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Politica Italiana


 

La Stampa - 30.7.12

 

Monti-Merkel: pronti a tutto per l'euro. Riflettori puntati sull'asta dei Btp

Sandra Riccio

TORINO - Quella che si apre oggi sarà una settimana decisiva nella partita che si sta giocando per il salvataggio dell'euro. Cinque giorni fitti fitti di incontri e appuntamenti ai massimi livelli con l'Italia che avrà un ruolo di primo piano. La girandola di consultazioni e dichiarazioni è già partita nelle ultime ore, a testimonianza della tensione del momento in presenza di una situazione ormai sull'orlo del precipizio e allo stallo seguito al vertice di fine giugno. Già sabato si è svolto un importante colloquio telefonico tra Italia e Germania. Il risultato è che Mario Monti e la cancelliera tedesco Angela Merkel hanno inviato un messaggio rassicurante all'Europa: «Faremo tutto quanto è necessario per proteggere la zona euro» hanno detto. In più la Merkel ha invitato a Berlino, nella seconda metà di agosto, il presidente Monti, il quale ha accolto l'invito «con gratitudine». Di fatto le parole dei due leader ricalcano quelle di giovedì del numero uno della Bce, Mario Draghi, riprese il giorno dopo da un comunicato congiunto Merkel-Hollande. «Prenderemo tutte le misure necessarie a proteggere l'euro zona», ripetono i leader europei. Oggi con l'apertura delle Borse si capirà se, come è accaduto la settimana scorsa, anche questa rinnovata determinazione avrà un effetto positivo sui mercati tanto più che i prossimi giorni saranno scanditi da importanti aste, a cominciare da quella di oggi dell'Italia sui Btp a 5 e 10 anni (fino a 5,5 miliardi). Complessivamente in settimana sui mercati si riverseranno titoli dei Paesi Ue per un valore tra i 13,5 e i 15 miliardi. Tanti i passi in agenda: martedì Monti volerà a Parigi per una colazione di lavoro con il presidente francese, Francois Hollande. Mercoledì invece sarà a Helsinki per convincere la Finlandia della necessità di pensare a un'integrazione europea più solidale. Missione non facile dal momento che è il Paese che ha cercato di bloccare lo scudo anti-spread deciso al Consiglio europeo di fine giugno. Infine giovedì 2 agosto Monti andrà a Madrid su invito del presidente del Consiglio spagnolo, Mariano Rajoy. E proprio giovedì sarà la giornata clou della settimana con l'atteso incontro del direttivo della Bce. Dopo le forti parole di «svolta» di Draghi, gli operatori si aspettano che l'Eurotower decida azioni «non convenzionali». Tra l'altro la riunione del 2 di agosto sarà preceduta, il giorno prima, da un altro atteso incontro, quello della Fed americana che potrebbe muovere sui tassi d'interesse Usa. Ora dopo i recenti ulteriori segnali di forte rallentamento delle economie sviluppate aumentano le attese degli operatori per imminenti azioni congiunte delle banche centrali come, in parte, già avvenuto a inizio luglio. Nel frattempo oggi il presidente della Bce Mario Draghi incontrerà il segretario al Tesoro Usa Tim Geithner con il compito di tentare una sorta di mediazione e smussare le resistenze tedesche. La sua missione inizierà con un prima tappa dal titolare delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Per il faccia a faccia, Geithner si recherà direttamente nell'isola tedesca di Sylt, nel Mare del Nord, dove il tedesco sta trascorrendo le sue ferie. Successivamente volerà a Francoforte da Mario Draghi. Le parole del numero uno della Bce sono servite sicuramente a compattare il fronte salva-euro ma la Bundesbank continua a smarcarsi. Sabato la banca centrale tedesca ha ribadito il proprio no alla possibile ripresa del programma di acquisti della Bce, su cui le dichiarazioni di Draghi hanno alimentato le aspettative. Prima della riunione della Bce forse già oggi, Draghi dovrebbe incontrare il collega della Buba, Jens Weidmann, per discutere i possibili interventi. Un assist glielo ha offerto ieri Jean Claude Juncker. Il presidente dell'Eurogruppo ha spinto l'acceleratore sul processo di salvataggio rimproverando Berlino: «Non c'è tempo da perdere, se si vuole salvare l'euro» ha detto. «Perchè Berlino si permette il lusso di mischiare la propria politica interna ai temi europei? Perchè tratta l'Eurozona come una filiale?» ha chiesto. Le parole di Juncker sembrano volte a infondere ottimismo. Se è davvero così, lo diranno oggi i mercati.

 

Madrid, richiesta d'aiuti imminente. Solo così la Bce potrà agire

Tonia Mastrobuoni

L' ennesima settimana cruciale per il futuro dell'Eurozona comincia oggi e si conclude giovedì, con la riunione del consiglio direttivo della Bce, caricato ormai di aspettative gigantesche e, dunque, pericolose. Soprattutto perché per accontentarle, nei giorni che ci separano dal 2 agosto, sarà cruciale che la Spagna chini il capo e chieda formalmente aiuti. Non solo per le banche, come ha fatto finora, ma anche per sé, caricandosi dunque l'"onta" di un monitoraggio ufficiale da parte della trojka in cambio del piano di risanamento, oppure, nel caso di una versione "light", di un intervento dell'Efsf sui bond in cambio di periodici controlli europei come da accordi di fine giugno. Dovrà accettare le famigerate e odiate condizionalità, insomma. Fonti vicine all'esecutivo di Madrid parlano di una richiesta che «arriverà quasi sicuramente» e di un premier «ormai allo stremo» che starebbe cercando di dribblare il destino certo che è toccato a tutti i governi che hanno chiesto ufficialmente aiuti all'Europa: quello di cadere. Un'ipotesi concreta che circola tra i popolari è che Mariano Rajoy chieda il salvataggio e proceda poi a un rimpasto pesante, soprattutto dei ministri economici. Mentre l'ipotesi più indigesta per il premier parla di un governo tecnico in arrivo, sorretto da una grande coalizione, una soluzione "alla Monti". Il fatto è che senza la richiesta ufficiale di aiuti - la Germania lo ha fatto capire chiaramente in questo fine settimana -, non ci saranno acquisti dei suoi titoli di Stato scricchiolanti né da parte del fondo salva-Stati Efsf, né da parte della Bce. Un monito, questo, che lega pesantemente le mani al suo presidente. E che rischia di far svanire quell'aiuto-ponte agostano che consentirebbe alla Spagna - e all'Italia ormai pericolosamente nella scia di Madrid - di arrivare vive al 12 settembre, quando la corte costituzionale tedesca sbloccherà o affosserà il nuovo fondo salva-Stati Esm. Era stato Draghi, giovedì scorso a prefigurare attraverso parole inequivocabili la necessità di riprendere gli acquisti dei titoli di Stato interrotti venti settimane fa. Quando ha fatto quelle dichiarazioni, una vera e propria fuga in avanti che non a caso ha suscitato l'immediata reazione della Bundesbank, sembra evidente che dovesse già avere l'appoggio politico di Berlino. Non a caso, esplicitato come un sol uomo da lì a poche ore sia dalla cancelliera sia dal ministro delle Finanze, e in aperto contrasto con il numero uno della banca centrale tedesca Weidmann. Il dubbio è se quell'appoggio avesse a che fare con l'incontro avvenuto in quei giorni tra il ministro delle Finanze spagnolo e quello tedesco e l'eventuale promessa, tenuta per ora coperta, di Madrid di chiedere aiuti. Senza l'endorsement del governo tedesco, Draghi ha margini ridottissimi per contrastare l'opposizione interna della Bundesbank. Un anno fa, quando il suo predecessore Trichet cominciò a comprare titoli italiani e spagnoli contro il parere della banca centrale tedesca, la famosa lettera ai governi sulle riforme era già partita e l'impegno era già arrivato, da Roma e Madrid. Quest'anno la crisi è arrivata a un punto tale che l'onere dei salvataggi sta raggiungendo una soglia di allarme. E Merkel lo ha ripetuto recentemente più volte: le capacità della Germania non sono infinite. L'appoggio di Berlino, quindi, è sempre più fondamentale per evitare il peggio. E se non arriva la richiesta di aiuti della Spagna, questo il sillogismo della settimana, sarà quasi impossibile per Draghi ripetere la forzatura anti-tedesca di Trichet e riprendere gli acquisti dei titoli iberici e italiani. D'altra parte, è certa che dopo le parole di Draghi, se la Bce deluderà le aspettative degli investitori, che si attendono ormai come minimo la ripresa degli acquisti dei bond, la reazione sulle Borse potrebbe essere apocalittica.

 

Gli spagnoli in crisi riscoprono le mini-vacanze a due passi da casa

Marco Alfieri

MALAGA - Già arrivati!» sibila Carmen scendendo dall'Alta velocità alla stazione di Malaga. Insieme al fidanzato Antonio era salita 50 minuti prima a Cordoba. «Quest'anno va così - sorride -, niente vacanze all'estero. Mio padre prende il sussidio di disoccupazione. Una settimana in Costa del sol e stop». Sono in molti nella Spagna falciata dallo spread a tornare all'antico, dopo 15 anni di bengodi. Alle ferie non si rinuncia ma ci si organizza alla meglio: Carmen e Antonio restano sul mare vicino; chi ha la casa di famiglia torna «al paese» come quando era ragazzino. «Non venivo in estate a El Pinillo da 25 anni» s'emoziona Raul, impiegato pubblico a Siviglia, trascinando il suo trolley marrone. Anche sul mare spumoso dell'Andalusia, Spagna più Spagna che ci sia, un milione e mezzo di disoccupati e lavoro nero dappertutto, la crisi picchia duro. Eppure proprio il turismo, l'ultimo fortino iberico - vale l'11% del Pil con 57 milioni di ingressi nel 2011 -, sta tenendo a galla il Paese. Nei primi 6 mesi dell'anno è cresciuto del 2,5%, portando in cassa 20 miliardi di valuta buona. Lungo i 160 chilometri di spiaggia che corre da Nerja a Manilva ragazzi, pensionati e famiglie straniere arrivano a getto continuo. Specie di sabato che è giorno di cambio nei pacchetti dei tour operator. «I più spendaccioni sono gli scandinavi, con 1.239 euro a testa, seguiti da olandesi e tedeschi che ci vorrebbero fuori dall'euro», ironizzano dall'ufficio turistico provinciale. Dopo le 15 in Plaza de Obispo a Malaga, davanti alla cattedrale, si ha uno spaccato dei vacanzieri: ragazzini italiani e tedeschi seduti al Guinness Pub, inglesi che urlano, famigliole olandesi coi passeggini, croceristi in gita, coppie di russi che fanno le foto sulla fontana e frotte di spagnoli costretti alla mini vacanza domestica. Sempre da Malaga parte il trenino per il litorale. Alla fermata sotto l'aeroporto salgono i ragazzi delle low cost, per lo più inglesi e nordici, straniti davanti ad un signore con fisarmonica e maglia di «Gazza» Gascoigne che gira i vagoni cantando Toto Cutugno. Sulla Costa del sol ogni paese si è specializzato: a Malaga si fermano coppie adulte per turismo culturale prima di spostarsi a Granada e Siviglia, e croceristi in libera uscita. Un bagno veloce a Malagueta e una tapas in centro storico. A Torremolinos i ragazzi per la «movida» e la comunità gay. A Benalmadena famiglie e pensionati. A Fuengirola e Mijas inglesi e scandinavi che hanno comprato la villetta ai tempi d'oro di Aznar, quando i fondi pensione internazionali garantivano con pochi soldi la «casetta» al caldo della Spagna. A Marbella ci sono invece gli spagnoli benestanti, specie intorno al porto di Josè Banus, una Montecarlo in miniatura. Venti giorni fa Flavio Briatore ha aperto il nuovo «Billionaire», rinverdendo i fasti della Marbella patinata di Jesus Gil, l'ex sindaco-costruttore, proprietario dell'Atletico Madrid, morto nel 2004 travolto dagli scandali. Torremolinos è la località più popolare della costa, un buon posto per capire la salute del turismo spagnolo. Al Grand hotel Cervantes, un casermone giallo enorme, confermano la tenuta del mercato. «Bene nei weekend, meno nella settimana ma siamo l'unico settore che resiste». Ad esempio «abbiamo molte prenotazioni dall'estero per settembre e un incremento di spagnoli su agosto». Tra saltare il mare e Torremolinos, meglio la seconda. Una sorta di Rimini in brutta copia: albergoni consumati, edilizia disordinata e qualche «launge bar» sulla spiaggia, ingentilito dagli ombrelloni col parasole in paglia. Al ristorante «El Velero» alle 5 del pomeriggio stanno mangiando i camerieri. «Oggi abbiamo lavorato bene dopo 3 giorni sottotono, per fortuna», incrociano le dita. Nella vietta di fronte il vecchio Rafael, titolare dell'Exotic tour, affitta auto e vende biglietti per le gite e i parchi divertimento della costa. «Non è che non si lavora - spiega -, si lavora meno. Al ristorante si ordina un piatto invece che due; al bar si preferisce il pranzo al sacco; ai bagni con le sdraio la spiaggia libera». «Vanno forte però i parchi: Aqualand, Cocodrilos, Sea Life, Bioparc, Parknatur...». Sul lungomare, ora aperitivo, passeggia il tipico turismo da riviera «pop»: ragazzini che puntano la discoteca insieme a famiglie polacche con figli piccoli. Nel frattempo alla «playa macarena» italiani e inglesi si sfidano a racchettoni. «Ci sono più tedeschi e spagnoli del solito, lo vediamo la sera nei locali», conferma un ragazzo di Parma bruciato dal sole. Anche nei posti alla moda delle Baleari il turismo tiene. Ognuno geloso della sua roccaforte: gli inglesi a Ibiza, gli italiani a Formentera, i tedeschi a Maiorca. «Con le turbolenze in Nord Africa molti stanno virando sulle nostre spiagge», raccontano dall'associazione albergatori delle isole. Piuttosto c'è preoccupazione per l'aumento delle tasse aeroportuali: il prezzo di un biglietto low cost può crescere del 40%. «Speriamo di non perdere i last minute. Sarebbe peggio dello spread...».

 

Siria, 200mila in fuga da Aleppo

ALEPPO - Il regime siriano stringe la morsa intorno ad Aleppo, dove l'Onu ha denunciato una vera e propria emergenza umanitaria. Nelle ultime 48 ore, ha spiegato Valerie Amos, responsabile delle operazioni umanitarie del Palazzo di Vetro, 200mila profughi sono fuggiti dalla città e un numero imprecisato di civili rimane intrappolata in rifugi di fortuna, senza cibo né acqua potabile. Secondo i ribelli, l'esercito ha bombardato a tappeto con Mig ed elicotteri numerosi quartieri di Aleppo, dove i combattimenti infuriano da sabato. Intanto, il Libero Esercito Siriano (Les) ha diffuso «una bozza di salvezza nazionale» con una roadmap politica che prevede, fra l'altro, un consiglio di sei militari e sei civili incaricati di guidare la transizione post-Assad. Ad Aleppo gli scontri si sono concentrati soprattutto nel distretto sudoccidentale di Salaheddin: il regime afferma di aver «purgato» la zona ma i ribelli lo hanno smentito. Le truppe governative «non sono avanzate di un solo metro», ha assicurato il locale capo militare del Les, Abdel Jabbar al-Oqaidi. Anche il distretto est di Sakhur è sotto il fuoco di mitragliatrici ed elicotteri mentre dall'alba si combatte vicino il quartier generale dell'intelligence aeronautica a Zahraa. L'opposizione ha annunciato la presa - dopo «10 ore di battaglia» - del checkpoint di Anadan, ritenuto strategico poiché in grado di assicurare libertà di movimento da Aleppo verso la vicina Turchia. L'assedio della seconda città siriana - hub commerciale, perno per il controllo del nord nonché area con una forte presenza cristiana - ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale. Il segretario di Stato Usa, Leon Panetta, ha definito i bombardamenti un altro «chiodo per la bara di Assad». La Francia, che il 1 agosto assumerà la presidenza del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ha annunciato la convocazione di una riunione urgente a livello ministeriale. «Il popolo siriano sta subendo un martirio e il boia si chiama Bashar al-Assad», ha avvertito il titolare del Quai d'Orsay, Laurent Fabius. Anche Ankara prosegue la sua mobilitazione, schierando lungo il confine con la Siria truppe, batterie missilistiche e blindati. Proprio in Turchia, infine, altri 12 ufficiali - fra cui il vicecapo della polizia di Latakia - si sono rifugiati nottetempo, defezionando dal regime.

 

Francia, la difesa del foie gras diventa una questione di Stato - Alberto Mattioli

PARIGI - La Francia? Toglietele tutto, ma non il suo foie gras. Eppure il resto del mondo ha molte perplessità sui metodi per ottenerlo, la famigerata pratica del «gavage», l'alimentazione forzata di anatre e oche, e si chiede se il paradiso dei palati valga l'inferno dei palmipedi. Recentemente ci sono stati dei grossi grassi problemi con la Germania (la fiera di Colonia ha bandito il foie gras) e soprattutto con la California, dove dal 1° luglio una legge vieta la produzione e la vendita del prodotto, indignando i francesi. Le tivù tricolori si sono già esibite in una serie di reportage dalla costa del Pacifico in cui si assicurava che gli irriducibili del foie gras non avrebbero deposto le forchette e che già organizzano il mercato nero e la resistenza in attesa dell'immancabile ritorno nei supermercati al grido di libero foie gras in libero stato. Adesso per il fegato grasso scende in campo lo sponsor più autorevole possibile. Sabato, François Hollande è andato a visitare un'azienda agricola nel Gers, nel sud-ovest, la zona del Paese dove anatre e oche rischiano di più. Come Maria Antonietta pastorella al Trianon, anche i politici francesi democraticamente eletti adorano giocare agli agricoltori, categoria peraltro coccolatissima sia da destra che da sinistra. Quindi Hollande ha indossato prima gli stivaloni e poi, metaforicamente, i panni di crociato del fegato grasso: «Il foie gras - ha dichiarato solennemente - è una grande produzione francese che onora gli allevatori che le si consacrano. Non lascerò mettere in discussione le esportazioni di foie gras, in particolare in certi Paesi o certi Stati in America». E ogni riferimento alla California è puramente voluto. Anche perché «non possono difendere il libero scambio e poi impedire la vendita di un buon prodotto come il foie gras». Hollande ha anche assicurato che «gli allevatori francesi hanno fatto dei grandi sforzi per mettersi a norma, per rispettare tutte le regole che sono state imposte dall'Europa per il benessere degli animali». Resta da capire come far cambiare la legge ai politici californiani. L'idea è quella di prenderli per la gola: «Se sarà necessario, ne farò arrivare loro quanto sarà necessario, e per loro sarà un piacere». Ma lo stesso Président ha poi ammesso che, a parte «convincere» gli americani a toglierlo, non c'è niente di concreto che si possa fare per spezzare l'embargo. In ogni caso, poiché Hollande è sempre Hollande anche quando assume pose da de Gaulle e non rinuncia mai alla sua tipica ironia da timido, ha concluso la sua arringa con una battuta: «Comunque, visto che il foie gras vorremmo consumarlo tutto qui in Francia ma talvolta la mancanza di potere d'acquisto ce lo impedisce, non vorremmo mai privarne gli americani!».

 

Non date per morta l'America - Francesco Guerrera

La città si chiama Aurora ma da una settimana è il simbolo di un'America al tramonto. La follia omicida di James Holmes, lo studente che ha ucciso 12 innocenti e ne ha feriti altri 58 alla prima di «Batman» in Colorado, ha sconvolto una nazione e accentuato la sua crisi di identità. I proiettili sparati dal 24enne con i capelli rossi e gli occhi da pazzo sono echeggiati nei televisori, case ed uffici di un paese che fa fatica a trovarsi ormai da anni. Non più superpotenza economica, senza un nemico chiaro con cui confrontarsi, e con il fiato della Cina sul collo, l'America è attanagliata dai dubbi. L'atto barbarico di Holmes è un'altra batosta alla fragile psiche nazionale, la «prova» che nell'America di oggi nessuno è sicuro, nemmeno in un cinema di provincia del Colorado. Non se è possibile comprare 6000 pallottole per fucili e pistole su internet come fossero buoni del Tesoro. L' esortazione del presidente Obama - l'America deve far fronte al massacro di Aurora come «una grande famiglia» - è sintomatica del momento. Il carismatico «padre» del Paese, l'uomo più potente del mondo, non ha risposte, solo parole. Con l'economia sull'orlo della recessione, il mondo della finanza alle corde e una quasi-guerra di classe tra i ricchi di Wall Street e i sempre più poveri che vogliono «occupare» il capitalismo, sembra naturale concludere che siamo ormai alla fine dell'impero americano. L'intelligencija fa la sua parte, riflettendo e fomentando l'idea che i giorni migliori del paese sono nello specchietto retrovisore. Da ideologi di destra come Pat Buchanan - il consigliere di Nixon e Reagan che ha scritto un libro intitolato «Il suicidio di una superpotenza» - alla sinistra liberal di Thomas Friedman, il columnist del New York Times la cui ultima opera si intitola «That Used to Be Us» (Un tempo questi eravamo noi), il mormorio dei benpensanti è un coro di laudatores temporis acti. Il parossismo, quasi parodico, di questa mentalità è esemplificato in un monologo nella nuova serie televisiva di Aaron Sorkin - il creatore della «West Wing» - ambientata in uno studio televisivo. Parlando ad un gruppo di studenti, il protagonista, un vecchio anchorman incarnato da Jeff Daniels, urla: «Quando dite che l'America è il migliore paese del mondo, non ho la più pallida idea di che cazzo parliate. Il parco di Yosemite?». Ma siamo proprio sicuri che l'America sia in declino terminale? Aurora è un capitolo tragico e la congiuntura economica e finanziaria non è certo favorevole, ma pazzia e recessione non portano automaticamente alla decadenza di un paese come gli Stati Uniti. I molti critici dell'America di oggi fanno un errore abbastanza basilare e ben noto a chi studia economia - confondendo fattori ciclici e fattori strutturali. Mi spiego. Non c'è dubbio che gli Stati Uniti siano in un momento di profonda crisi, economica e sociale. Ed è senz'altro possibile che l'economia Usa ricada nella recessione prima di essersi completamente ripresa dall' ultima contrazione. I numeri sono deprimenti: dai dati sulla fiducia dei consumatori, al tasso di disoccupazione, al moribondo mercato immobiliare. Persino il terziario, il settore dei servizi che ha tenuto l'economia a galla e dato posti di lavoro a milioni di persone per decenni, ha l'acqua alla gola. Basta guardare a Wall Street - che pochi anni fa era una fonte di orgoglio nazionale ed un'aspirazione per tanti giovani ed ora è diventata un sacco da pugile per politici, giornalisti e ragazzi del movimento «Occupy». Attenzione, però, a sottovalutare gli Usa. Chi li dà per morti deve prima considerare il contesto storico. Non è la prima volta che gli Stati Uniti hanno paura di essersi svegliati dal Sogno Americano. La Grande Depressione degli Anni 30, la crisi di fiducia scatenata dalla guerra in Vietnam e il senso d'impotenza rivelato dagli attacchi dell'11 settembre sono tre esempi di momenti critici nel passato di un paese ancora abbastanza giovane. L'America è riuscita a superarli grazie alla flessibilità di un sistema politico - il federalismo - e di un'economia che, a differenza della rigidissima Europa, sono capaci di adattarsi ai tempi che corrono. E' possibile che la storia si ripeta in questo nuovo, difficilissimo, frangente. Un attento osservatore può già notare il cambiamento camaleontico dell'economia americana, da gigante manifatturiero a mostro dei servizi, soprattutto finanziari, ed ora, campione di nuove tecnologie. Non solo Facebook - una società che non esisteva nemmeno dieci anni fa ed Apple (e Google e Microsoft e Twitter etc etc). Ma anche esperimenti come Singularity, un'«università» non a scopo di lucro fondata da scienziati della Nasa, che è specializzata nello studio e nell'insegnamento di nuove tecnologie a gente in carriera. O figure come Ray Kurzweil, l'inventore del software che permise ai computer di «ascoltare» voci umane e di tradurle sullo schermo. Ad una conferenza piena di manager d'impresa il mese scorso, ho sentito Kurzweil giurare di essere capace di «riprodurre» il cervello umano in un computer - una scoperta che, per esempio, potrebbe aiutare a debellare l'Alzheimer ed il morbo di Parkinson. E se il futurismo non fa per voi, ci sono ragioni più concrete per temperare predizioni della fine dell'America. Il fatto, per esempio, che l'Unione Europea non sta proprio benissimo e che l'economia del Giappone è in stato semi-comatoso da decenni. Che persino la Cina ha bisogno dei consumatori americani per continuare a crescere. E che il dollaro rimane la moneta dominante ed il bene-rifugio più importante nell'economia mondiale - un ruolo fondamentale che aiuta l'economia Usa. Senza considerare le ripercussioni sulla crescita economica di una possibile rivoluzione nel campo dell'energia made in Usa, soprattutto se le nuove scoperte di gas naturale e nuovi metodi di esplorazione mantengono le promesse. Chi guarda ad Aurora e vede il tramonto dovrebbe prima darsi un'occhiata intorno.

*caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

 

Al Nord peggiora la qualità dell'aria

ROMA - Peggiora la qualità dell'aria nei capoluoghi in cui è monitorato il PM10 (100 comuni), soprattutto al Nord Italia: nel 2011 il numero medio di superamenti del valore limite per la protezione della salute umana si attesta a 54,4 giorni, in aumento rispetto agli ultimi anni quando invece i valori erano diminuiti dai 68,9 giorni del 2007 ai 44,6 giorni del 2010. L'incremento è in parte dovuto all'andamento dei fattori meteo-climatici nell'Italia settentrionale e soprattutto nella pianura padana. E' quanto rende noto l'Istat nel rapporto 'Indicatori ambientali urbani - Anno 2011', spiegando che i primi dieci comuni per numero di giorni di superamento del PM10 sono tutti del Nord, con Torino e Milano in prima e terza posizione e l'eccezione di Siracusa in seconda posizione. In queste città del Nord, al netto di Alessandria, è stato anche registrato il superamento del margine di tolleranza del valore limite previsto dalla normativa per l'anno di riferimento per il PM2,5. Appena il 17,4% dei capoluoghi del Nord che hanno effettuato il monitoraggio per il PM10 non ha superato la soglia delle 35 giornate, oltre le quali sono obbligatorie per legge misure di contenimento e di prevenzione delle emissioni di materiale particolato (quali la limitazione della circolazione), mentre nel 2010 l'analoga quota del Nord era pari al 31,1%. Il quadro disegna una situazione negativa dei capoluoghi del Nord che non si registrava da almeno 4 anni. Anche nei capoluoghi del Centro, sia pur contenuto, si rileva un peggioramento, mentre nel Mezzogiorno si conferma il trend di lento miglioramento in atto negli ultimi anni. La quota maggiore (63%) dei superamenti del valore limite per la protezione della salute umana si è registrata in corrispondenza di stazioni 'traffico', ovvero di punti di campionamento rappresentativi dei livelli d'inquinamento determinati prevalentemente da emissioni provenienti da strade limitrofe con flussi di traffico medio-alti. Dalla mappa dei capoluoghi secondo i giorni di superamento del PM10 e del limite di tolleranza per il PM2,5, continua il dossier dell'Istat, emerge un gradiente decrescente Nord-Centro-Sud per il primo indicatore e Pianura padana/resto d'Italia per il secondo, pur considerando che nel Mezzogiorno il PM2,5 viene monitorato in un numero molto ridotto di capoluoghi (12 su 47). Questo dipende nella maggior parte dei casi dall'applicazione della normativa, mentre in pochi altri da problemi tecnici alla rete di centraline operante. Nel 2011, per l'insieme dei comuni capoluogo di provincia, si rileva per l'indicatore un valore di 1,9 centraline fisse di monitoraggio della qualità dell'aria per 100 mila abitanti (2,1 nel 2010), con un decremento del numero di centraline, rispetto all'anno precedente, del 9,8%. Considerando i capoluoghi con almeno una centralina, quelli dove la diffusione delle stazioni di misurazione rispetto alla popolazione è più alta (da 6,8 a 11,4 per 100 mila abitanti) sono Aosta, Mantova, Sondrio, La Spezia e Agrigento, mentre nelle posizioni più basse (meno di 1,0) si trovano Napoli, Monza, Torino, Palermo, Milano e Roma. Confrontando, invece, la densità delle centraline (rispetto alla superficie comunale) ai primi posti troviamo di nuovo Aosta (18,7) e La Spezia (9,8) seguite da Pescara (17,9), Trieste (10,7) e Sondrio (9,8), mentre sono in fondo all'ordinamento (meno di 0,4) Enna, Matera, Viterbo, Andria e L'Aquila. Dal 2010 al 2011 cresce da 10 a 13 il numero di capoluoghi non dotati di centraline fisse o con analizzatori non funzionanti. Nel 2011 i giorni di superamento dei limiti, per il PM10, aumentano anche in quasi tutti grandi comuni ad eccezione di Venezia, Catania, Bari, Firenze e Napoli. In particolare Verona, Milano, Trieste, Roma e Torino hanno fatto registrare incrementi che vanno dai 27 ai 60 giorni in più di superamento dei limiti durante l'anno. Gli unici grandi comuni che rimangono al di sotto delle 35 giornate di superamento del limite per il PM10 sono Genova, Catania e Bari.

 

Sanità, strutture da ripensare e ricoveri brevi - Umberto Veronesi

Penso che le liste d'attesa in sanità siano un problema strutturale che non può essere risolto con interventi regolatori estemporanei: decreti e ingiunzioni che stabiliscono tempi massimi non servono. Bisogna intervenire sulle cause e le condizioni che creano nelle strutture ospedaliere l'impossibilità di rispondere al bisogno reale di salute dei cittadini. Da tempo affermo che è necessaria una ristrutturazione profonda del sistema ospedaliero, che rifletta più fedelmente la medicina moderna. Il ruolo dell'ospedale va ripensato nel suo insieme . Innanzitutto la diagnostica deve essere separata dalla terapia e deve essere accessibile «sotto casa», per fare in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di ottenere una diagnosi tempestiva, senza dover affrontare grandi spostamenti. L'ospedale deve svolgere due funzioni : l' approfondimento diagnostico e la terapia. Deve essere altamente tecnologizzato e contemplare ricoveri brevi per avere un ricambio frequente di pazienti, che devono restare in ospedale lo stretto tempo necessario per ricevere le cure adatte alla fase «acuta» della loro malattia. E qui sta la chiave per risolvere il problema delle liste d'attesa : la degenza media in ospedale, dai sei/sette giorni attuali deve ridursi a tre/quattro giorni. Per ottenere questo e dimettere i pazienti precocemente, dovrebbe sorgere nelle vicinanze dell'ospedale una struttura di «accoglienza protetta», dove i pazienti possono restare il periodo che occorre per una buona ripresa, senza occupare un letto necessario per chi si deve sottoporre ad un intervento terapeutico. Questa è la soluzione adottata dai sistemi sanitari più avanzati a livello internazionale ed ha dimostrato di essere ottima per una efficienza globale del sistema ospedaliero. Con una rete diagnostica territoriale e la riduzione drastica della degenza media, il problema delle liste d'attesa per esami e ricoveri si annullerebbe automaticamente. La liste d'attesa sono un problema quasi ovunque e non credo siano influenzate dalla Spending Review. Stiamo parlando di riorganizzare e razionalizzazione un sistema complesso, in fase di profonda trasformazione in tutto il mondo. Bisogna anche sottolineare che questa trasformazione è difficoltosa, ma estremamente positiva per i malati e i loro familiari. Il principio fondante della concezione di ospedale moderno è infatti, accanto all'eccellenza della cura, l' attenzione alla qualità di vita della persona, un parametro fino a ieri inesistente nella progettazione ospedaliera. Certo, la soluzione strutturale profonda ai problemi sanitari richiede un investimento pubblico che in questo momento sembra un'utopia. Al contrario, proprio ora, io credo che sia un dovere investire nel rilancio dei lavori pubblici - in particolare in un'area strategica come la sanità che possono fare da volano a molti settori e contribuire a ridarci il bene più prezioso che la temporanea situazione di crisi ci ha sottratto : la fiducia nel futuro.

 

L'acconto Imu spreme le grandi città - Luigi Grassia

TORINO - L'acconto dell'Imu spreme soprattutto chi vive nelle grandi città. Lo dice un'elaborazioni del Caf Cisl sui versamenti del milione e duecentomila lavoratori e pensionati che si sono rivolti a questo sindacato per chiedere assistenza fiscale. Prima di tratteggiare la geografia del tributo ecco i numeri di sintesi: in media 84 euro di acconti Imu per la prima casa e 161 euro per gli altri immobili. Ma i versamenti sono molto diversificati sul territorio. Dall'Imu arriva una stangata su chi vive nelle città capoluogo, dove sulla prima casa si è pagato in acconto una media del 54% in più rispetto alla media nazionale. Massimo aggravio per i contribuenti romani, che hanno versato il doppio rispetto agli altri italiani. Nella capitale l'acconto medio sulla prima casa è stato pari a 170 euro, il 102% in più della media. Nella classifica delle città più care segue poi Bologna (140 euro per la prima casa pari a un +67% rispetto alla media), quindi Genova (107 euro e +27%) e Napoli (105 euro e +25%). I contribuenti di Milano non si sono discostati moltissimo dalla media nazionale avendo pagato in media 99 euro (+18%). Invece a Palermo l'acconto medio pagato sulla prima casa è stato di 54 euro, al di sotto della media generale del 36% e quello sulla seconda casa di 168 euro, solo il 4% in più della media nazionale. Bisogna tener presente che i dati del Caf Cisl sono rappresentativi solo per i lavoratori dipendenti e i pensionati, cioè delle tipologie di cittadini che si rivolgono ai Caf; la Cisl raccoglie il 18% degli utenti dei Caf nazionali. Anche l'imposta media sulla seconda casa svantaggia pesantemente, nel versamento della prima rata, le grandi città rispetto alla media nazionale: +65% con 265 euro contro 161. Il primo posto dei tartassati spetta anche in questo caso ai proprietari immobiliari romani, con 325 euro versati (+102%), seguiti dai cittadini bolognesi (309 euro, +98% rispetto alla media nazionale). Al terzo posto si piazza Milano (224 euro, +39%) seguita da Genova (217 euro +35%), Napoli (206; +28%) e Palermo (168 euro, +4%). Il Caf Cisl ha elaborato anche la differenza in base al numero dei figli a carico: i contribuenti senza figli hanno pagato circa 91 euro, quelli con un figlio 70 euro, quelli con due 68 euro e quelli con tre o più figli 70 euro. L'ultimo dato riguarda le rate: esiste infatti la possibilità di pagare in tre rate anziché due (soltanto per l'abitazione principale). Solo l'1,6% degli assistiti ha scelto questa soluzione, che prevede un versamento intermedio a settembre. Per i contribuenti le sorprese più amare potrebbero arrivare con il saldo finale, quello di dicembre, quando dovranno adeguare gli importi agli eventuali aumenti di aliquota decisi dai Comuni. Da uno studio di Confedilizia sulle case date in affitto, emerge che gli incrementi rispetto alla prima rata versata potranno essere notevoli: in alcuni casi, come per Roma, Napoli, e Perugia raggiungerebbero anche l'80%. «Dai numeri del ministero dell'Economia elaborati dall'Adnkronos risulta che sugli oltre ottomila Comuni italiani un gruppo ristretto di città, l'1,2% del totale, garantisce un terzo delle entrate, cioè più di 3,2 miliardi di euro. Medaglia d'oro per Roma, con 776,3 milioni di euro, seguita da Milano con 409,9 milioni e da Torino con 202,7. A Genova sono stati raccolti 129,1 milioni, a Napoli 123,2, a Bologna 103,5, a Firenze 93,5 milioni e a Bari 65,3.

 

Corsera - 30.7.12

 

I compiti a casa non sono finiti - Dario Di Vico

Inizia oggi un'altra settimana chiave della complessa vicenda europea e sono almeno due gli elementi di novità che paiono caratterizzarla. Innanzitutto il ruolo della Bce e del suo presidente Mario Draghi che ha saputo porsi nei giorni scorsi come fattore di stabilizzazione delle tensioni e di governance continentale. Dall'altro la dialettica esplicita che si è aperta all'interno della politica tedesca tra una posizione più dialogante come quella di Schäuble e l'intransigenza di Roesler. Capiremo meglio già da oggi il peso di queste novità e che esito avrà il confronto con i mercati, ma intanto è bene dare un'occhiata a cosa accade in casa nostra. L'impressione, infatti, è di trovarci di fronte a un pericoloso calo di tensione. Si è creata l'illusione che sia terminato il tempo dei compiti e sia già suonata l'ora della ricreazione. I segnali sono molteplici. L'agenda dei partiti è confusa, i leader stentano a inquadrare le vere priorità e soprattutto cedono a uno sterile tatticismo. In parallelo fioriscono liste di vario tipo che, se segnalano il protagonismo della società civile e la richiesta di rinnovamento, per ora non brillano per la proposizione di nuove/coraggiose idee. Le parti sociali non riescono a qualificare la loro azione e per farsi notare alzano i decibel delle dichiarazioni. Diversi settori della nostra industria (auto, siderurgia, elettrodomestici) stanno affrontando passaggi estremamente delicati e invece di interrogarsi sulle soluzioni si litiga e si sciopera persino quando la Nestlé offre nuova occupazione. Insomma l'impressione è che in troppi recitino a soggetto, non abbiano capito cosa questo Paese deve veramente fare. Da qui l'idea che fa capolino nei partiti e persino nelle parti sociali di interrompere la legislatura in autunno. Questa suggestione non è sostenuta dalla volontà di imprimere una svolta al risanamento italiano, bensì di prendersi una pausa o al massimo di restaurare le prerogative della classe politica. Il governo Monti in poco tempo ha messo molta carne a cuocere, non tutti i piatti alla fine si sono rivelati di qualità eccellente ma non ha affatto esaurito il suo mandato. Se pensiamo alla spesa pubblica siamo solo all'inizio di un percorso di verifica e riqualificazione, se prendiamo in esame l'abbattimento del debito il cantiere ci appare ancora largamente aperto e se, infine, guardiamo allo stato di salute dell'industria non possiamo che sottolineare come la materia meriti maggiore attenzione di quanta ne abbia ricevuta finora. Monti dunque è bene che continui fino alla scadenza elettorale, sarebbe auspicabile però che attorno a lui i partiti, che pure in Parlamento hanno votato i suoi provvedimenti, continuino a farlo e a sentirsene orgogliosi, nel frattempo però dovrebbe svilupparsi dal basso un sentimento di riscossa nazionale. Non possiamo chiedere all'Europa di credere in noi e poi restare prigionieri del fatalismo. Non ci possiamo permettere un semestre bianco dell'azione di governo ma nemmeno un Aventino della coscienza collettiva. Non è solo questione di spread , di un aggiustamento tecnico dei nostri meccanismi di funzionamento, abbiamo capito che l'Italia per disegnare un futuro per i suoi figli deve autoriformarsi, smetterla di coltivare le illusioni del Novecento e darsi una prospettiva da Paese moderno, giovane, civile e di conseguenza competitivo. Se, come non ci stanchiamo di sperare, ciò avverrà, a quel punto avrà vinto la società più che l'economia.

 

Rajoy, il ruolo di Monti e il domino di Draghi - Federico Fubini

Non è scontato che la decisione in grado di rovesciare il fronte della crisi arrivi questo giovedì. Quel giorno il consiglio direttivo della Banca centrale europea concluderà la sua prossima riunione e tutti sui mercati finanziari aspettano che per allora Mario Draghi, il presidente, comunichi nuove misure dell'Eurotower per sostenere i Paesi sull'orlo del baratro. «Nei limiti del nostro mandato, faremo ciò che serve per salvaguardare l'euro: e credetemi, sarà abbastanza», ha detto Draghi giovedì scorso a una conferenza di Londra. Sarà probabilmente abbastanza, ma non è altrettanto chiaro che sarà quando i mercati finanziari se lo aspettano. Nella sua conferenza stampa di giovedì Draghi potrebbe limitarsi a annunciare alcune misure meno controverse, però non ancora l'avvio di un nuovo programma di acquisti di bond sovrani spagnoli. A questo la Bce sta ormai lavorando a pieno regime, dopo aver interrotto gli interventi l'inverno scorso. Ma sono molti i pezzi ancora fuori posto, nel domino che Draghi ha innescato da Londra tre giorni fa. Non è certo che tutto sarà pronto per giovedì e, in caso di una delusione quel giorno, la reazione dei mercati potrebbe anche essere violenta. La tessera determinante del mosaico riguarda proprio la Spagna. C'è un piano di acquisti di titoli che prevede interventi alle aste da parte dell'Efsf, il fondo salvataggi provvisorio, mentre la Bce fa altrettanto con i bond già sul mercato. In contropartita, la Germania chiede però che il governo di Mariano Rajoy sottoscriva un «Memorandum d'intesa» destinato ad azzerare il poco che resta della sovranità della Spagna sulla propria politica economica. Il protocollo non imporrebbe nuove misure, oltre a quelle del bilancio 2013-2014 che Rajoy varerà già domani. Il governo iberico però dovrebbe sottoporsi alle visite di controllo periodiche (lo chiamano «monitoraggio») dei tecnici di Bruxelles e della Bce, su un calendario che lo vincolerebbe per anni. È un prezzo molto alto per Rajoy. Firmare quella lettera significa per lui abdicare di fatto a un potere che ha inseguito per otto anni, in due elezioni perse (2004 e 2008) e nella terza finalmente vinta solo nove mesi fa. Non è un passo facile per il premier di un Regno che per secoli ha gestito un impero globale. Rajoy sa bene che non ha molta scelta, perché il costo dell'indebitamento spagnolo era ormai fuori controllo prima che Draghi parlasse tre giorni fa. Ma mentre il percorso è definito, è sui tempi che ancora manca la chiarezza. Luis de Guindos, ministro delle Finanze ed ex capo di Lehman Brothers in Spagna, pensa che per firmare la resa debba almeno tenersi un Eurogruppo. Per ora però nessun incontro dei ministri finanziari dell'euro è in agenda, mentre si avvicina il giorno in cui Draghi dovrà dire ciò che la Bce intende fare. Il presidente della Bce ne sta parlando in questi giorni con Jens Weidmann, il suo pari grado della Bundesbank. Lo fa perché la Banca centrale tedesca non intende fare sconti: a costo di violare i vincoli di riservatezza imposti dall'Eurotower, la Bundesbank ha già ribadito che resta del tutto contraria agli acquisti di bond sovrani. È per sbloccare questo impasse che molti in Europa adesso si stanno voltando verso Mario Monti. A Bruxelles e a Francoforte, a Berlino e a Parigi, si spera ancora che il premier italiano convinca il suo collega spagnolo ad accelerare i tempi e piegarsi. Magari anche prima del vertice italo-spagnolo di Madrid proprio il prossimo giovedì. Monti può mediare, ma è improbabile che lo faccia di buon grado: non se per caso iniziasse a sospettare che il postino dei memorandum, la seconda volta, suonerà all'uscio di Palazzo Chigi.

 

La Rai sommersa dalle cause di lavoro - Sergio Rizzo

Ogni mattina gli avvocati della Rai entrano in ufficio e trovano sul tavolo una busta con i bolli del tribunale: un altro dipendente ha fatto causa all'azienda. Il rapporto è ormai di uno a dieci. Ogni dieci dipendenti c'è una causa di lavoro. Nel solo 2010 ne sono arrivate 285 nuove di zecca, 73 in più rispetto al 2009. La conclusione è che alla fine di quell'anno la Rai ne aveva aperte ben 1.309, a fronte di 13.313 dipendenti in tutto il gruppo. IL PROVVEDIMENTO - Sarà la crisi, oppure le conseguenze di un provvedimento approvato due anni fa che ha peggiorato le condizioni degli indennizzi, ma i dati dicono che l'andazzo è andato addirittura peggiorando: l'anno prima ci si era fermati a quota 1.264. E comunque con questa storia i nuovi vertici dovranno fare i conti. Il benvenuto per la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi è una relazione di 157 pagine appena sfornata dalla Corte dei conti nella persona di Luciano Calamaro, magistrato incaricato del controllo sulla tivù di Stato. Appena se n'è avuta notizia l'azienda si è premurata di precisare che quel rapporto riguarda il 2010, cioè un periodo gestionale, chiuso da oltre un anno, attribuibile all'ex direttore generale Mauro Masi. Le cose, hanno fatto sapere, sarebbero assai migliorate. In effetti il risultato economico del gruppo Rai è passato da una perdita di 98 milioni nel 2010 a uno stiracchiatissimo utile di 4,1 milioni nel 2011. Ma i fondamentali restano gli stessi. I COSTI - A cominciare da un costo del lavoro che ha superato di slancio il miliardo di euro: 1.027 milioni, contro 1.014 un anno prima. Il fatto è che pure il piano degli esodi incentivati (ne erano previsti almeno 400), che costano mediamente 108 mila euro a persona, si scontra con la realtà degli accordi sindacali per la stabilizzazione dei precari e delle cause di lavoro che spesso costringono l'azienda ad assumere. Il risultato è che nel 2011 il numero dei dipendenti di tutto il gruppo si è ridotto appena di un centinaio di unità. Mentre l'anno prima, dice la Corte dei conti, gli stipendi pagati dalla sola Rai spa erano saliti a 11.857, contro 11.698 nel 2008: ben 10.110 erano quelli per il personale a tempo indeterminato, 270 in più nei confronti di due anni prima. Ancora. Soltanto i giornalisti in pianta stabile erano 1.675, ma considerando anche i 344 precari si arrivava allo spettacolare numero di 2.019, ridotto un anno dopo a 1.972. Per un costo medio, relativo esclusivamente ai garantiti, pari a 151 mila euro l'anno. LE ASSUNZIONI - Nel solo 2010 le assunzioni a tempo indeterminato in tutta l'azienda sono risultate 430, una novantina in più rispetto a due anni prima, di cui 296 precari stabilizzati. Dal 2008 al 2010 hanno avuto il posto fisso in Rai 1.121 persone: l'11 per cento di tutti gli attuali dipendenti a tempo indeterminato. I tagli vengono dunque subito compensati dalle assunzioni. Ed è chiaro che avere un numero di dipendenti pressoché doppio, in termini omogenei, rispetto al gruppo privato Mediaset, che ha un fatturato decisamente superiore (4 miliardi 250 milioni, contro 3 miliardi 41 milioni della Rai) non può essere considerato un dettaglio. Del resto, non bisogna essere degli esperti di scienze economiche per rendersi conto che a viale Mazzini non nuotano nell'oro. IL BILANCIO - La posizione finanziaria netta alla fine del 2011 era negativa per 272 milioni, con un peggioramento dell'indebitamento di 118 milioni sull'anno precedente. Il che non ha impedito di concludere l'acquisto degli stabilimenti Dear a Roma: 52 milioni e mezzo di euro. Dice la Corte dei conti che c'è un «persistente sbilancio negativo fra ricavi e costi, le cui ripercussioni negative sulla situazione economico-patrimoniale e finanziaria della società stanno assumendo carattere strutturale e dimensioni preoccupanti». Secondo i magistrati contabili «tutte le voci di entrata evidenziano problematiche». E lo «sbilancio» non risparmia nemmeno le trasmissioni che dovrebbero fare, immaginiamo, soldi a palate. Il Festival di Sanremo, per citare un caso. In solo due anni, nonostante introiti pubblicitari per 24 milioni 850 mila euro, la Rai ci ha rimesso la bellezza di 17 milioni 424 mila euro: 9 milioni 580 mila nel 2009 e 7 milioni 844 mila nel 2010. Le perdite causate da uno degli eventi televisivi più importanti della stagione sono stati praticamente pari alle royalty intascate dal Comune di Sanremo, che ha una convenzione in base alla quale la tivù di stato corrisponde al municipio ogni anno per l'esclusiva del festival qualcosa come 9 milioni di euro. IL CANONE - Certo, il bilancio soffrirebbe meno se le entrate del canone non fossero «notevolmente compromesse», per usare le parole della Corte dei conti, «dalle crescenti dimensioni dell'evasione». Un fenomeno che avrebbe raggiunto 450 milioni l'anno. Va da sé che il suo «efficace contrasto», affermano i magistrati contabili, «contribuirebbe a riequilibrare la posizione economico finanziaria della società». Sempre presupponendo, naturalmente, che non si intervenga come forse sarebbe necessario sull'attuale struttura dei costi. Peccato però che «al momento», sottolinea la relazione, «non siano state introdotte misure volte ad arginare il fenomeno». La faccenda in effetti è molto complessa anche per la mancanza di norme specifiche. Ma tant'è. Stime aziendali parlano di un tasso medio del 26,7 per cento, e crescente: era al 26,1 nel 2008 e al 26,5 nel 2009. Nelle Regioni meridionali tocca punte mostruose. In Campania siamo al 44,5%, in Sicilia al 42,2, in Calabria al 39,7. Impietoso è il confronto con le altre televisioni pubbliche europee: in Germania e Regno Unito l'evasione si aggira intorno al 5%; in Francia non supera l'uno per cento. Per non parlare poi del canone «speciale», quello dovuto dagli esercizi commerciali: i mancati introiti qui sarebbero dell'ordine del 60 per cento. EVASIONE - Con le attività di recupero si portano a casa circa 400 mila abbonamenti l'anno. Nel 2010 sono stati, per l'esattezza, 415.001. Ma il numero dei nuovi abbonati così racimolati è appena superiore a quello delle disdette che arrivano ogni dodici mesi: 310.368 nel 2010, 323.545 l'anno precedente e 294.382 nel 2008. Dalla contabilità separata si ricava che con i soli incassi del canone la Rai non riuscirebbe a coprire i costi delle attività del cosiddetto «servizio pubblico». Il disavanzo, secondo i dati ufficiali, sarebbe stato di 364 milioni nel solo 2010. Un piccolissimo contributo per alleggerirlo verrà quest'anno dalla decisione di Anna Maria Tarantola, che si è autoridotta lo stipendio rispetto ai 448 mila euro del suo predecessore Paolo Garimberti. Mentre Gubitosi, dopo le polemiche sul suo trattamento, ha deciso di rinunciare al contratto a tempo indeterminato, accontentandosi dei 650 mila euro l'anno di paga per la durata del mandato. È circa il 9 per cento in meno rispetto alla retribuzione di Masi (715 mila euro). Ma ci sono sempre da fare i conti con la legge che impone un taglio anche alle retribuzioni dei manager delle società di Stato. Sempre che prima o poi il decreto attuativo, già in ritardo di due mesi rispetto alla scadenza prevista del 31 maggio, salti fuori.

 

Firenze cambia volto al medico di famiglia. Nascono gli «ospedali» di quartiere

Giuseppe Remuzzi

In Toscana, grazie a un protocollo d'intesa fra la federazione dei medici di medicina generale e la Regione, presto non ci saranno più medici di famiglia, perlomeno come li abbiamo conosciuti finora. Ma come? Proprio adesso che tanti rimpiangono il dottore di una volta, quello che veniva a casa, ti visitava e passava qualche momento con te? «Un malato grave mi aspettava in un villaggio distante e un forte nevischio riempiva lo spazio fra me e lui. La carrozza c'era e avevo la borsa degli strumenti in mano, stavo già in cortile avvolto nella pelliccia, pronto a partire, ma mancava il cavallo. Il mio era morto la notte prima, per delle fatiche imposte da quell'inverno gelido». Alla fine il cavallo si trova e Un medico condotto del racconto di Kafka arriva a destinazione. «I genitori del malato mi vengono incontro, sono confusi e dai loro discorsi non capisco nulla. Nella camera del malato l'aria è irrespirabile per via della stufa, dimenticata accesa, che fuma. Aprirò la finestra con una spinta, ma prima voglio vedere il malato». Erano così i dottori una volta, non solo quello del racconto di Franz Kafka ma quelli delle nostre campagne e delle nostre valli. LE RICETTE - Ma chi ha tempo oggi di vedere il malato? E allora il più delle volte la gente dal medico non ci va nemmeno più o ci va solo per le ricette, cioè lascia la nota dei farmaci e passa due giorni dopo a ritirare le prescrizioni. E se sta male va direttamente al pronto soccorso dell'ospedale, dove di solito si aspetta anche per ore. Con queste premesse la «riorganizzazione del servizio territoriale dei medici di famiglia della Toscana» è una bellissima cosa. I medici di famiglia si metteranno insieme e così potranno nascere centri sanitari integrati molto più vicini alla gente di quanto non possa essere l'ospedale. In ciascuno di questi centri (se ne prevedono 30 in tutta la Toscana e 10 solo a Firenze) lavoreranno 25-30 medici e poi infermieri e persone di segreteria. In quei centri si faranno anche esami e radiografie, insomma tutto quello che serve per una diagnostica di primo livello. Servirà a ridurre le visite specialistiche e non ci sarà bisogno di correre al pronto soccorso dell'ospedale per ogni piccolo disturbo. I TAGLI - Un po' è per venire incontro alle esigenze della spending review ma non è solo questo, i medici mettendosi insieme con competenze anche un po' diverse potranno assistere i cittadini molto meglio e soprattutto sette giorni su sette. Ci saranno anche meno adempimenti burocratici che saranno condivisi e con persone dedicate e ci sarà tecnologia informatica comune accessibile anche agli ammalati. Chi si rivolge al centro sanitario dovrebbe poter contare su un suo infermiere che dovrebbe seguirlo anche dopo anche con i consigli e attenzione a prevenire le malattie. Insieme i medici di famiglia avranno più tempo per studiare: era ora perché nessuno può fare bene questo lavoro se non studia sempre. L'IDEA - Quella dell'ospedale di quartiere è un'idea che viene dall'Inghilterra, là di esperienze così ne sono state fatte tante e adesso stanno valutando i risultati (e si è già capito che molto dipende dall'impegno e dall'entusiasmo di chi decide di prendervi parte). Da noi l'ospedale di quartiere dovrebbe essere collegato al grande ospedale di quel territorio per assistenza agli ammalati e poi didattica e formazione. Sarebbe bellissimo se la poca comunicazione che c'è adesso fra i medici di famiglia e quelli dell'ospedale si superasse grazie ai centri medici di quartiere, sintesi ideale - la stessa cartella clinica elettronica per esempio - fra i bisogni della gente e la tecnologia dei grandi ospedali.

 

Soru vende la residenza di Villasimius. Vigneti e sabbia bianca: chiesti 24 milioni

Vendesi Villa Soru in Sardegna. Prezzo 24 milioni di euro. Non sarà come Villa Certosa di Silvio Berlusconi ma la residenza dell'ex-governatore della Sardegna non teme confronti con alcune delle più belle dimore italiane. E' quanto scrive oggi il sito del settimanale «Il Mondo» (www.ilmondo.it) . L'annuncio di gennaio, attraverso la Sotheby's International realty, aveva sollevato un certo clamore e aveva acceso anche l'interesse di alcuni imprenditori, italiani e stranieri, interessati a sbarcare nell'isola in grande stile. Ma il prezzo richiesto, pur adeguato alle caratteristiche del complesso messo in vendita, e cioè la villa e decine di ettari di macchia mediterranea sul mare di Villasimius, aveva raffreddato tutti gli interessi. SPIAGGIA BIANCA ED ELIPORTO - Così ora Sotheby's ripropone in vendita la perla di Soru. «Immersa in 42 ettari di vigneti, oliveti e giardini mediterranei, la villa è firmata dall'architetto Antonio Citterio e ha accesso diretto a una delle più belle spiagge della Sardegna»: è la descrizione ufficiale degli intermediari che pongono la property tra una splendida villa da 18,5 milioni pied dans l'eau in Costa Smeralda e una residenza di design da 7 milioni affacciata sull'Argentario. Chi approfondisce la ricerca scopre che la villa di Soru non è grandissima, 450 metri quadrati (oltre a una terrazza sul mare di 300 metri e una dependance di 150), ma può essere leggermente ampliata sulla base del piano casa tanto contestato dall'imprenditore che aveva bloccato tutte le costruzioni vicino al mare. Ovviamente con ritocchi che tengano conto delle scelte di Citterio di integrare nella natura la costruzione che gode di spiaggia privata (200 metri di sabbia bianca) ed eliporto personale.

 

Yemen, un conflitto feroce  dove il rapimento è un'arma frequente - Guido Olimpio

Quando c'è l'annuncio di un sequestro in Yemen gli 007 pensano subito a due scenari già visti. Il primo - più preoccupante - porta a quanti seguono gli ideali di Bin Laden. L'altro chiama in causa i clan tribali, come farebbero pensare notizie - sommarie - giunte dal "teatro". Appena un mese fa i servizi di sicurezza dello Yemen avevano annunciato di aver sventato "13 complotti" contro obiettivi stranieri da parte di Al Qaeda. Progetti di attentato, rapimenti, attacchi contro qualsiasi simbolo occidentale. E dunque il personale diplomatico rientrava nella lista dei bersagli nel quadro della guerra che oppone gli estremisti al governo. UN CONFLITTO FEROCE - Un conflitto feroce specie nel sud dove ci si batte con ogni tipo di arma. Al fianco dell'esercito regolare agiscono le forze speciali Usa - i commandos fanno da consiglieri e partecipano ad alcune operazioni - mentre sono frequenti le incursioni dei droni gestiti dalla Cia. I qaedisti hanno spesso cercato di alzare il tiro prendendosela con le rappresentanze diplomatiche. E nel corso degli ultimi anni hanno impiegato il loro arsenale tradizionale. Kamikaze, tiri di razzi, imboscate ai convogli, sequestri.Tre mesi fa è stato rapito un funzionario saudita in cambio del quale è stato chiesto il rilascio di cinque donne jihadiste. Una trattativa complessa che sembra essere vicino ad una svolta in quanto le terroriste sono libere da pochi giorni. UNA DIATRIBA PERENNE - Colpi di questo genere sono usati dai seguaci di Al Qaeda per mostrare solidarietà ai compagni detenuti e lanciare sfide propagandistiche. Un'azione parallela a quella clandestina. Non bisogna dimenticare che è nello Yemen che sono stati studiati attentati - per fortuna falliti - contro aerei passeggeri americani. Accanto alle sortite qaediste ci sono poi quelle dei clan in rotta con le autorità centrali. Una diatriba perenne. Spesso milizie locali hanno catturato turisti occidentali per ottenere riscatto o la liberazione di affiliati alla tribù. Un vecchio sistema che si rivela sempre efficace e dove i sequestratori riescono quasi sempre a spuntarla.

 

Pussy Riot: le ragazze punk in carcere per la preghiera anti-Putin chiedono scusa

Sono giovani e sono conosciute in tutta la Russia. Fino a poco tempo fa andavano in giro con minigonne colorate, chitarre e bongos improvvisando concerti contro Putin e il potere. Una di queste esibizioni, sul sagrato della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, lo scorso 21 febbraio, è costato loro un arresto. IL PROCESSO - È ressa nel Tribunale a Mosca, per la prima udienza del processo alle tre giovani donne del gruppo punk Pussy Riot, detenute da cinque mesi dopo una provocatoria preghiera punk anti Putin (cantavano "Oh Madonna, liberaci da Putin"). Le imputate, accusate di vandalismo aggravato dall'istigazione all'odio religioso, sono in una gabbia di vetro, nella stessa aula dove fu condannato per la seconda volta l'ex patron di Yukos Mikhail Khodorkovski, la bestia nera di Putin. Proprio nel corso della prima udienza, le ragazze hanno fatto dietrofront e si sono scusate per l'accaduto. IL CASO - Il caso sta dividendo il Paese, come confermano gli opposti slogan gridati anche oggi all'esterno da alcune decine di fan e nemici delle Pussy Riot. Da un lato i vertici del mondo politico-religioso e la parte più conservatrice della chiesa ortodossa russa (tutti indignati dalla sacrilega profanazione) dall'altra l'opposizione liberale, i difensori dei diritti umani, intellettuali e vip dello spettacolo (comprese star internazionali come Sting e i Red Hot Chili Peppers) che chiedono la scarcerazione delle tre donne - due delle quali con figli piccoli - sostenendo che si tratta di repressione giudiziaria. LE SCUSE - Le tre ragazze dietro le sbarre, hanno chiesto scusa, ma non hanno accettato l'accusa di «teppismo». «È stato un errore dal punto di vista etico quello di portare il genere 'preghiera punk' in un tempio religioso, ma non pensavamo fosse offensivo» hanno scritto le tre ragazze in un messaggio letto in aula nel tribunale Khamonichevksi di Mosca. Nadezhda Tolokonnikova, Marija Alekhina ed Ekaterina Samutsevic (questi i loro nomi) rischiano fino a sette anni di carcere. Il 20 luglio il tribunale di Mosca ha ordinato la proroga della detenzione delle Pussy Riot per altri sei mesi, fino al 12 gennaio 2013.

 

l'Unità - 30.7.12

 

Una bolla agita Berlino - Ronny Mazzocchi

Non si prospetta un incontro facile quello in calendario oggi fra il governatore della Bce Mario Draghi e il suo omologo alla Bundesbank, Jens Weidmann. È sufficiente sfogliare le pagine dei principali quotidiani della Germania per capire quale sia lo stato d'animo delle classi dirigenti tedesche di fronte alla ferma intenzione di Draghi di salvare l'euro ad ogni costo. Un'intenzione che può realizzarsi attraverso un probabile ulteriore taglio dei tassi di interesse e politiche più attive sul mercato dei titoli. Se sulla stampa popolare continua a montare la martellante campagna populistica e anti-europea contro l'irresponsabilità e l'inaffidabilità dei popoli e dei governi mediterranei, sui giornali economici più specializzati si fa invece sempre più largo la vera paura che sta attanagliando politici, imprenditori e banchieri centrali: la bolla immobiliare e le conseguenze che essa potrà avere se non verrà sgonfiata al più presto. Già mesi fa la Bundesbank, in uno dei suoi periodici bollettini, aveva lanciato l'allarme segnalando come i prezzi delle case stavano cominciando ad accelerare oltre ogni previsione. Secondo le stime condotte nel 2011, gli immobili nelle grandi città si sono apprezzati di un 5.5% contro il 2.5% dell'anno precedente. Ad Amburgo e Monaco di Baviera l'aumento dei prezzi ha superato il 10% e in alcuni quartieri addirittura il 40%. Ad animare una domanda di case così decisamente sostenuta pesa - secondo Klaus-Peter Willsch, uno dei più ascoltati consiglieri economici della Cdu - la volontà del popolo tedesco di puntare sul mattone come bene rifugio per mettersi al riparo dall'inflazione. Una spiegazione che può avere un suo fondo di verità, ma che sembra essere piuttosto parziale se accompagnata da un altro dato fornito dall'associazione dei mediatori immobiliari: in alcune città più di un terzo degli acquisti di case è effettuato da stranieri. La piccola bolla immobiliare che tanto turba i sonni della Bundesbank non sembra quindi affondare le proprie radici negli incubi del popolo tedesco sull'iper inflazione di Weimar, ma in un combinazione esplosiva fra razionalissimi comportamenti di mercato e debolezze istituzionali della moneta unica. Paradossalmente la Germania si ritrova a vivere in condizioni non molto diverse da quelle già sperimentate dagli odiatissimi Piigs nel decennio scorso. Se andiamo ad osservare cosa sta accadendo ai flussi di capitale internazionale, notiamo infatti come questi negli ultimi mesi abbiano cambiato direzione: se nei primi anni della moneta unica erano i capitali tedeschi a defluire verso l'estero, ora sono gli investitori esteri - famiglie del Sud Europa, ma anche fondi di investimento asiatici e nordamericani - a trasferire i loro capitali in Germania in cerca di quella buona combinazione fra sicurezza ed elevati rendimenti che i Paesi mediterranei non sono più in grado di garantire. La situazione è resa poi esplosiva dal fatto che la Germania, appartenendo all'unione monetaria europea, non può più fare ciò che avrebbe fatto in passato: alzare i propri tassi di interesse per rendere meno attrattivo il mercato immobiliare. È la Bce la responsabile della politica monetaria per l'intera area euro e l'istituto di emissione di Francoforte si trova oggi davanti una situazione del tutto asimmetrica: da un lato un area periferica dell'Europa con una economia in forte contrazione e bisognosa di liquidità, dall'altra un'area centrale che invece è in pieno boom economico. Per uno strano scherzo della storia, Berlino si è così ritrovata nella stessa situazione in cui si sono trovate Madrid e Dublino nel decennio scorso, con tassi di interesse troppo bassi per le loro ruggenti economie e senza strumenti per controllare le banche e le bolle immobiliari ed azionarie che si andavano generando e che - scoppiando - hanno generato la crisi che tutti conosciamo. Il braccio di ferro fra Bce e Bundesbank sta tutto qui: da un lato Draghi che guarda con preoccupazione alla situazione dei Paesi del Sud Europa e che vorrebbe un maggiore intervento per evitare una deflagrazione dell'euro e dall'altro Weidmann, allarmato dalla bolla di casa propria, che spinge in direzione opposta. Entrambi cercheranno di svolgere i compiti che i rispettivi mandati gli affidano: il primo a difesa della moneta unica, il secondo a vigilanza della stabilità monetaria tedesca. Il fatto che si trovino a remare in direzioni opposte dovrebbe però far capire che c'è qualcosa che non funziona nell'assetto istituzionale che regge l'area euro e che - per dare un futuro all'unione monetaria - bisognerebbe porvi rimedio al più presto. Un compito che però non spetta ai due governatori, ma alla politica.

 

«Vietiamo»: la via creativa di Pizzarotti al governo di Parma - Toni Jop

Divieto. Il nuovo passa da questa parola, a dire il vero consumata e non per questo meno tagliente. L'ha usata, com'è noto, il sindaco grillino di Parma, Pizzarotti, inaugurando la sua stagione, giusto per impedire la vendita, sia per consumo interno che per l'asporto, di ogni bibita alcolica dalle 21 alle sette del mattino in alcune strade centrali della città emiliana. Vuole disarmare la movida, sedare il chiasso che disturba, attivare un deterrente al fatto che molti ragazzi inzuppino il loro cervello nell'alcol. Il problema esiste ed è diffuso. Certo, finché nessuno si premura di avvisare quei ragazzi che stanno maneggiando una bomba ben più devastante di una "canna", non si può sperare di uscirne. Poi, lo "sballo" è questione politico-culturale che ha la sua "fabbrica" nei consumi e nella crescente febbre di uscire per quanto si può da un presente grigissimo e compresso. Va capito, conviene offrire alternative alle vie autolesioniste, le serate dei centro-città vanno animate, c'è bisogno che qualcosa accada in quelle piazze e dia un senso alla lucidità piuttosto che al suo tramonto. C'è bisogno di una nuova cultura per impostare risposte non rabberciate, non ripiegate sul divieto, non sdraiate sulla consumistica autosufficienza della repressione. Il Movimento Cinque Stelle è al governo della città, soffia un vento nuovo che spazza le miserie del passato e mostrerà a tutti come un'altra vita sia possibile: è il momento di ungere la realtà con quest'olio benedetto. Pizzarotti ha detto "vietiamo", questa è la via creativa, sapendo che avrebbe semplicemente spostato le truppe della movida da un incrocio all'altro, che i ragazzi si sarebbero pippati l'alcol prima di arrivare a destinazione oppure dietro l'angolo D. Ha spento un pezzo di città e ne ha acceso un altro. Non ci ha pensato troppo su, ha proceduto per intuito folgorante sostenuto dall'illuminazione del suo Grillo Tulsa-Doom. Hanno ragione: non sono né di destra né di sinistra, sono oltre, sono geni, di una genialità di cui la destra, che li ha votati sapendo perché, è ghiotta. Infine, sulla graticola dei blog piagnucolano: perché ci accusate?, lamentano, hanno fatto così anche amministrazioni di centro-sinistra. Bravi: ma non siete saliti su quel podio promettendo che avreste fatto piazza pulita di quella "feccia"?

 

Fatto Quotidiano - 30.7.12

 

Fuga di sponsor e ospiti politici. Il Meeting di Cl declina assieme a Formigoni

Emiliano Liuzzi

Comunione tanta, quella che scende è la fatturazione. Il Meeting di Rimini, la grande adunata di Comunione e Liberazione subisce l'effetto della sua tessera principale, quella di Roberto Formigoni, travolto da inchieste giudiziarie, vacanze, yacht e ville smeralde. Il 2011 la raccolta pubblicitaria fu di sette milioni e centomila euro, quest'anno gli sponsor sono scesi di un milione di euro, lontani dal budget preventivo di 8 milioni e 400 mila euro. L'anno scorso, con l'epopea berlusconiana al tramonto e un Formigoni saldo governatore tanto da poter correre per la leadership del Pdl, fu un tripudio di soldi pubblici che dalle Regioni (sette ), Comuni (tre), Province e due ministeri, vennero destinati a Rimini sotto forma di stand pubblicitari. Quest'anno resistono la Lombardia, con i suoi 84.700 euro stanziati attraverso una delibera di giunta approvata mercoledì, l'Abruzzo - che con tutti i guai che ha da risolvere si ostina a contribuire alla cassaforte celeste - e l'Emilia Romagna che, comunque, con la carica dei ciellini raggiunge l'apice della stagione balneare e un indotto che produce fatture per 80 milioni da euro. Soldi queste tre regioni ne versano, ma sono briciole in confronto allo scorso anno. Tutti gli altri, nonostante una prima promessa iniziale, hanno preferito tenersi alla larga dal Meeting e dalle polemiche. Ma nella contrapposizione dei colori non c'è solo il rosso del bilancio, ma anche la grande assenza del celeste, Formigoni appunto, che a Rimini l'ha fatta da padrone per 32 anni e sessanta dibattiti a cui ha partecipato. È il suo popolo quello che ogni anno si dà appuntamento a Rimini, il suo bacino elettorale, la forza che lo ha spinto fino al piano alto del Pirellone e a un passo dalla leadership del Pdl. In un anno le cose cambiano, ed è successo quello che la scorsa estate non era neppure preventivabile: Roberto, come lo chiamano le migliaia di ragazzi che nel Meeting credono e lavorano, quest'anno è la fonte di imbarazzo, l'uomo della rottura tra quelli che lo assolvono perché "Dio perdona tutti", quelli che più che la giustizia divina aspettano quella giudiziaria, prima di pronunciare la parola colpevole. E quelli che lo accusano di "alto tradimento" della fiducia che in lui avevano riposto, ignari di quello che poteva accadere lontano dai padiglioni di Rimini. Un'estate fa c'erano il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, imprenditori del calibro di Yaki Elkann, il ministro Giulio Tremonti, Angelino Alfano, appena promosso leader del Pdl, il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, Enrico Letta, Maurizio Sacconi, Gianni Alemanno, Piero Fassino, Roberto Calderoli e via via tutti i nomi del potentato d'Italia. Quest'anno le uniche presenze che fino a oggi non sono in discussione sono quella del presidente del Consiglio, Mario Monti, e quella del ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera. Il resto dei dibattiti è riservato a nomi di assoluto rispetto, ma che niente hanno a che vedere con la platea sconfinata dello scorso anno. Il giallo sulla presenza di Formigoni. Per il momento il celeste è dato tra i probabili. Cioè tra quelli che ufficialmente sono stati invitati, ma che non hanno confermato. Difficile che Giorgio Vittadini, anima e portafoglio del meeting e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, non lo sappia. Se una conferma arriverà, il suo sarà un intervento politico su "Lombardia: presente e futuro". E il futuro nessuno meglio di Formigoni può saperlo. Gli sponsor sono in fuga. Il fatturato di Cl, e della sua cassaforte che porta il nome di Evidentia communications, sede a Milano, è in calo. E a leggere le defezioni dell'ultimo minuto, il dubbio che l'effetto Formigoni abbia influito è forte. L'ufficio stampa del meeting parla di crisi, ma in realtà, molti dei privati e pubblici che dovevano versare denaro sono scomparsi. Hanno detto no la Regione Sardegna - che l'anno scorso mise, grazie a un assessore vicino a Cl,100.000 euro - il Friuli Venezia Giulia e il Veneto di Luca Zaia che l'anno scorso c'era. Via anche i ministeri: l'anno passato in piena fase calante berlusconiana, la presidenza del consiglio si inventò la casa welfare, stand nel quale mettevano soldi il ministero del Lavoro, Inps, Inpdap, Inail, Italia Lavoro e la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip). Quest'anno Comunione e liberazione si dovrà accontentare della presenza di Monti. Ma tra le defezioni chi continua a sponsorizzare Cl, noncurante delle polemiche, è la Regione Lombardia. Oltre 84 mila euro per la "promozione turistica della Lombardia", e altre migliaia di euro per gli spazi pubblicitari di Trenord, compagnia ferroviaria partecipata dalla Regione tramite la sua Ferrovie Nord Milano. Da anni ci provano i consiglieri dell'opposizione, ma la delibera che assegna soldi al meeting viene sempre fotocopiata, riproposta e approvata. I soldi dei privati. I colossi che più di tutti contribuiscono alla messa in opera del meeting, oltre agli ottomila volontari che pagano per andare a dare una mano, si chiamano Intesa San Paolo, Enel, Finmeccanica e Wind. A seguire Coop, Trenitalia, Eni e Fiat.

 

Siria, i turisti della guerra sulle alture del Golan con binocoli e telecamere

Marco Quarantelli

Sali fino in cima tenendo gli occhi chiusi, e ti ritrovi in Svizzera. Quassù l'inverno nevica, ma è Israele. L'Anan Cafe è uno chalet in pietra viva, legno e tegole rosse e dentro servono bevande ghiacciate: anche se si arriva in pullman e fa meno caldo che in pianura, l'aria asciutta ti secca la gola, ti prosciuga. Prima di entrare, un signore americano posa sorridente accanto ad un segnale che indica la strada per Damasco, 65 km direzione nord-est. Ne arrivano a dozzine, ogni giorno, al collo hanno binocoli e fotocamere, stranieri ma anche israeliani. Sono i turisti della guerra. Siedono ai tavolini, scrive l'Associated Press, e mentre sorseggiano un espresso all'italiana o una birra ghiacciata guardano la vallata sperando di scorgere il baluginio di un'esplosione: come nella guerra dello Yom Kippur, la vetta del Bental è uno straordinario punto di osservazione e il confine è a un tiro di schioppo. Quassù il conflitto civile in Siria è a portata di macchina fotografica. Monte Bental, 1.165 metri sul livello del mare, alture del Golan. "Siamo venute fin qui per vedere il confine siriano, ci hanno detto che da quassù ci si riesce". Natasha Haugsted è di Copenhagen, gira in autostop con un'amica questa fetta di Israele che secondo l'Onu Israele non è. Strappato con la forza alla Siria nel 1967 con la Guerra dei Sei giorni, Tel Aviv decise una volta per tutte che questo fazzoletto di altipiani era suo nel 1981, quando approvò la Legge delle Alture del Golan, mai riconosciuta dalle Nazioni Unite. I primi ad arrivare nel '67 furono i pionieri: fondarono il kibbutz Merom Golan, che gestisce il caffè. Il confine è tranquillo dal 1974 grazie ad una sottile striscia di terra demilitarizzata controllata dall'Onu, ma tre colpi di mortaio caduti in territorio israeliano lunedì scorso hanno fatto scattare l'allarme. Meir Elakry ha al collo un binocolo. Si confonde tra di loro, ma non è un turista. Ex soldato, vive a 15 km dal confine e sul monte Bental ci è salito per tentare di capire cos'ha in mente Bashar al-Assad: ha paura che il regime siriano decida di rivolgere le armi anche contro Israele. "Voglio sapere se la mia casa è in pericolo - racconta - non penso che Assad se ne starà buono mentre perde il potere". Anche il governo di Tel Aviv ha paura: ieri ha annunciato la costruzione di un muro simile a quello che divide in due Gerusalemme nei pressi del villaggio di Jbatha Al-khashabv (45 km da Damasco) per frenare il flusso dei profughi siriani che scappano dalla guerra. E dato poi che lunedì Damasco aveva annunciato di voler usare le armi chimiche in caso di attacco straniero, Israele teme anche che gruppi di insorti, tra cui membri di Hezbollah, possano avere accesso a quelle armi e lanciare un attacco proprio di qui, sulle alture del Golan. Monte Bental il sangue l'ha visto scorrere a fiumi. Ora al posto delle migliaia di tank che nel 1973 diedero vita ad una delle più grandi battaglie di carri armati della storia ci sono gli autobus degli stranieri, a decine da mattino a sera. Ma anche israeliani in gita con la famiglia, che dalla collina su cui sorge il villaggio di Buqaata osservano le colonne di fumo che si alzano oltreconfine. La moda l'ha lanciata un vip, Ehud Barak, ministro della Difesa e le immagini sono rimbalzate da una tv all'altra creando emulazione. Il più delle volte dai tavolini del caffè non si scorge molto, a parte un tank che pattuglia il confine sollevando nuvole di polvere e i contorni sfuocati di un minareto della moschea di Quneitra, città abbandonata dopo l'annessione israeliana. Eppure il richiamo della guerra è irresistibile. Qualcuno di tanto in tanto un dubbio se lo fa venire. Meredith Haines arriva da Freehold, New Jersey, e gira il Paese con sua madre e una gruppo di concittadini ebrei. Sul monte Bental è salita per guardare verso nord-est, verso la Siria, ma racconta di non sentirsi a proprio agio. "Spendi tutti questi soldi per venire in Israele e senti un brivido addosso quando la guida turistica ti dice: 'Ora andiamo tutti al confine siriano!'. Ma poi, quando sei arrivata qui, pensi che a 50 km al di là di quel confine c'è gente che muore".

 




Data notizia30.07.2012

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