, contraria quest'ultima all'acquisto di titoli sovrani dei paesi deboli. 'Angie' Merkel è in vacanza, a bordo del bianco Airbus 340 battezzato Konrad Adenauer (il fondatore della democrazia postbellica tedesca, il De Gasperi di Germania) è atterrata ieri in Italia, scortata dagli Eurofighter Typhoon delle migliori squadriglie dell'Aeronautica militare italiana. Ma la vacanza della 'donna più potente del mondo' e del marito, il professor Joachim Sauer, sarà spesso interrotta da chiamate di lavoro sulla crisi dell'euro. Lunedì il segretario al Tesoro dell'amministrazione Obama, Tim Geithner, visiterà il ministro delle Finanze federale Schaeuble nel suo luogo di vacanza a Sylt, la più esclusiva isola tedesca, sul Baltico. Dopo l'incontro, Geithner sentirà anche Draghi e il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Il sondaggio pone Merkel e Schaeuble - che cercano intese con Draghi, Monti, Hollande, Barroso e altri europeisti al potere per salvare l'euro - nella difficile posizione di statisti senza le spalle coperte dagli elettori. In Germania le prossime elezioni politiche federali si terranno prevedibilmente nel settembre 2013, 'Angie' vuole vincerle forse per poi governare insieme alla Spd (socialdemocrazia) facendo una campagna europeista, per il salvataggio dell'euro e per più Europa politica. Ma la prospettiva non piace agli elettori: 71 su cento secondo il sondaggio di Bild am Sonntag vogliono cacciare la Grecia dall'Unione monetaria. E in dichiarazioni al giornale il vicecancelliere e ministro dell'Economia liberale (Fdp), Philipp Roesler, ha affermato che Atene non rispetta gli impegni, in un durissimo attacco alla Grecia che peserà su mercati e negoziati.

 

l'Unità - 29.7.12

 

Stanno giocando con il fuoco - Claudio Sardo

Una buona notizia: Mario Draghi ha schierato la Bce in una difesa dell'Euro «senza riserve» e ha trascinato dalla sua, pur con qualche resistenza, il governo tedesco. Ovviamente l'azione di Draghi ha un limite nel mandato assegnatogli, e in questo drammatico contesto la sua scelta appare persino una carta estrema, l'ultima a disposizione: tuttavia è riuscita a raffreddare la tensione su Borse e spread e a dare all'Europa un po' di tempo in più per prendere quelle decisioni politiche, che sole possono salvare la moneta unica e ciò che resta della pace sociale del continente. Ma gli ultimi giorni hanno portato anche una pessima notizia: il Pdl, dopo un lungo torpore, è rientrato in campo con l'obiettivo di sabotare la ricostruzione del sistema politico. Era uno degli impegni concordati della transizione post-berlusconiana: mentre Monti doveva fronteggiare da Palazzo Chigi l'emergenza economico-finanziaria e risalire la ripida china della credibilità persa all'estero, il Parlamento avrebbe dovuto ripristinare uno standard democratico europeo, attraverso il cambio della legge elettorale e alcune mirate riforme istituzionali. Il Pdl invece ha deciso di far saltare ogni compromesso sulle modifiche costituzionali, e ora minaccia di impedire il cambio del Porcellum (o di condizionarlo a proprio esclusivo vantaggio). Non solo. Il Pdl ha riesumato per l'occasione il tandem con la Lega: quell'alleanza fallita al governo si è ricostituita in chiave negativa, per una mera difesa egoistica e, appunto, per l'azione di sabotaggio. Non interessa al partito di Berlusconi approdare davvero al presidenzialismo che oggi sbandiera: gli è bastato impedire la riforma del sistema parlamentare che avrebbe consentito, con la sfiducia costruttiva, una maggiore stabilizzazione del governo futuro. Così come gli basta, in tema di legge elettorale, ostacolare la vittoria del Pd, alzare l'asticella fino a rendere improbabile un governo politico di centrosinistra dopo le elezioni (questo il senso della proposta di conservare la struttura del Porcellum, facendo scattare il premio di maggioranza solo alla lista o alla coalizione che supera il 45% dei voti). Il Pdl ha in questo momento anche un altro obiettivo tattico: impedire il ricorso alle elezioni in novembre. Spera di logorare, al tempo stesso, Monti e il Pd. Di far dimenticare il proprio fallimento, di annacquarlo in una responsabilità indistinta della «classe politica»: per questo i giornali di destra alimentato volentieri il qualunquismo dei Grillo e dei Di Pietro. Berlusconi vuole ricandidarsi, ma non punta alla vittoria: lo scopo da raggiungere è che nessuno vinca, che il sistema italiano non riesca a recuperare credibilità, che il Pd venga ingabbiato in una grande coalizione permanente, come un esecutore delle tecnocrazie europee, al più come un mediatore sociale in un sistema politico incapace di progettare un futuro. Invece abbiamo bisogno vitale di una democrazia competitiva. Abbiamo bisogno che, alle elezioni, i cittadini siano messi di fronte a due alternative politiche. La stessa transizione di Monti fallirà se l'approdo sarà quello di una politica ancora bloccata. Il governo dei tecnici ha lavorato e sta lavorando per fronteggiare l'emergenza. Ha fatto cose utili e importanti. Soprattutto in Europa. Ha preso decisioni impopolari, talvolta non condivisibili e socialmente inique, alcune delle quali sono state poi corrette dal Parlamento. Ma il governo, dopo questa estate, avrà sostanzialmente concluso il suo compito. Mentre invece non sappiamo, anche perché non dipende da noi, se l'attacco contro l'euro riprenderà con più forza e se l'Europa farà in tempo a dotarsi degli strumenti necessari per compiere l'attesa svolta politica e istituzionale. Potremmo andare incontro ad un autunno caldissimo. E saggezza vorrebbe che si offrisse al Capo dello Stato anche la carta dello scioglimento delle Camere. Perché potrebbe aiutarci a difendere non l'interesse di parte, ma l'interesse del Paese. Che senso avrebbe affrontare così una nuova tempesta, quando non sono possibili (né socialmente sopportabili) altre manovre, con una maggioranza sempre più in conflitto e una lunghissima campagna elettorale già lanciata? Meglio allora una nuova legittimazione popolare e un programma di governo di più ampio respiro. Meglio per l'Italia. Ma ovviamente a una condizione. Che le alternative politiche siano chiare e la scelta degli elettori impegnativa. Per questo bisogna uscire dall'incubo del Porcellum. Che prometteva un bipolarismo rafforzato e ci ha condannato invece al trasformismo e all'instabilità. Non è difficile definire un sistema elettorale di tipo europeo. La scelta è ampia: e non ha senso opporre veti. Occorre però favorire, pur senza forzature, la formazione di governi omogenei. Nessun sistema può escludere, in via di principio, una grande coalizione: ma non può diventare l'esito quasi scontato. Altrimenti si condannerà l'Italia ad un esito molto simile a quello greco, dove le forze populiste e anti-europee sono diventate la vera alternativa ad un esito obbligato e oggi ipotecano il futuro politico del Paese. È questo che si vuole? È questo a cui punta Berlusconi, sostenuto dal tifo dei populisti di tutte le sponde? La ricostruzione del Paese passa oggi per la sconfitta del Pdl, della Lega e di Grillo. L'Italia e l'Europa - lo dicono gli operai di Taranto e i tanti altri che tornano in piazza, lo dicono i giovani ricercatori precari, le famiglie impoverite e impaurite, lo dicono le Regioni e i Comuni che rischiano la distruzione del loro welfare e con esso della tutela di diritti universali - hanno bisogno di una svolta a sinistra. Saranno gli elettori a decidere. Se il Pd e il centrosinistra non formuleranno una proposta convincente, probabilmente avremo ancora una grande coalizione (e stavolta sarà una sconfitta). Ma la riforma elettorale deve dare ai cittadini la possibilità di scegliere e di insediare un governo di alternativa.

 

Draghi non si ferma. La sponda Usa per il vertice tedesco - Paolo Soldini

È un braccio di ferro che ha per posta l'intera strategia europea contro la crisi e, in buona misura, anche la sorte della moneta unica e dell'Unione così come la conosciamo. Domani, a Berlino, il presidente della Bce Mario Draghi se la vedrà con Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e, in quanto tale, autorevolissimo membro del board dell'Eurotower. L'italiano dovrà cercare di ottenere se non il via libera almeno un «facciamo finta di niente» a un intervento diretto della Bce a favore dei titoli spagnoli, unica possibilità di evitare un prestito degli Stati membri e del Fmi a Madrid. Una eventualità della quale, tra accenni e smentite, si parla ormai da giorni. Il presidente della Bce dovrebbe presentare poi l'ipotesi di un taglio ulteriore dei tassi d'interesse e l'indizione di nuove aste per le banche (Ltro), come quella che portò mesi fa all'erogazione di circa 1.000 miliardi che gli istituti privati stornarono quasi tutti per rifinanziarsi o acquistare titoli di Stato in proprio. Considerando tempi più lunghi, Draghi dovrà sondare Weidmann sulla possibilità di concedere, come vogliono fortemente Francia, Italia e Spagna, la licenza bancaria (e quindi la possibilità di rifornirsi illimitatamente dalle casse di Francoforte) ai fondi salva-Stati, l'Efsf attuale e l'Esm, quando verrà (se verrà). Sul primo punto non solo la Bundesbank è contraria di suo, ma sarebbe anche in grado di creare un fronte tra i governatori delle altre Banche centrali che, come Weidmann, partecipano di diritto al consiglio della Bce. In ogni caso, ha chiarito ieri il ministro tedesco Wolfgang Schäuble, gli acquisti a breve termine non dovrebbero interessare la Spagna che, se vorrà avere i 300 miliardi di cui a quanto pare avrebbe bisogno, dovrà sottoporsi a un Memorandum e quindi a controlli di tipo "greco". Quanto al secondo punto, scontata l'opinione contraria della Banca tedesca, espressa chiara e tonda giorni fa, c'è da segnalare una presa di posizione dello stesso Schäuble, il quale ieri è stato molto netto contro l'ipotesi della licenza bancaria all'Efsf, ormai quasi svuotato, ma non ha escluso esplicitamente che la si possa concedere, quando sarà, al nuovo fondo. Ha detto, in sostanza: aspettate l'Esm e poi vedremo. Il problema è che l'Esm, bloccato dalla Corte di Karlsruhe, non arriverà prima dell'autunno, cioè dopo la tempesta speculativa che molti si aspettano si abbatta su Spagna e Italia nelle prossime settimane. L'amico americano. Al match Draghi-Weidmann - è la sorpresa di ieri - farà da supervisore Timothy Geithner. Il Segretario al Tesoro Usa durante il suo viaggio verso Berlino si fermerà sull'isola di Sylt, dove parlerà con il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble e non è escluso che pure quest'ultimo all'ultimo momento si unisca all'incontro nella capitale. La ricomparsa in un modo così irrituale di Geihtner sulla scena europea, che l'americano ha frequentato moltissimo nei mesi scorsi, segnala ancora una volta la preoccupazione con cui a Washington si continua a guardare alla crisi al di qua dell'Atlantico. L'uscita della Grecia dall'euro o il precipitare improvviso delle difficoltà della Spagna (o, molto peggio, dell'Italia) comprometterebbero definitivamente la strategia per la ripresa seguita da Barack Obama e, intanto, gli costerebbero la rielezione. E da un'eventuale ascesa di Mitt Romney alla presidenza gli europei non avrebbero che aspettarsi il peggio. Per quanto alcuni leader della Ue abbiamo trovato il modo di lamentarsi, in passato, delle ingerenze del Segretario Usa, che partecipava alle riunioni e dispensava consigli, è più che probabile che stavolta l'invito ad "immischiarsi" sia venuto proprio da qualcuno su questo continente. L'interesse dell'amministrazione americana alla stabilizzazione europea può essere un'arma molto utile da schierare contro chi, opponendosi a tutte le formule di allentamento della morsa monetaria, sta di fatto boicottando ogni soluzione possibile. Sul braccio di ferro Bce-Bundesbank pesano, e molto, le incertezze politiche nella Repubblica federale. Quanto sono davvero sostenuti dalla cancelliera Merkel e da Schäuble i «non se ne parla neppure» di Jens Weidmann? Nella Cdu cresce la fronda di quanti vorrebbero unirsi ai liberali e ai più conservatori della Csu nel rifiuto di ogni aumento dei contributi tedeschi ai fondi. Il ministro dell'Economia Philipp Rösler è intervenuto con tanta foga a favore "dell'espulsione" della Grecia dall'euro che nella stessa Fdp c'è chi chiede, ormai, il suo allontanamento. E c'è un altro problema: quanto pesa, sull'orientamento del governo di Berlino la pressione delle lobbies bancarie private? Ieri il presidente della Spd Sigmar Gabriel, annunciando di voler mettere i controlli sulle banche private al centro della imminente campagna elettorale, ha denunciato la "presenza continua" alla cancelleria di Josef Ackermann, il finanziere svizzero presidente della Deutsche Bank e presidente del consiglio del potentissimo Institute of International Finance, l'organizzazione che cura gli interessi dei grandi istituti mondiali.

 




Data notizia29.07.2012

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