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Politica Italiana


 

Manifesto - 31.7.12

 

Spintarella dagli Usa - Anna Maria Merlo

PARIGI - Eurozona e Usa si preparano a tirar fuori i bazooka per salvare il soldato euro nella settimana «cruciale» per la sopravvivenza della moneta unica. Gli incontri e i contatti politici si moltiplicano, per dimostrare, come ha affermato il presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker che «non ci inginocchiamo di fronte ai falsi medici del mercato, il problema Spagna sarà risolto e questo vale anche per l'Italia». Ma il fronte non è ancora del tutto unito. Alcune falle persistono. Per tapparle, ieri il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, ex presidente della Fed, è andato a Sylt, un'isoletta del Mare del Nord, per incontrare Wolfgang Schäuble, il ministro delle finanze tedesco, che ha dovuto smentire delle dichiarazioni pubblicate da Welt am Sontag, dove si era mostrato freddino sulle proposte di Mario Draghi di azionare il Fesf per acquisire obbligazioni pubbliche dei paesi maledetti, per poi permettere alla Bce di scendere in campo e comprare titoli sul mercato secondario, con lo scopo di tagliare l'erba sotto i piedi alla speculazione e far scendere lo spread. Il governo tedesco assicura che «non bisogna vedere una contraddizione con gli impegni presi al Consiglio europei del 28-29 giugno» e il portavoce di Angela Merkel, Georg Steiner, afferma che «naturalmente, il governo tedesco ha piena fiducia nell'indipendenza di azione della Bce». E' stato meglio dirlo, visto che un eurodeputato tedesco dell'Fdp, il piccolo partito liberale alleato di governo della Merkel, Jörg Uwe Hahn, ha minacciato di rivolgersi alla Corte di giustizia europea per denunciare la Bce se avesse l'ardire di comprare titoli di stato sul mercato secondario. Geithner è andato poi a Francoforte, per dare manforte a Mario Draghi. Tra gli incontri della settimana, oggi c'è il pranzo di Mario Monti all'Eliseo, per consolidare l'intesa con François Hollande, chiaramente schierato per un intervento del Fesf-Mes e della Bce, poi il premier italiano avrà un appuntamento più difficile a Helsinki con il primo ministro Jirki Katainen, quello che aveva chiesto alla Grecia un'isola delle Cicladi in garanzia per dare l'ok al primo piano di salvataggio. Giovedì, Monti sarà sempre in prima linea, con un incontro a Madrid con Mariano Rajoy. Qui dovrà tastare il terreno per capire quando Rajoy si dirà disposto ad accettare l'aiuto europeo, i 300 miliardi che sta negoziando dietro le quinte. La Spagna non vuole sottomettersi a un Memorandum stile Grecia. Ieri, la Commissione ha ribadito che «i governi dell'area euro, la Bce e la Commissione faranno tutto il necessario per preservare l'area euro». Resta da convincere il fortino della Budesbank, che continua a puntare i piedi contro l'avanzata della Bce e del Fesf in un'azione congiunta a sostegno dei paesi maledetti. Draghi e Jens Weidmann, governatore della Buba, «prenderanno un caffè per uno scambio di punti di vista prima del consiglio dei governatori» della banca centrale europea il 2 agosto, ha fatto sapere l'istituto di Francoforte. Juncker, che assicura che Schäuble sarebbe un ottimo successore alla testa dell'Eurogruppo, ha detto che i paesi dell'euro sono «pronti ad agire con la Bce perché il Fesf compri i titoli di debito estero» dei paesi in difficoltà. «Siamo arrivati a un punto cruciale, resta da precisare ritmo e misura». Per agosto, dovrebbero bastare le dichiarazioni che minacciano il bazooka e la ripresa degli acquisiti della Bce sul mercato secondario (il Fesf non ha soldi, ha solo più 200 miliardi in cassa e una parte sono già impegnati per la Grecia), in attesa del Mes a metà settembre. Per Juncker è ora di finirla di prendere in ostaggio l'Europa per scopi di politica interna, a cominciare dalla Germania. Ma dietro i governi ci sono i popoli, dove l'euroscetticismo avanza. Il rischio per l'euro potrebbe proprio arrivare dal disamore dei cittadini, a cominciare da quelli del nord Europa, Finlandia, Olanda, Germania. La Commissione ha reso nota l'ultima inchiesta sull'indice di «fiducia» nell'economia europea: è al più basso, ed è crollato in Germania (meno 3,7 punti), si è abbassato in Francia (meno 2,7) mentre in Spagna i timori sono minori (meno 1,4) e in Italia la sensazione è addirittura positiva (più 1,3 punti).

 

Ma l'euro è davvero fallito? - Sergio Cesaratto*

I mercati si sono ieri ripresi e gli spread di nuovo calati sotto i 500 punti. Questo in seguito alle foto di Merkel e Hollande - che tanto ci ricordano Merkosy - che giuravano che l'euro sopravvivrà, e le coeve dichiarazioni di Draghi che la Bce farà di tutto per salvare la moneta unica. In costoro v'è da credere, così come non deve preoccupare l'opposizione della Bundesbank che super-MarioD, si dice, sta cercando di ammorbidire. Costoro non vogliono infatti far cadere l'euro, ma semplicemente tenere i popoli europei sulla griglia dell'austerità, per cui 450 punti di spread vanno benissimo. Un po' troppi per Monti, a cui andrebbero bene 200, sufficienti per continuare le politiche di attacco a diritti sociali e lavorativi salvando la faccia. Una sinistra autorevole pretenderebbe che la Bce ripristinasse i 25 punti pre-crisi. Senza dimenticare che questo costituirebbe solo il primo passaggio verso la risoluzione della crisi, la quale richiede un radicale ridisegno dell'impianto europeo. L'euforia dei mass media di regime per l'ennesimo evitato crollo dell'euro altro non è che l'ulteriore esempio della disinformazione denunciata dall'appello di martedì scorso su questo giornale. Poiché, inoltre, nulla di concreto è stato deciso, in quanto linea degli annunci appare bastevole a non far scappare di mano la situazione, si ricomincerà presto col balletto degli spread. Che questo cuocere i popoli europei a fuoco lento, questo continuo stop and go, sia voluto è confermato dalle opinioni che qualche giorno fa The Guardian riportava di uno dei più influenti economisti del dopoguerra, l'ultra-liberista canadese e premio Nobel (conferito dalla Banca di Svezia) Robert Mundell. Paradossalmente la teoria della «aree valutarie ottimali» di Mundell viene richiamato proprio da coloro che denunciano l'assurdità di una unione monetaria fra paesi troppo disomogenei (un contributo all'e-book di Micromega Oltre l'austerità discute questa tesi). Avendo forse questo in mente, Draghi ha pochi giorni fa paragonato l'euro a un calabrone che deve ancora imparare a volare. Mundell guarda con sufficienza a tale interpretazione: in verità l'euro sta funzionando benissimo. Esso non è nato per unificare una Europa solidale in una comune crescita sostenibile, ma per fare piazza pulita dello stato sociale, diritti sindacali, regolazioni dei mercati e della finanza, e tutela artistica e ambientale, tutto quello che, a suo dire, gli ha reso la vita difficile durante i soggiorni nella propria magnifica antica villa in Toscana. Che dunque l'euro abbia condotto a una crisi epocale va benissimo. Tutto subito non si poteva ottenere. La liberalizzazione dei movimenti di capitale cum moneta unica ha portato a boom fittizi nella periferia europea, ora indebitati verso i paesi forti. Questo consente ora di far passare misure di contrazione fiscale e di riduzione dei diritti sociali e sindacali prima inimmaginabili. Questo naturalmente vale anche come ammonimento per i lavoratori dei paesi forti: che in Germania sindacato e sinistra non si azzardino a ridiscutere quanto loro stessi hanno implementato alla fine del secolo scorso. Allora tutto torna. L'euro, come afferma Mundell, è il Reagan europeo. L'irresolutezza europea, e quella italiana di Monti, è voluta: si impedisce alla situazione di esplodere, mantenendola sul filo dell'abisso per terrorizzare le popolazioni e assestare il colpo definitivo alle conquiste del secolo scorso. Rimane solo da domandarsi quando la parte maggioritaria della sinistra italiana farà la necessaria autocritica per avere, in buona o cattiva fede, assecondato questi disegni e, soprattutto, cosa dovrà mai accadere perché ritenga la misura colma? Se non ora, quando?

*Economisti oltre l'austerity

 

Monti, ancora uno sforzo - Gabriele Pastrello

Res ad triarios rediit - la lotta torna ai veterani -, così diceva Giulio Cesare. John Belushi invece diceva che quando il gioco diventa duro i duri cominciano a giocare. Ma ambedue sarebbero stati d'accordo nel definire così gli ultimi interventi di Mario Draghi, che ha dichiarato che la Bce farà 'whatever it takes' - qualsiasi cosa serva - a salvare l'euro. Il che significa che la Bce è disposta ad andare oltre regolamenti e trattati e agire nella pienezza delle funzioni del prestatore di ultima istanza. La notizia è positiva in quanto conferma ciò che si poteva solo supporre, cioè che c'è qualcuno che non ha perso la testa in deliri elettoralistici come il governo tedesco, pronto a distruggere l'Europa per vincere alle prossime elezioni, o in deliri ideologici come tanti economisti, tedeschi e no. Ma, detto questo, va ribadito che la situazione resta terribile. Siamo in alto mare e in gran tempesta. E bisogna resistere alla visione, che può balenare, di un porto tranquillo: la moneta nazionale svalutata del 20% o più; una banca centrale con sovranità monetaria e controlli sui movimenti di capitali; cioè l'uscita dall'euro. Una situazione davvero desiderabile. Ma tra l'alto mare in tempesta in cui siamo e quel porto c'è di mezzo un tifone, e in quel porto abbiamo pochissime probabilità di arrivarci vivi. Un ritorno alla lira comporterebbe una svalutazione almeno del 20%, che potrebbe anche aumentare. Dopo di che non ci metterebbe molto a svilupparsi un'inflazione a due cifre, cosa di cui i disastrati bilanci delle famiglie italiane non hanno assolutamente bisogno. Il passaggio da euro a lira comporterebbe inoltre un aumento del debito pubblico italiano, che dal 120% del Pil potrebbe andare verso il 150, e forse anche oltre. Il che implicherebbe una insostenibilità del servizio del debito, e il default; oppure una monetizzazione del deficit che, nelle condizioni date, potrebbe rinforzare le tendenze inflazionistiche originate dal lato del cambio. Inoltre, siccome abbiamo un deficit di bilancia commerciale, una caduta dell'afflusso di capitali esteri verso l'Italia ci costringerebbe a ulteriori manovre restrittive per ridurre il deficit estero. C'è inoltre il problema dei debiti denominati in euro verso creditori esteri che difficilmente accetterebbero la trasformazione in lire, con una coda infinita di contenzioso. Inoltre, tenuto conto che molte nostre imprese sono inserite in reti internazionali, il passaggio da una moneta di riserva mondiale a una non tale potrebbe provocare, quantomeno a breve, una disorganizzazione della produzione. Solo risolti tutti questi problemi potremmo godere degli effetti positivi di una svalutazione. La conclusione è che dobbiamo cercare di affrontare la situazione in Europa e nell'euro, qui e adesso. Il primo punto è che il dogma ortodosso che con la manovra sui tassi di interesse si mantiene la stabilità finanziaria e, al tempo stesso, si rilancia l'economia è stato chiaramente smentito dalle vicende europee post-dicembre 2011. Il finanziamento della Bce di mille miliardi alle banche ha ottenuto quantomeno fino a primavera l'obbiettivo di sfiammare lo spread tra i titoli tedeschi e gli altri, ma non ha rilanciato l'economia europea in presenza di manovre fiscali restrittive, di banche che si trattengono la liquidità creata dalla Bce, mentre la domanda di credito sta crollando. La rischiosa scommessa del centrodestra europeo di compensare con bassi tassi l'austerità fiscale, al prezzo ridotto di limitati rallentamenti delle economie, e di squilibri sociali controllabili, è stata chiaramente persa. A questo punto, se Monti volesse diventare davvero uno statista dovrebbe abbandonare le sue posizioni preconcette. Le economie europee, e quella italiana in particolare, hanno bisogno di stimoli diretti. Gli unici stimoli keynesiani che non funzionano, pace Giavazzi, Alesina e Zingales, sono quelli che non vengono fatti. Perfino Confindustria potrebbe essere d'accordo su un ampio piano di lavori di manutenzione del territorio: ponti, strade, scuole ospedali etc; magari mobilitando in qualche modo le risorse della Cassa depositi e prestiti. Certo, bisogna chiedere al più presto l'attuazione dello scudo anti-spread, ma non basta. Va iniziato un confronto in Europa sull'ideologia dell'austerità; va rivendicato il diritto al rilancio delle economie dei propri paesi. L'Europa va fatta con paesi vivi. Il rischio è che gli attacchi speculativi vengano rintuzzati una, due, qualche altra volta, ma che l'economia europea entri in una stagnazione prolungata e che, alla fine, anche gli attacchi speculativi passino. Non basta dire: basta sacrifici. Bisogna passare agli stimoli. Parafrasando quello che un tale disse durante la Rivoluzione francese: Monti, ancora uno sforzo!

 

È il tempo giusto per tornare al proporzionale - Massimo Villone

Lo speciale borsino della legge elettorale segue i mercati finanziari, ma in proporzione inversa. Se lo spread sale, la probabilità che si vada a votare con una legge nuova scende; se lo spread cala, la probabilità aumenta. La variabile decisiva è il tempo. Se la crisi si aggrava, cresce la spinta a votare presto, magari già a novembre; il contrario, se c'è qualche segnale di miglioramento. Il tempo disponibile per cambiare il sistema elettorale non si calcola però guardando alla data del voto, ma a quella della indizione delle elezioni e della convocazione dei comizi elettorali, che cade almeno 45 giorni prima del voto, e che segna l'inizio delle procedure preelettorali. Anche se la nuova legge volesse abbreviare i termini oggi previsti, potrebbe farlo solo in minima misura. Il tempo necessario per la presentazione di liste e candidature e per la campagna elettorale è sostanzialmente incomprimibile. Quindi, se si votasse all'inizio di novembre, la nuova legge dovrebbe essere stata approvata, promulgata e pubblicata entro la prima metà di settembre. Una probabilità abbastanza remota. Sarebbero poi impossibili innovazioni radicali come un ritorno al collegio. A meno di non riprendere il Mattarellum, disegnare la mappa dei collegi aggiungerebbe almeno un paio di mesi ai tempi minimi necessari. La discesa in campo, da ultimo, di Mario Draghi e della Bce potrebbe concedere qualche tempo maggiore a un intervento legislativo. I punti su cui si concentra la discussione sono due: le liste bloccate e l'incentivo maggioritario alla governabilità. Tutti concordano che un parlamento di nominati sia intollerabile. Per di più, la nomina non garantisce la fedeltà del nominato. E dunque le liste bloccate non hanno impedito i tradimenti e i cambi di casacca. Ma come uscirne? Il voto di preferenza sembra l'ovvia risposta. Una lista di candidati tra cui l'elettore sceglie, e risulta eletto nella lista chi prende più voti. Si è votato così per il parlamento fino al 1992, si vota così oggi per i consigli comunali e regionali. Ma cosa significherebbe in concreto? Oggi nessun soggetto politico è in grado di governare nel suo complesso il meccanismo delle preferenze, orientando le scelte degli elettori. In partiti evanescenti i gruppi dirigenti a tutti i livelli sono troppo deboli per farlo. Cosa ne segue? Come appunto accade per i consigli regionali e comunali, la campagna elettorale si frantuma in una serie infinita di micro-campagne personali, in cui il peso prevalente viene espresso dai potentati locali del partito. I costi della campagna elettorale aumentano in misura esponenziale, con tutto quel che ne segue poi - dopo il voto - nella vita delle istituzioni. Per di più, la preferenza unica - oggi adottata per i consigli degli enti territoriali - scatena la competizione all'interno di ciascuna forza politica. Capi e capetti misurano i rapporti di forza in base ai candidati a ciascuno riferibili. E le assemblee elettive assumono una marcata connotazione neo-notabilare, in cui quel che conta davvero è il pacchetto di consensi di cui personalmente si dispone. Un parlamento eletto in base alla preferenza non sarebbe diverso. È questo il parlamento che vogliamo? Soprattutto, è questo il parlamento che serve, in un momento di grave emergenza per il paese? Di fronte a una crisi che si prospetta ancora lunga e che, nel pensiero unico dominante, chiederà ancora "sacrifici" con perdita per tanti di conquiste sociali e diritti? Certamente no. Per questo, ad avviso di chi scrive, tra la preferenza e il ritorno a un modello fondato su collegi quest'ultima opzione sarebbe comunque preferibile. Alle difficoltà di prospettiva l'opinione prevalente risponde poi affermando la necessità di mantenere i presidi alla governabilità e stabilità. In breve, consolidare l'impianto bipolare, affidare agli elettori la scelta di chi governa, assicurare la gruccia di un premio di maggioranza. Poco importa che queste parole d'ordine siano state ripetutamente smentite dall'esperienza di quasi vent'anni. Le sentiamo ancora tal quali. Qui troviamo una singolare contraddizione. Perché abbiamo una "strana maggioranza" che vede insieme a sostegno dello stesso governo i due corni del sistema bipolare. E nessuno dubita che nell'emergenza di lunga durata che abbiamo di fronte si prospetti la necessità di convergere a sostegno di risposte e interventi largamente condivisi. Eppure, si afferma la preferenza per modelli che radicalizzano lo scontro, e confermano il bipolarismo coatto e di trincea che da tempo viviamo. Che senso ha un premio di maggioranza che gonfia i numeri parlamentari di chi vince oltre i voti conseguiti e deruba chi perde di un eguale numero di seggi, se poi bisogna avere il più largo sostegno per un medesimo governo e per le sue politiche? E quale maggiore stabilità può dare un bipolarismo costruito emarginando o negando la rappresentanza di forze che si presumono antagoniste, e per definizione inidonee per scelte di governo? Crediamo davvero che cancellarne i seggi varrebbe a cancellare la domanda sociale che in esse si esprime? Il tempo dell'emergenza richiede istituzioni adeguate, la cui forza non si risolve nell'aritmetica parlamentare. Il buon senso dice che questo è il tempo giusto per tornare al proporzionale, a una piena rappresentatività dell'assemblea elettiva, a maggioranze e governi che si formino per accordi nella sede parlamentare e non siano ingessati dallo scontro elettorale. Queste sono le istituzioni giuste per l'emergenza. La saggezza dei padri fondatori ci aveva consegnato un sistema che bene risponderebbe, come infatti bene rispose nella gravissima crisi del 1992. Speriamo che i patrigni di oggi non combinino troppi pasticci.

 

Debito e Pil, quattro punti per cambiare - Aldo Carra

Le analisi sulla crisi si susseguono e possiamo dire che a sinistra esiste ormai una condivisione abbastanza diffusa. Capita, però, di avvertire alla fine di molte analisi, anche molto interessanti come ad esempio l'ultima di Guido Viale, una sensazione di impotenza a cambiare veramente il corso delle cose. Gli aspetti ormai comuni a gran parte della sinistra sono due. Il primo è che da questa crisi non si esce con l'austerità. Ormai non ci sono più dubbi: la crisi è nata negli Usa che, per salvare le banche, hanno accresciuto il loro debito, dal 2007 al 2011, di ben 6.116 miliardi di dollari, un ammontare pari alla somma dei debiti complessivi attuali di Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo; l'offerta di una massa così enorme di titoli ha creato un effetto propagazione che ha generato nel mondo maggiori debiti per 20.657 miliardi; poiché nel frattempo il Pil mondiale cresceva di 13.982 miliardi ed i risparmi di soli 3.148 miliardi, si è creato un forte squilibrio tra domanda ed offerta che ha causato la corsa verso i titoli più affidabili e scaricato la crisi in Europa, dove alcuni paesi avevano situazioni debitorie antiche e tollerate che adesso sono diventate insostenibili. Se questo è lo scenario è chiaro che dalla crisi non si può uscire con politiche di austerità che mettono in ginocchio prima i paesi più indebitati e poi a catena anche gli altri. Da qui scaturisce il secondo aspetto: il ricorso a governi "tecnici" può solo servire a far passare misure severe che i politici non hanno la forza di assumere, ma non risolve né i problemi del debito né quelli dello sviluppo. Così i bei titoli dati ai provvedimenti presi - SalvaItalia, CrescItalia, Calmaspread - sempre più somiglianti a prodotti farmaceutici da banco, hanno avuto il sapore amaro delle medicine, ma non hanno migliorato per niente lo stato di salute dell'economia. La constatazione che ne discende è che da questa crisi non si potrà mai uscire assumendo il solo debito come unico male da curare. Tutto questo dimostra che la superfetazione finanziaria del capitalismo lo sta portando in un vicolo cieco ed a sinistra possiamo trarne la conferma che mercato e liberismo non sono la ricetta del futuro e che occorre cambiare modello di sviluppo. Fin qui tutto ok. Ma da qui in poi cominciano i problemi perché se le analisi appaiono solide e condivisibili, non altrettanto si può dire delle proposte. Il dibattito a sinistra finora ha prodotto idee sulla riconversione ecologica, sulla redistribuzione sociale, sull'economia partecipata, sullo sviluppo dell'economia di territorio valorizzando, come esemplari, alcune esperienze che contengono germi di nuova economia (Gas, Gat, cooperazione sociale...). Ma è sufficiente valorizzare questi germi per generare una mutazione epocale e strutturale dell'economia nell'era della globalizzazione? Possiamo fermarci nelle nostre analisi a questo punto senza chiederci perché le interessanti esperienze in atto non riescono a fare massa critica, a creare realtà diffuse di nuovi stili di vita, di nuove produzioni e di nuovi modi di produrre? Ed inoltre, pensiamo che questo avverrà come sbocco naturale di una evoluzione lineare di queste esperienze o non dobbiamo affiancare ad esse anche un altro percorso? Naturalmente chi scrive pensa questo ed allora, nei limiti propri di un articolo, vorrei chiedere se possiamo concentrare la nostra attenzione su alcuni nodi che è necessario sciogliere per poterne poi far discendere proposte concrete. Per sollecitare questa ricerca provo a sottoporre alla discussione quattro punti: a)- il ruolo che le forze imprenditoriali, cooperazione compresa, dovrebbero svolgere nella trasformazione del modello di sviluppo. Si tratta di valutare se e come costruire relazioni/alleanze/convergenze con tutti gli imprenditori disponibili ad investire in settori che producono beni e servizi del futuro, realizzando modelli organizzativi di produzione partecipata. Si tratta di dare concretezza all'idea di nuovi prodotti e servizi, realizzati in modo nuovo, e di far uscire il tema delle alleanze dal politicismo con cui esso viene oggi affrontato. b)- il ruolo che in questa mutazione spetta agli enti locali. Essi si dibattono oggi in difficoltà che rischiano di aumentare ancora vanificandone la funzione. Proprio per questo diventa necessario che essi agiscano con una nuova cultura di "imprenditori territoriali" che sollecitano ed organizzano le risorse del territorio mettendo in moto lavoro volontario, risorse economiche ed imprenditoriali ed attivando progetti ambiziosi di sviluppo e di valorizzazione per far intravedere ai soggetti economici l'utilità di investire oggi per trarne benefici futuri. Si tratta, cioè, di riconvertire la funzione stessa delle istituzioni locali da strutture di erogazione di assistenza e di servizi a strutture che, senza rinunciare a quelle funzioni, riescano a promuovere sviluppo economico e qualità dei servizi e della vita nel territorio. c)- il ruolo dello stato e dell'Europa. Una politica come quella prospettata difficilmente potrà fare a meno di incentivi pubblici. Questi incentivi oggi ci sono, anche se ridotti, e si tratta di pensare ad un neokeynesismo fatto non più di elargizione di risorse per alimentare i consumi, ma di finalizzare gli incentivi alla trasformazione del modello di sviluppo. E' necessario, per questo, che la sinistra affronti il tema della individuazione dei settori, produttivi di beni e servizi che dovranno caratterizzare il nostro futuro, proponendo modelli di relazioni tra mondo della produzione e mondo delle ricerca per realizzare nuovi prodotti e nuovi modi di produrre. Si tratta, quindi, di costruire una funzione nuova per l'incentivazione trasformandola in strumento per indirizzare l'economia verso la riconversione e la sostenibilità sociale ed ambientale. d)- Un altro nodo da affrontare è quello del lavoro e della sua ripartizione. Tra lavori pesanti e sottopagati scaricati sugli immigrati, precarizzazione irrefrenabile del lavoro, crisi profonda della funzione sociale e di aggregazione dei luoghi di lavoro, ghettizzazione tra i "protetti" di quel poco di lavoro regolato e regolare che rimane, si dovrebbe avviare una discussione molto aperta sulla redistribuzione del lavoro non solo in termini di orari, ma come ripartizione dei carichi tra uomini e donne, tra giovani ed anziani, tra lavori produttivi e lavori sociali. Un nuovo modello di sviluppo non dovrebbe prescindere da un nuovo modello di ripartizione del lavoro tra gli individui di una società. Naturalmente quelle accennate sono solo indicazioni di massima da sviluppare. Dovremmo farlo, però, rapidamente perché se è vero che il liberismo non sa più dove mettere le mani per uscire dalla crisi, è anche vero che la sinistra non può fermarsi alle giuste analisi, ma deve indicare un percorso di riconversione capace di coinvolgere soggetti sociali ed imprenditoriali e deve farlo a livello sovranazionale e quantomeno a livello europeo.

 

Ilva, avviato il sequestro - Gianmario Leone

TARANTO - Dopo un week-end di calma apparente, è tornata a salire la tensione a Taranto sul caso Ilva. Nella tarda mattinata infatti, i custodi nominati dal Gip sono entrati in fabbrica per dare il via alle procedure di sequestro degli impianti. Con i carabinieri del Noe che hanno apposto i cartelli di sequestro in applicazione dell'ordinanza dello stesso Gip. E con gli operai che hanno dato vita ad un'assemblea per discutere il da farsi. Barbara Valenzano ed Emanuele Laterza, ingegneri dell'Arpa Puglia, Claudio Lofrumento, funzionario del Servizio impiantistico e Rischio industriale del Dipartimento provinciale ambientale di Bari, e Mario Tagarelli, presidente dell'Ordine dei commercialisti di Taranto incaricato della gestione degli aspetti amministrativi e della gestione del personale: sono questi i custodi nominati dal Gip per «avviare le procedure per il blocco delle specifiche lavorazioni e per lo spegnimento». Il primo passo per eseguire il sequestro di sei impianti dell'area a caldo. I quattro, giunti all'interno del siderurgico, hanno incontrato i dirigenti Ilva per concordare le procedure di chiusura degli impianti, che richiederanno tempi lunghissimi. I custodi, infatti, sono stati incaricati dal Gip «di sovrintendere alle procedure, osservando le prescrizioni a tutela della sicurezza e dell'incolumità pubblica e dell'integrità degli impianti». Onde evitare fraintendimenti di sorta, è bene chiarire che l'inizio delle operazioni non vuol significare che gli impianti e le aree in questione saranno off-limits. L'ordinanza prevede una direttiva di accesso condizionato, con «figure tecniche e professionali Ilva che possono continuare ad accedere laddove è operativo il sequestro». E' probabilmente l'arrivo dei custodi il motivo per cui è saltato l'incontro programmato per ieri, per «impegni sopravvenuti», tra il presidente Ilva Bruno Ferrante e gli inquirenti. Un primo approccio per tentare di concordare un crono programma per mitigare gli effetti dei provvedimenti giudiziari. Ma dalla procura hanno ribadito ancora una volta come il dialogo non dovrà essere scambiato per una trattativa. Intanto, nella mattinata di ieri, una delegazione di lavoratori ha assistito alla seduta del consiglio comunale, dove un operaio ha aperto il dibattito ringraziando la città per la solidarietà mostrata e confermando come i lavoratori siano a favore della difesa del lavoro e della tutela dell'ambiente. Tutt'altro che semplice invece, si è rilevata la definizione del documento unitario da sottoporre all'approvazione del consiglio. Dopo oltre 4 ore di dibattito e polemiche tra il sindaco Stefano e Angelo Bonelli (che ha denunciato «la situazione di emergenza ambientale e sanitaria gravissima che solo la magistratura ha avuto il coraggio di affrontare»), il Consiglio ha approvato un ordine del giorno sulla «preoccupante situazione ambientale e produttivo-occupazionale verificatasi in seguito alle vicende dell'Ilva». Il documento impegna il sindaco «a compiere tutti gli atti necessari per il governo del territorio e dell'ambiente in una visione che coniughi il diritto al lavoro con quello alla salute entrambi costituzionalmente garantiti». Nel documento, approvato con 23 voti a favore, 2 astenuti e 3 contrari, si esprime «solidarietà umana e istituzionale ai lavoratori Ilva e alle famiglie delle vittime dell'inquinamento ambientale». Si impegna inoltre il sindaco a «vigilare sul pieno e puntuale rispetto degli accordi e degli impegni pubblici oltre a quello della parte privata informando costantemente il Consiglio affinché possa seguirne gli sviluppi». In contemporanea si è riunita anche la giunta provinciale, allargata ai capigruppo di maggioranza e opposizione. Anche in questo caso è stato espresso «l'auspicio che si attui ogni iniziativa utile ad il dramma dell'occupazione e, dall'altro, di proseguire il percorso di ambientalizzazione del siderurgico». Insomma, il solito linguaggio politichese per dire tutto e niente, senza prendersi le dovute responsabilità. Ma ieri è stata anche la giornata di Confindustria Taranto. L'organizzazione degli industriali tarantini, molti dei quali operano con le proprie aziende nell'indotto del siderurgico, hanno espresso «grande preoccupazione di tutto il mondo economico tarantino», all'interno di un'assemblea generale delle imprese, per le eventuali ripercussioni produttive del sequestro. Saltata, invece, la conferenza stampa dei sindacati mentre la manifestazione del 2 agosto si farà, esattamente 24 ore prima del riesame, quando dinanzi ai giudici si discuteranno i ricorsi contro il decreto di sequestro e l'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari per gli otto indagati. La decisione del riesame dovrà arrivare entro 10 giorni dal deposito degli atti da parte della Procura che avverrà oggi. E sempre questa mattina, a partire dalle 11, ci saranno i primi interrogatori di garanzia.

 

Ilva, i corni del dilemma - Rossana Rossanda

«Purché le due cose - difesa dell'occupazione e difesa dell'ambiente - vengano fatte insieme». Così scrive Alberto Asor Rosa, in occasione del dilemma fra chiudere l'Ilva smettendo di contaminare la zona o lasciarla aperta contaminandola. E ricorda che un dilemma simile si era verificato in val di Chiana, sul riuso di uno stabile dismesso, proposto da un'impresa che si occupava di biomasse e che aveva visto gli ambientalisti chianini disturbati da una invasione di disoccupati che volevano lavoro. Giusto dunque operare insieme per lavoro e natura. Ma a chi si parla? Mi si permetta di protestare quando ci si rivolge, in ugual modo, alla proprietà e agli operai e ai loro sindacati. È un pezzo che anche questi sono accusati di essere stati "sviluppisti", e quindi avvelenatori del pianeta, anche da parte di noti padri della patria. Come se fossero loro a decidere se aprire o chiudere una fabbrica, e a determinarne le linee e l'organizzazione della produzione, nonché la distribuzione. Ma non sono loro affatto! Non essendo in condizioni di investire, può investire e decidere su che cosa produrre sempre e solo la proprietà del capitale. Agli operai non resta che afferrare un salario, se se ne presenta la possibilità, vendendo la propria forza di lavoro; salario con il quale vivono, non avendo altri redditi, e del quale quindi non possono fare a meno. La fabbrica inquina o, peggio, infetta? Non sono loro né a infettare né a smettere di infettare, non hanno scelta se non combattere, come hanno fatto al Petrolchimico di Marghera. Ma è difficile chiedere loro di cambiare l'azienda, da cui traggono quel misero salario in cambio di niente. Ed è perfettamente ipocrita chiedere loro di produrre pulito, produrre ecologico. Essi non hanno scelta, e se sono messi davanti a quella di perdere il lavoro o rischiare di avvelenarsi, rischieranno prima di avvelenarsi, salvo battersi poi per rischiare di meno. Non possono fare altrimenti. Per questo non parlerei di alleanza fra operai e capitale. Nella difesa di una produzione sporca, gli operai non sono "alleati" con la proprietà sono "ricattati" dalla proprietà. Quando Viale o altri dicono: si produca meno o si passi a una produzione ecologicamente sana, si cessi di inquinare il pianeta, a chi parlano? Seriamente? Seriamente possono parlare soltanto alla proprietà, privata o pubblica, diretta o per azioni, nazionale o multinazionale, e solo ad essa, i salariati non potendo decidere né che cosa né come né dove produrre. Sì, qualche volta hanno cercato di farlo, come nel '69, ma sono stati sconfitti dai padroni, dal governo, dalla stampa, in nome della democrazia, e la loro lotta è stata subito dopo resa sempre meno possibile dai licenziamenti in massa che sono seguiti. Chi si ricorda che la Fiat aveva allora 129.000 dipendenti? Ora, ci informa Gabriele Polo, ne ha circa 15.000. L'operaio è meno di un uomo libero, lo è meno di un altro cittadino. Da un mese a questa parte, dopo la vittoria dei socialisti in Francia - socialisti, non bolscevichi, anzi un po' meno di socialdemocratici delle origini - il padronato dichiara in difficoltà una dozzina di grandi imprese. E ristruttura. Licenziando. Esempio: la Psa automobili (Peugeot +Citroen) ha annunciato ottomila "esuberi", tra l'altro chiudendo del tutto il sito di Aulnay, alla periferia di Parigi, del quale ha occupato più di metà della superficie. Poiché per un occupato nell'automobile licenziato si calcolano altre quattro perdite di posti di lavoro (dal panettiere, macellaio, fruttivendolo del sito, all'indotto vero e proprio) la Psa decide dunque di aumentare i disoccupati di circa 35.000 persone. Il governo protesta, e si dichiara disposto a una serie di aiuti soltanto a condizione che la Psa imposti la produzione in vetture elettriche, riducendo il noto inquinamento della benzina o diesel. Zac, il presidente del consiglio d'Europa, Rompuy, assieme all'altra testa fina che dirige la Commissione, Manuel Barroso, aprono un'inchiesta se ha diritto di farlo o no, per le conseguenze che questa condizione potrebbe avere sul mercato. L'altra grande azienda automobilistica, la Renault, che ha probabilmente commesso meno errori nella produzione, ha fatto in questi giorni un contratto con la Corea per le batterie che le servono per la medesima, il governo si dice d'accordo, ma a condizione che la proprietà coreana produca in Francia. Apriti cielo, protezionismo! Nessuno osa dire in questo luglio fatale: menomale che meno automobili escono dalla fabbrica. Fanno troppo spavento le facce stravolte di chi ha lavorato dieci o venti anni per Peugeot o Citroen e si sente dire di colpo che sarà licenziato, e sa che di lavoro difficilmente può trovarne un altro. Ma nessuno neanche dice che i responsabili di questo disastro umano, e del peso che ne deriverà per i conti pubblici, sono i signori del Cac 40, le proprietà quotate in borsa. I "mercati" sembrano incorporei, quanto per il Vaticano lo spirito santo, che come loro spira dove vuole. Si deve essere ecologisti. Ma quindi anticapitalisti. O, come minimo, sostenitori di una primazia del pubblico sull'economico, in modo da determinarne l'indirizzo e la non dannosità per l'ambiente. Perché non si dice anche questo? Perché dal 1989 in poi non si ha più coraggio di dire nuda e cruda la verità sul meccanismo dell'impresa del capitale, nonché sulla rinuncia della sfera politica, continentale o nazionale, a controllarle. Per l'Ilva, come qualche anno fa per la val di Chiana, non c'è dilemma fra lavoro e ambiente, c'è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l'uno o l'altro, o tutti e due.

 

«Una fabbrica così negli Stati uniti sarebbe già stata chiusa» - A.Po.

Antonio Giordano è figlio d'arte. Il padre, Giovan Giacomo, nel 1977 scrisse il primo libro bianco sull'inquinamento in regione, Salute e ambiente in Campania, mappa della nocività che portava all'attenzione nazionale problemi come l'inquinamento del fiume Sarno, tutt'ora il più contaminato d'Europa, e il caso Bagnoli. Direttore scientifico dell'istituto partenopeo per lo studio dei tumori, fondazione Pascale, venne 'dimissionato' per aver denunciato la corruzione intrecciata alla politica nel 1987, in anticipo su Tangentopoli. Una carriera a cavallo tra Italia e Stati Uniti, che segna anche la vita del figlio Antonio, ordinario di anatomia e istologia patologica, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine di Philadelphia. Professor Giordano, cosa accadrebbe negli Usa per un caso come l'Ilva di Taranto? Verrebbe immediatamente chiusa la fabbrica, per i proprietari un processo da affrontare con condanne molto serie. In Italia invece apriamo il dibattito, c'è sempre qualcuno, anche nella comunità scientifica, che trova delle giustificazioni e così passano gli anni, il territorio si devasta e la popolazione si ammala. Negli Stati uniti, ad esempio, la lotta all'amianto è stata durissima: completamente bandito, il governo centrale ha promosso la bonifica del territorio, del resto la tecnologia è prevalentemente americana, qui invece non si investe in ricerca. In Texas, da quando hanno iniziato le opere di risanamento, hanno visto diminuire le malformazioni del 40%, del 25% in soli quattro anni, con un risparmio di 11 milioni di euro. E in un caso come quello del territorio campano? Il problema è più complesso rispetto a Taranto perché non sappiamo su che cosa dovremmo operare. Far partire le bonifiche significa soprattutto scoprire con precisione quali sostanze inquinanti sono state sversare e come salvaguardare la salute. Invece molti centri di ricerca, illustri luminari, continuano a ripetere che non sarebbe provato il nesso di causa effetto tra inquinamento e cancro o malformazioni congenite. Ma, come dice il senatore Ignazio Marino, la scienza in ambito internazionale ha già detto tutto, è il momento per la politica di agire. E invece lei e il suo gruppo di ricerca siete stati osteggiati. In Italia i ruoli nevralgici sono di nomina politica, così anche le ricerche tendono a non disturbare le lobby che ruotano intorno ai partiti e gli interessi economici. L'unico modo per spezzare la catena è informare i cittadini, in modo che siano loro direttamente a fare pressione dal basso. Per svolgere le nostre ricerche ho trovato i fondi negli Stati Uniti. L'ex ministro della Salute, Ferruccio Fazio, nel 2011 sostenne che l'amianto di Napoli non faceva male, cercando di minimizzare i dati di una ricerca fatta da me, dal senatore Marino, Maddalena Barba, Alfredo Mazza e Carla Guerriero, pubblicata su Cancer biology and therapy. Nel 2005 ho iniziato a lavorare sulla Campania, un laboratorio di cancerogenesi a cielo aperto, ma non c'era il registro tumori, nessun ente voleva condividere i propri dati. Così ho trovato un gruppo di pazzi, quelli citati prima più Giulio Tarro, Antonio Marfella, Giuseppe Comella e Massimo di Maio, con cui far cadere gli alibi. Cosa avete scoperto? Ad esempio che i dati ufficiali indicano in 39mila i casi di tumore alla mammella in un anno, noi però ne abbiamo trovati 47mila, cioè 8mila in più. Non solo, nel 2009 abbiamo pubblicato uno studio relativo al periodo 2000/2005, anche in questo caso i dati ufficiali erano inferiori del 26,5% rispetto ai casi reali (parliamo di 40mila malati in più), soprattutto nella fascia d'età tra i 25 e i 44 anni, pre-screening. Recentemente abbiamo ampliato la ricerca, fino al 2008, e i dati ci confermano l'allarme. La situazione in Campania è talmente critica che o la vicinanza dei cittadini campani ai siti di rifiuti tossici determina patologie tumorali, oppure sono stati vittime negli ultimi anni di un progressivo indebolimento genetico, fino ad avere un 'dna colabrodo'.

 

Otto villaggi sotto sfratto - Michele Giorgio

Ben otto villaggi palestinesi a sud della città di Hebron, in Cisgiordania, rischiano di essere demoliti dall'esercito israeliano che userà quelle aree per svolgervi manovre militari. Si attende ora la decisione dei giudici della Corte Suprema di Israele. Riferita nei giorni scorsi dal quotidiano Haaretz, la notizia è stata ignorata da buona parte dei media internazionali. Nei territori occupati al contrario ha suscitato proteste e forte preoccupazione. Molti l'hanno interpretata come il passo preliminare all'espulsione dei palestinesi dalla zona C, ossia quel 61 per cento della Cisgiordania che a quasi 19 anni dalla firma degli Accordi di Oslo (l'anniversario è il 13 settembre) rimane sotto il controllo esclusivo dell'esercito israeliano. Gli abitanti degli otto villaggi saranno «trasferiti», evidentemente contro la loro volontà, verso la cittadina di Yatta dove alcuni di loro avrebbero altre abitazioni. L'esercito, quando non dovrà svolgere le esercitazioni, consentirà ai contadini palestinesi di raggiungere i campi coltivati nelle aree confiscate. Lo stesso avverrà in altri due periodi dell'anno. Majaz, Tabban, Sfai, Fakheit, Halaweh, Mirkez, Jinba e Kharuba. Piccoli villaggi di pastori, alcuni dei quali vivono in case ricavate da grotte. Israele li considera «illegali». Ma gran parte di essi esisteva già nel 1830, ha sottolineato lo stesso Haaretz. In ogni caso sono centri abitati palestinesi in territorio palestinese e per la legge internazionale i veri illegali sono gli insediamenti colonici israeliani. Con un gesto di «generosità» il ministero della difesa israeliano ha «salvato» Tuba, Mufaqara, Sarura and Megheir al-Abeid. Si tratta di una vicenda che comincia negli anni '70 quando l'esercito israeliano dichiarò circa 30mila dunam (3mila ettari) di terra palestinese zona proibita ai non residenti. Un provvedimento vecchio di 40 anni, che già indicava l'intenzione di Israele di non restituire ai palestinesi porzioni consistenti della Cisgiordania dove in seguito, non certo a caso, ha costruito gran parte delle sue colonie nei Territori occupati. E non è un caso neanche che il percorso del Muro di Separazione segua, più o meno fedelmente, la «frontiera» tracciata da questo disegno antico ma sempre attuale. Firmando gli accordi che vanno sotto il nome di Oslo 2 (1994), Israele in cambio del via libera alla nascita dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), si assicurò il controllo totale del 61% della Cisgiordania (Area C), fino ad un accordo definitivo dello stutus dei Territori occupati palestinesi che, nel frattempo, non è mai arrivato. Ha anche il controllo di sicurezza della cosiddetta Area B (oltre 20% della Cisgiordania) dove l'amministrazione civile è palestinese. All'Anp dopo 19 anni di trattative, rivolte palestinesi contro l'occupazione, negoziati veri e presunti, resta il controllo pieno di meno del 20% della Cisgiordania. «Pieno» sino ad un certo punto, perché le forze armate israeliane non esitano ad entrare anche nelle città autonome palestinesi per «operazioni di sicurezza». «Israele non ha mai dichiarato apertamente la sua linea ufficiale per l'Area C ma la attua in silenzio sul terreno», spiega l'avvocato Shlomo Lacker, dell'Associazione per i Diritti Civili (Acri), che rappresenta 200 famiglie palestinesi minacciate di espulsione. «È un modo per prendere le distanze dagli accordi con i palestinesi, gli Stati uniti e dalla possibilità di raggiungere la soluzione dei due Stati (Israele e Palestina). Non ci saranno i due Stati se Israele prenderà il controllo di tutto» aggiunge Lecker. Nell'Area C della Cisgiordania, oggi ancora più di prima, ai palestinesi è vietato costruire persino un muretto alto 50 cm senza l'autorizzazione dell'esercito che raramente concede permessi edilizi. Persino le agenzie e le ong internazionali si trovano in forte difficoltà quando devono operare in questa ampia fascia di territorio palestinese sotto la piena occupazione militare israeliana. Mark Regev, portavoce dell'ufficio del primo ministro israeliano Netanyahu, respinge seccamente la tesi di chi denuncia tentativi di espulsione della popolazione palestinese. «Smentisco totalmente che sia in atto un piano per spingere fuori i palestinesi dall'Area C. Israele sulla base degli accordi firmati ha il controllo di questa porzione di territorio. Lo status finale sarà deciso attraverso negoziati futuri», afferma Regev. Tuttavia sul terreno le cose vanno diversamente e la politica israeliana appare in linea anche con la composizione demografica del territorio emersa dopo quasi venti anni di trattative inutili in cui le colonie sono cresciute in numero e, soprattutto, per estensione. Oggi in Area C vivono oltre 300mila settler israeliani e un numero imprecisato di palestinesi: dai 117mila registrati dall'Ufficio Centrale di Statistica dell'Anp ai 92mila indicati da Israele, fino ai 150mila delle statistiche ufficiali di Ocha, l'ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell'Onu. E sulla base di questi numeri la destra israeliana chiede al governo di passare alle vie di fatto e di annettere subito l'Area C, in modo da definire con un atto unilaterale i confini dell'entità (senza reale sovranità) che sarà chiamata Stato di Palestina all'interno della Cisgiordania. Si spiega così la richiesta di demolizione degli otto villaggi palestinesi a sud di Hebron. Ma nessun rappresentante ufficiale israeliano commetterà l'errore di ammetterlo apertamente e continuerà a parlare di «rimozione di abusivi».

 

I ribelli: un varco verso la Turchia

Ad Aleppo, dove gli oppositori al regime siriano di Bashar al-Assad si dicono pronti a morire, gli insorti hanno conquistato un posto di controllo strategico, situato ad Anadane, nel nord-ovest della città. Un obiettivo raggiunto dopo circa dieci ore di combattimenti, determinante perché consente di collegare la seconda città del paese alla frontiera turca. Da sabato scorso, Aleppo è teatro di una feroce battaglia tra le truppe governative e i ribelli. Ieri, con l'apertura di quel corridoio verso la Turchia - distante 45 km e retroterra strategico per i ribelli dall'inizio del conflitto, a marzo dell'anno scorso - l'Esercito siriano libero già dava per scontata la vittoria. E in un ospedale turco è stato trasportato Omar Khachram, il giornalista della televisione qatariota, al-Jazeera, ferito nei combattimenti. Fonti del governo siriano, subito smentite dai ribelli, sostengono invece che l'esercito ha ripreso il controllo di una parte del quartiere di Salaheddine, principale roccaforte degli insorti nel sud-ovest della città. Le autorità turche ieri hanno inviato alla frontiera con la Siria quattro convogli per il trasporto dei soldati, carri, missili e blindati, giustificando le manovre come «normali esercizi di addestramento militare» che non avrebbero attraversato la frontiera. I combattimenti ad Aleppo sono iniziati il 20 luglio e l'assalto delle forze governative si è verificato sabato, dopo l'arrivo in massa dei ribelli nella città, che conta 2,5 milioni di abitanti. Secondo i responsabili delle operazioni umanitarie Onu, circa 200.000 persone sono in fuga. Kofi Annan, mediatore internazionale per conto delle Nazioni unite e della Lega Araba, ha nuovamente invitato governo e opposizione armata a trovare una soluzione pacifica, mentre l'Esercito libero continua a chiedere all'Occidente l'intervento armato.

 

I poteri forti contro il vescovo dei poveri - Raúl Cazal*

ASUNCIÓN - Da quando Fernando Lugo si è insediato alla presidenza, del Paraguay, per ventitré volte hanno tentato di metterlo sotto accusa, la ventiquattresima è stata quella buona. Ma per raggiungere questo risultato sono dovuti morire 6 poliziotti e 11 contadini a Curuguaty: su terre che appartengono allo Stato ma delle quali l'ex senatore del Partito colorado, Blas Ferreira, si è appropriato fin dall'epoca della dittatura di Alfredo Stroessner. Alle tesi dello scontro tra polizia e contadini, imposte da settori politici attraverso una campagna mediatica, si è contrapposta quella dei franchi tiratori. Ovviamente quest'ultima non è stata particolarmente diffusa dato che i deputati paraguayani già avevano deciso l'impeachment di Lugo per «cattivo comportamento nell'esercizio delle sue funzioni». Il giudizio politico emesso dai parlamentari, che in poche ore sono riusciti a destituire il presidente, sosteneva che Lugo: aveva autorizzato una riunione nel Comando di ingegneria delle Forze armate - il delitto è stato quello di menzionare il concetto di «lotta di classe»-; aveva dialogato con leader contadini senza-terra che a Ñacunday occupavano terreni dello stato protetti dalla Riforma agraria, ma che i latifondisti reclamano come propri - l'accusa fu «la mancata risposta delle forze dell'ordine di fronte all'occupazione di beni privati»; aveva provocato una crescente insicurezza; aveva firmato, nel dicembre del 2011, il protocollo di Montevideo, Ushuaia II, per l'impegno democratico nel Mercosur; era responsabile del massacro di Curuguaty. Quando si seppe che il presidente Lugo aveva un cancro linfatico, il vicepresidente Franco si trovava in Colombia, a rappresentare il Governo nell'insediamento presidenziale di Juan Manuel Santos, e la sua prima dichiarazione fu che Lugo poteva contare su di lui nella gestione del paese. Cinque mesi prima, Franco si era però incontrato con l'allora ambasciatrice degli Usa in Paraguay, Liliana Ayalde e, in quell'occasione, l'aveva informata sulla «pessima gestione amministrativa del presidente Lugo per la quale occorreva un urgente e non negoziabile giudizio politico». La conversazione divenne pubblica con una lettera che l'allora ministro della difesa, Luis Bareiro Spaini, aveva inviato alla rappresentante diplomatica già dirigente, tra il 2005 e il 2008, dell'Usaid in Colombia. Secondo la Costituzione approvata nel 1992, tre anni dopo la caduta del dittatore Alfredo Stroessner, per avviare l'iter dell'impeachment è necessario l'accordo dei due terzi di deputati e senatori dei partiti tradizionali. Ma Lugo aveva contro tutta la Camera (ad eccezione della deputata Aída Robles, del Movimiento Popular Tekoyoya -MPT), e in sole 5 ore si è deciso di sottoporre a giudizio politico il presidente. Il Senato, trasformato in tribunale, ha concesso due ore di tempo per la difesa e al senatore Sixto Pererira (MPT) non è stato concesso il diritto di parola. Il politologo paraguayano Diego Abente Brun, professore emerito di Scienze politiche nella Miami University, considera che il potere esecutivo è «soggetto a un Congresso con prerogative esagerate» perché può opporre un veto al presidente con la semplice maggioranza delle due camere; modificare leggi senza alcuna restrizione, «alterare una legge permanente attraverso una provvisoria, come la legge sul bilancio annuale o una legge che aumenta le spese in bilancio»; e spingere al giudizio politico del presidente sulla base di «un cattivo comportamento nell'esercizio delle sue funzioni». Dal 1989, da quando Stroessner vive in esile in Brasile, il Paraguay ha avuto 6 presidenti eletti ma solo 4 hanno portato a termine il mandato. Raúl Cubas Grau del Partito Colorado viene eletto nel 1998 e resta in carica 7 mesi. Il 15 agosto assume il mandato. Tre giorni dopo concede l'indulto a Lino Oviedo, in carcere per aver tentato un colpo di stato contro il presidente Juan Carlos Wasmosy alla fine dell'aprile del '96. Il quarto giorno settori del partito colorado, alleati del vicepresidente Luis María Argaña, insieme ai liberali (Partito libero radicale autentico, Plra) e di «Encuentro nacional» sollecitano il giudizio politico nei confronti del presidente Cubas Grau. Il Congresso richiede l'intervento della Corte suprema di giustizia sulla libertà di Oviedo che il 2 dicembre 1998 dichiara incostituzionale il decreto di Cubas, il quale non accetta la sentenza. Oviedo minaccia di «sotterrare» i giudici che hanno votato contro di lui. Sette mesi dopo, il 16 marzo 1999, la Camera dei deputati fissa la data per l'impeachment al 7 di aprile. Ma il 23 marzo il vicepresidente Argaña viene assassinato. I deputati chiedono una sessione straordinaria per mandare avanti il giudizio, che ottiene il numero necessario per la sua approvazione. Da quel giorno, fino al 26 marzo, la popolazione organizza proteste nelle piazze di Asunción ma viene aggredita dai seguaci di Oviedo armati di bastoni e oggetti contundenti. Il 26 marzo, nella piazza della Cattedrale, 7 giovani manifestanti vengono assassinati e il giorno dopo Cubas Grau rinuncia. Lo rimpiazza il presidente del Congresso, Luis González Macchi del Partito colorado, che non chiede le elezioni e termina il suo mandato come «stabilito dalla Costituzione». Il risultato dell'Assemblea fu la concessione di alcuni poteri eccezionali al Parlamento. I politici paraguayani hanno imposto l'impeachment a Lugo, sapevano che non avrebbero avuto l'appoggio dei paesi dell'Unasur e del Mercosur. I cancellieri di questi paesi, riuniti in Brasile, lasciarono il vertice di Rio+20 per tentare di mettere un freno all'imminente colpo di stato. In seguito, in base al Protocollo di Ushuaia I, firmato nel '98, i presidenti del Mercosur, riuniti a Mendoza, in Argentina, hanno sospeso il Paraguay. Per questa decisione si è preso in considerazione l'instabilità politica del paese e la minaccia di interruzione del processo democratico, come accadde nel 1996, quando il generale Lino Oviedo tentò di rovesciare il presidente Juan Carlos Wasmosy tramite una rivolta militare. Il Mercosur nasce nel '91, con la firma del Trattato di Asunción. Erano gli anni in cui si impose l'egemonia neoliberista, per cui non è casuale il nome Mercato comune del sud, né che settori del Partito colorado, guidato da Argaña, si siano opposti alla firma del trattato. Attualmente il Paraguay realizza il 51% delle esportazioni verso paesi del Mercosur. Per attenuare le asimmetrie economiche, una delle misure adottate dal blocco, nel 2005, fu la creazione del Fondo per la convergenza strutturale del Mercosur (Focem), al quale il Paraguay deve apportare un milione di dollari all'anno e, in cambio, riceve trasferimenti di risorse non rimborsabili per un valore di 48 milioni di dollari. Ovviamente, l'Unione degli industriali paraguayani non ritiene che ci sia stata una rottura del processo democratico nel paese, e sostiene che la sospensione del Paraguay dal Mercosur li obbliga a fare affari fuori dal blocco regionale. I contadini senza terra che chiedono l'applicazione della Riforma agraria, sono stati definiti «carperos» (attendati). Fin dalla dittatura di Stroessner i contadini sono stati repressi e massacrati, come l'8 marzo 1980 a Caaguazú. Ancora oggi non si conosce il luogo della fossa comune dove furono sepolti 10 cadaveri. Assassinii impuniti. Lugo, nel suo ultimo discorso in qualità di presidente, ha parlato di golpe mafioso. La giustizia paraguayana è controllata da sostenitori dei gruppi politici tradizionali che hanno beneficiato di terre, molte consegnate da Stroessner, e ha operato sempre a favore dei latifondisti, come nel massacro di Curuguaty. «Quando arrivammo al governo, nel 2008, volevamo fare una riforma agraria autentica, organizzare un catasto della terra», ha confessato Lugo dopo la sua destituzione. «Il Paraguay ha una superficie 406.752 chilometri quadrati ma, se si sommano tutti i titoli di proprietà, diventano 529 mila. Significa che ci sono terre che hanno due, tre o quattro titoli. Bisogna sanare questa situazione ma non è facile, perché dipende dalla magistratura e non dal potere esecutivo». La regolarizzazione delle terre non è l'unico scoglio con cui Lugo si trovò a fare i conti quando arrivò alla presidenza. Due giorni prima che i deputati approvassero le accuse contro di lui per «scarso rendimento» nelle sue funzioni, il Servizio nazionale di qualità e salute vegetale e delle sementi (Senave) aveva negato la registrazione del seme di cotone DP404BG, commercializzato dalla Monsanto come cotone Boogard. Franco ha messo alla guida di Senave Jaime Ayala - imprenditore agrario, azionista e presidente della Pacific Agrosciences, impresa stabilitasi nel paese con un investimento di 3 milioni di dollari. Tra la prime misure adottate da Ayala, oltre al licenziamento di 200 lavoratori, vi è stata l'approvazione del brevetto di quel seme di cotone in precedenza rifiutato per mancanza dei requisiti richiesti dal Senave. Il giornalista Idilio Méndez Grimaldi rivelò, nel corso del golpe parlamentare, che «l'anno scorso la Monsanto ha fatturato 30 milioni di dollari, esentasse (perché non dichiarati), solamente dai diritti derivanti dai brevetti, le royalties, per l'uso di semi di soia transgenica in Paraguay». Nell'articolo «Monsanto colpisce in Paraguay», diffuso in rete, sostiene che tutta la soia coltivata nel paese è transgenica e copre una «estensione vicina ai 3 milioni di ettari, con una produzione intorno a 7 milioni di tonnellate nel 2010». Alleati ai partiti colorado e liberal radical autentico, tra quelli di tendenze ideologiche simili che hanno preso parte al golpe, ci sono anche i vertici della chiesa e i settori imprenditoriali e transnazionali del commercio agrario che si rifiutano di pagare tasse e che minacciarono un «tractorazo» (uno sciopero che avrebbe bloccato le strade del paese). Minaccia ritirata quando Franco ha assunto l'incarico di presidente. Da quando Lugo assunse la presidenza, tutti questi settori non abbandonarono mai l'idea di farlo fuori. Nel settembre del 2008, dopo soli 15 giorni di presidenza costituzionale, Lugo denunciò la cospirazione contro di lui da parte di Lino Oviedo. Nella cerimonia di insediamento di Franco il generale Oviedo sedeva a fianco del senatore e presidente del Plra, Blas Llano, e si è vantato di essere stato il primo a congratularsi con Franco per la sua nuova posizione.

*direttore del Diplo venezuelano

 

l'Unità - 31.7.12

 

Legge elettorale, stop giochini. Il Colle: «Su urne decido io»

Marcella Ciarnelli e Simone Collini

Sono apparse sempre «più sfuggenti e polemiche» in questi ultimi giorni le posizioni dei partiti che da tempo si confrontano per arrivare ad un testo di riforma della legge elettorale, per dare risposta alla necessità da tutti condivisa, almeno pubblicamente, di superare il pessimo Porcellum ma anche nel rispetto di un impegno preso in più occasioni con lo stesso presidente della Repubblica. Quindi il Capo dello Stato, che si appresta a lasciare Roma per qualche giorno di riposo, proprio nell'intento di aiutare a superare la difficile situazione, ha ancora una volta rivolto «un forte appello a un responsabile sforzo di rapida conclusiva convergenza in sede parlamentare. Ciò corrisponderebbe con tutta evidenza al rafforzamento e alla credibilità del Paese sul piano internazionale in una fase di persistenti gravi difficoltà e prove». La legge elettorale va fatta. È un impegno imprescindibile preso fin da gennaio dalle forze politiche con espressioni «largamente convergenti anche se non del tutto coincidenti» e confermato agli stessi presidenti delle Camere sollecitati nuovamente in luglio dal Quirinale. «L'ipotesi che avevo prospettato perché venisse posta ai capigruppo era quella della formalizzazione di un testo di riforma largamente condiviso, anche se non definito su alcuni punti ancora controversi». In quell'occasione Napolitano aveva indicato di rimettere «a quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva e rimanessero quindi aperti ad un confronto conclusivo», parole che in particolare modo nel Pdl sono state cavalcate come un via libera ad una riforma fatta a colpi di maggioranza, anche se non è chiaro quale. Così non è. Nelle parole del presidente va invece individuata e seguita l'indicazione di un metodo cui sarebbe bene tutti si ispirassero. Senza fughe in avanti. La dichiarazione, che Napolitano ha voluto venisse resa nota prima dell'incontro con il presidente del Consiglio proprio per non confondere il piano politico da quello istituzionale dato che la conversazione con Monti ha avuto come temi il prossimo tour internazionale del premier e le prossime scadenze parlamentari dei provvedimenti da approvare entro l'estate, ha dato l'altolà alle ipotesi «che appaiono sulla stampa di possibili anticipazione delle elezioni politiche normalmente previste per il prossimo aprile». Non c'è correlazione tra la riforma, necessaria, e un ricorso anticipato alle urne. Quindi il presidente ha voluto sollecitare «la massima cautela e responsabilità in rapporto all'esercizio di un potere costituzionale di consultazione e decisione che appartiene solo al Presidente della Repubblica». Per arrivare ad un voto prima della scadenza c'è la questione della legge elettorale. Ma anche la scadenza della manovra di bilancio. E poi l'itinerario di consultazioni previste dalla Costituzione. Si legge delusione nelle parole di Napolitano rivolte alle forze politiche che «a distanza di venti giorni dallo sforzo da me sollecitato con la lettera del 9 luglio ai presidenti delle Camere, siano trascorse altre settimane senza che abbia avuto inizio in Parlamento l'esame di un progetto di legge elettorale sulla base dell'intesa, pure annunciata come imminente da parte dei partiti rappresentanti attualmente la maggioranza e aperta al confronto delle forze politiche». Le reazioni della politica. Al momento non è andata così. E se le parole di Napolitano hanno provocato reazioni unanimi di consenso appare chiaro che i viaggi in solitaria ad alcuni appaiono ancora un'ipotesi possibile. Con quale traguardo, è tutto da verificare anche se il susseguirsi di incontri di ieri apre ad altre possibilità. «Ci muoveremo in linea con l'appello di Napolitano, unico modo per cambiare il Porcellum. Perché nostra priorità è ridare la scelta ai cittadini» ha detto il vicesegretario del Pd, Enrico Letta. Ed Anna Finocchiaro: ««Condividiamo in pieno l'appello che il presidente Napolitano ha rivolto alle forze politiche sul tema della legge elettorale. Riformare la legge elettorale è necessario e urgente ma serve la più ampia convergenza delle forze politiche. È quello che sosteniamo da tempo e a questa scelta abbiamo sempre orientato e continueremo a orientare i nostri comportamenti». Gaetano Quagliariello rivendica la posizione del Pdl facendosi scudo col Presidente: «La nostra iniziativa va esattamente nella direzione indicata dal capo dello Stato: il nostro obiettivo è che si possa arrivare in tempi brevi, possibilmente già nei prossimi giorni, in sede di comitato ristretto, a un testo largamente condiviso nel suo impianto e aperto al confronto fra le diverse posizioni sui punti ancora controversi». Per Pier Ferdinando Casini (Udc) «la dichiarazione del Presidente della repubblica è ineccepibile. Purtroppo non possiamo dire la stessa cosa dell'atteggiamento dei partiti che sostengono il governo che, dopo un fitto e intenso dialogo, non riescono nemmeno a sedersi allo stesso tavolo. Noi siamo disponibili e rifiutiamo di presentarci al Senato sventolando la nostra bandiera della legge elettorale preferita». Posizioni variegate, dunque, ma che a breve dovranno venire allo scoperto con maggiore chiarezza e per forza misurarsi con tempi ristretti.

 

L'equilibrio dei poteri - Michele Ciliberto

La seconda Repubblica è ormai un ciclo compiuto della storia italiana, ed è possibile perciò considerarne da una diversa distanza sia la morfologia generale che i tratti salienti. Come amava dire Benedetto Croce, quello che prima era impetus, ora può trasformarsi in ratio, cioè in analisi distaccata. Se si assume questo punto di vista, è facile constatare che il conflitto tra politica e magistratura costituisce il filo rosso, e permanente, di questa fase della storia italiana contemporanea. Anzi, è proprio da questo conflitto - una sorta di peccato originario - che nasce la seconda Repubblica: furono la magistratura e la Lega ad abbattere il sistema dei partiti che aveva dominato la vita della prima Repubblica e che era arrivato a un grave e ormai intollerabile livello di degenerazione. A trarre il massimo vantaggio da questo conflitto fu, alle origini, Silvio Berlusconi, la cui ascesa al potere fu, obiettivamente, resa possibile dalla destrutturazione della vita politica italiana operata in buona parte dalla magistratura. Non fu un caso se, costituendo il suo primo governo, Berlusconi abbia pensato di coinvolgere Antonio Di Pietro, un poliziotto diventato poi magistrato, punta di diamante della procura di Milano: era il riconoscimento di un fatto, e di un «debito», obiettivo. Ma Di Pietro aveva altri progetti nella mente, come dimostrò chiaramente con l'abbandono della magistratura e l'avvio di una importante carriera politica attraverso l'elezione a senatore nel Mugello con il sostegno, allora, del Pds. Anzi, fin dall'inizio, si aprì uno scontro insanabile fra Berlusconi e la magistratura che ha connotato la storia della seconda Repubblica, segnandone tutti i momenti essenziali. Ma neppure questo è stato un caso: per motivi direttamente connessi alla costituzione del suo potere, per Berlusconi il conto con la giustizia è stato sempre un'ombra di Banquo di cui non ha mai potuto liberarsi, nonostante tutti i tentativi fatti con innumerevoli leggi ad personam ad opera di fedeli vassalli. Basti ricordare che fu sulla giustizia che Berlusconi, nel giugno 1997, fece saltare la Bicamerale presieduta da D'Alema, quando su tutti gli altri punti l'accordo sembrava raggiunto. È questo l'altro peccato originario da cui è nata la seconda Repubblica. Ne è scaturito un conflitto ventennale che ha visto contrapposti, da un lato Berlusconi, dall'altro la magistratura costituitasi, e progressivamente rinsaldatasi, in un ruolo di custode generale dell'eticita dello Stato e dell'ethos della Nazione. È stata una lunga lotta nella quale si è espressa in modo paradigmatico la crisi della democrazia italiana: condotta da entrambe le parti con furore giacobino, senza esclusione di colpi (ma sul giacobinismo come forma strutturale della seconda Repubblica occorrerebbe un'analisi specifica). Soprattutto è stata una lotta che non ha visto né vincitori né vinti: per quanto possa apparire paradossale, quanto più Berlusconi negli anni del suo potere ha attaccato la magistratura, tanto più quest'ultima si è rafforzata nella sua funzione di guardiano generale dell'ethos della nazione, con un ampliamento del suo grado di consenso che, in certi momenti, ha raggiunto livelli assai alti. Specialmente a sinistra, nella seconda Repubblica la magistratura è stata infatti vista, comprensibilmente, come l'estrema barriera contro l'affermarsi, e il dilagare, delle derive dispotiche del berlusconismo. Ma questa ruolo etico, e soprattutto la funzione generale assunti dalla magistratura, sono stati resi a loro volta possibili dalla crisi profonda delle forze politiche tradizionali, dalla loro incapacità di autoriformarsi e di rinnovarsi, dalla stessa sistematica polemica di Berlusconi contro la politica, in nome dell'antipolitica. Considerate insieme, e da una diversa distanza, tutti questi fenomeni appaiono ora come cause, ed effetti, di una complessiva crisi della democrazia da cui è germinato, e si è nutrito lungo la sua vicenda, il berlusconismo. La seconda Repubblica è ormai finita per motivi sia interni che internazionali, come dimostrano anche la crisi inarrestabile del Pdl e la stessa vicenda personale di Berlusconi. Si è aperta, con il governo Monti, una delicata, e importante, fase di transizione verso una nuova stagione della Repubblica. Ma il fatto che la seconda Repubblica sia storicamente esaurita non significa che non possano esserci recrudescenze, resistenze, reazioni, soprassalti; né vuol dire che si sia aperta, per generazione spontanea, una nuova stagione della vita della Repubblica. La fine di un ciclo non coincide meccanicamente con l'inizio di un altro. L'orizzonte è del tutto aperto di fronte a noi, e ogni prospettiva è possibile. Se si considera la storia della seconda Repubblica un punto appare però chiaro: se si vuole ricostituire in Italia la democrazia, e l'equilibrio dei poteri che ne è parte costitutiva, è anzitutto necessario che la politica si autoriformi, che essa si rinnovi ab imis fundamentis, che ridiventi credibile, riassumendo il suo ruolo e la sua funzione, come hanno auspicato di recente Reichlin e Zagrebelsky. La riforma della politica è oggi, da ogni punto di vista, il problema centrale della democrazia italiana. Nel rispetto, ovviamente, dei reciproci confini. Anzi, nella comune consapevolezza che i principi etici della nazione sono inscritti nella Carta costituzionale e che ne sono custodi e garanti tutte le magistrature della Repubblica, a cominciare dalla presidenza della Repubblica. È su questo sfondo storico che va considerata, e apprezzata, anche la decisione del presidente Giorgio Napolitano di sollevare un conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale sulle intercettazioni operate da una procura. Essa è importante per due motivi di carattere strettamente storico-politico: segnala la necessità di chiudere, anche su questo piano delicatissimo, disfunzioni formali e distorsioni materiali della seconda Repubblica; si propone di ridefinire compiti e funzioni di ciascuno contribuendo ad aprire una nuova fase della democrazia repubblicana, liberandola finalmente dalle contrapposizioni del passato e dalle macerie personali e collettive che esse hanno lasciato sul terreno. Ne abbiamo fatto anche in questi giorni dolorosa esperienza: oltre a stravolgere le istituzioni esse possono ferire in modo irrimediabile le persone, gli individui, la cui dignità costituisce - ha scritto Giuliano Amato - il centro archimedeo della nostra Costituzione. È vero, ma perché questa persuasione ridiventi senso comune è necessario mettere fine alla lunga crisi della democrazia italiana ristabilendo i fondamenti della religione civile incarnata dalla nostra Costituzione e cancellando, una volta per tutte, i recalcitranti, e invadenti, fantasmi di un passato che deve essere chiuso.

 

Europa - 31.7.12

 

Ferragosto, si svolta? - Federico Orlando

Fossimo come il vecchio pensionato romano, a cui la giornalista Rai porge il solito microfono-gelato per sapere se e quando andrà in vacanza, risponderemo anche noi: «Ma io sono in vacanza. Sono pensionato, vivo nella più bella città del mondo, più vacanza di questa?». Ci ispiriamo invece al più saggio e infaticabile dei coetanei, Giorgio Napolitano, che si accomiata in lacrime da Loris D'Ambrosio - anche il giudice Antonio Ingroia scopre che da tremila anni la scienza teorizza e i governi praticano la salus rei publicae anche come "ragion di Stato" -, e telefona all'arciere Mauro Nespoli che gli dedica la medaglia olimpionica: «Essa è idealmente rivolta all'intero paese, per le prove che sta affrontando». Non c'è un minuto vuoto nel vecchio e mai pensionato presidente. E non ce ne sarà per «l'intero paese» - quello dei galantuomini che faticano, rispettano le leggi e adempiono ai doveri - nelle settimane di ferragosto, solitamente consacrate all'ozio e alle immagini belle della vita. Perché, come dice Dario Di Vico, i compiti a casa non sono finiti. E solo il paese degli assenteisti (purtroppo c'è anche quello) può pensare che sia tornato il tempo della ricreazione, perché le borse sono state su due giorni e la politica è tornata all'abituale follia. Già oggi e domani milioni di incolonnati celebreranno l'ultimo rito delle vacanze. Speriamo non si occupino solo di Olimpiadi bagni e barbecue, per non restare di sasso se al ritorno troveranno elezioni a novembre e a dover navigare senza una vera e propria «tempesta perfetta» (non prevista dagli economisti) ma col mare ribollente. L'incontro Alfano-Bersani-Casini, se confermato, ci darà già oggi orientamenti quasi definitivi sulla legge elettorale, che la destra manipola giocando col fuoco. Se Berlusconi vuole il Porcellum per ridarci l'alleanza con la Lega, Bersani Casini e Vendola dovrebbero lasciare che ci si scotti. Le elezioni a novembre, discutibili da ogni punto di vista, avrebbero almeno un effetto positivo sul costume del paese: dopo settant'anni abbatterebbero il tabù imposto dai partiti "di massa" (Dc in testa) che non si potesse votare in autunno, essendo impegnati i contadini a raccogliere gli ultimi prodotti dell'annata e seminare per quelli nuovi. Nel frattempo siamo diventati il secondo paese industriale d'Europa, la sesta o settima "potenza" dell'Occidente, poi siamo diventati anche postindustriali - economia di servizi e di valori immateriali -. Ma le elezioni a ottobre-novembre restano tabù. La nostra "cultura elettorale" non è mai cambiata, anche nel passaggio di tre o quattro generazioni. Mentre dai coltivatori diretti e dalle catene di montaggio si passava ai ceti medi dei servizi, dei diplomi, delle lauree e delle tecnologie avanzate, gli italiani conservavano l'incubo dell'ombrello e dell'astensione. Stavolta può accadere che saremo chiamati di novembre a giudicare il lavoro dei due super Mario. Giudicare se Monti ha cominciato a smantellare gli arcaismi del sistema Italia: monopoli e sprechi che un tempo accogliemmo come sviluppo e stato sociale; a conciliare industrie e salute (Pomigliano, Taranto), infrastrutture e legalità (Tav, autostrade, edilizia), dinamicità del mercato e basi certe per le famiglie. Se Draghi avrà rimosso le titubanze di una Federal Reserve sovrimpegnata; e le durezze di una Bundesbank che, in proprio e sotto la spada di Damocle della corte costituzionale di Karlsruhe, vede dappertutto zanzare che succhierebbero sangue ai tedeschi. Cosa che fa disperare non solo gli amici europei della Germania, ma anche molti fra i suoi migliori intellettuali e cittadini. Che ricordano come anche la "dotta Germania" ogni tanto si mefistofelizza. Giudicheremo anche, il giorno delle elezioni, il volto nuovo che la competizione politica avrà assunto in Italia proprio in queste settimane d'agosto: a destra con le ambizioni di leaders travolti dal malcostume ma impuniti, il loro malgoverno, le loro alleanze fatte di illegalità concrete e di secessionismi fantasiosi; al centro dove sono in corso manovre per riassorbire il nuovo rappresentato dal montismo in una sua istituzionalizzazione, "cattolica", "liberista", "borghese": ad opera di ceti e mafie che hanno sempre prodotto formigoni e alemanni, padroni delle ferriere protezionisti, clericali a spese della moralità e della legalità (vedi da ultimo le norme edilizie ad parrocchiam della regione Lazio e l'assunzione dell'amico di De Pedis a consulente del sindaco di Roma. Una specie di trimurti fascisti-gerarchia-malavita). Chiamano "lista per Monti" il todismo, ossia il partito del cardinale, ma rischierebbe di diventare lista di proscrizione ideologica, con violenti contraccolpi sulle aree emarginate, che solo una politica democratica di tolleranza e di apertura ai nuovi diritti etici (non è vero, presidente Bonino?), con una coalizione Pd-Udc- Sel, potrebbe conciliare con la società. Senza sbracature e senza isterie islamiste. Nella zona grigia crescerebbe il numero dei grilli canterini, che non dicono nulla ma lo dicono rumorosamente: vecchia preferenza di non pochi milioni d'italiani d'ogni età e d'ogni regime. Al ritorno dalle vacanze, un quadro simile metterebbe in imbarazzo anche i più volenterosi elettori di novembre: che, senza schieramenti programmi e classi dirigenti alternativi, sarebbero per la prima volta in difficoltà a votare. Come lo sono oggi, a giudicare dall'area del non voto nei sondaggi. L'Italia tornerebbe allora anche agli incubi contadini della pioggia, basterebbe una giornata e mezza di cattivo tempo (la mezza è per i vacanzieri del week end, in tutta Europa si vota dalle 8 alle 8 dello stesso giorno) per riassoggettarci alla meteorologia del paese rurale. Che gli spaghetti li compra in Cina e le insalate in Marocco.

 

La Stampa - 31.7.12

 

Monti in missione per ottenere l'unanimità sul piano-Draghi - Fabio Martini

ROMA - Tra i tendaggi rosso carminio e gli stucchi dell'Eliseo, in un pranzo col presidente francese Francois Hollande, Mario Monti inizia oggi un viaggio di tre giorni in altrettante capitali europee - Parigi, Helsinki, Madrid - con almeno due obiettivi strategici: da una parte "blindare" la nuova governance europea che da una settimana si sta via via stratificando lungo l'asse Francoforte-Berlino-Parigi-Roma, dall'altra completare l'opera di promozione della "nuova Italia" anche in un paese nordico come la Finlandia, tanto virtuoso quanto diffidente verso le dissipazioni e la spesa facile dei paesi mediterranei. E la nuova governance europea, così come la immagina Monti, è destinata a cementarsi in occasione della riunione del board della Bce, in programma giovedì in un passaggio fortemente simbolico: gli italiani, ma non solo loro, vogliono che attorno al presidente Mario Draghi si condensi il voto unanime del Consiglio direttivo. Non potendosi immaginare che vadano in minoranza i tedeschi e paesi nordici più riottosi attorno al piano annunciato da Draghi nei giorni scorsi: la ripresa del programma di acquisti di titoli di Stato, direttamente da parte della Bce o per conto del fondo Salva-Stati, Esf. Unanimità attorno a Draghi è dunque l'obiettivo che accomuna Mario Monti e il presidente francese Hollande, che si incontrano oggi a Parigi e che successivamente dovrebbero limitarsi ad una semplice dichiarazione davanti ai giornalisti. L'ingresso di Hollande nello scenario europeo ha sicuramente cambiato gli equilibri nel senso gradito da Monti e - nonostante punti di vista diversi e divergenti su questioni strategiche (l'integrazione verso gli Stati Uniti d'Europa) e su dossier più specifici - tra i due si è creato un feeling fatto di reciproca stima. Hollande, da quel che trapela dall'Eliseo, anche se non condivide tutto ciò che Monti fa, si fida di lui e dunque Italia e Francia sono destinate a continuare a marciare affiancate anche in occasione del vertice di oggi. Domani Monti cambierà latitudine e approccio: negli incontri col capo del governo finlandese e, giovedì mattina, con i vertici della locale Confindustria, il presidente del Consiglio riproporrà il consuntivo dei compiti a casa fatti dall'Italia negli ultimi mesi. Era il "rapporto" che Monti si era abituato a ripetere nei primi mesi del suo governo - lo aveva fatto a Berlino, Parigi, Londra, Washington, Pechino, Tokyo - e che ora in qualche modo è tenuto a replicare in una capitale lontana dalle rotte diplomatiche. Ma la tappa si impone a seguito del forte irrigidimento espresso dai finlandesi una settimana dopo il vertice di fine giugno a Bruxelles, che aveva dato il via libera allo scudo anti-spread. In quella occasione, per rendere esplicita la propria contrarietà allo scudo, i finlandesi arrivarono a minacciare l'uscita dall'euro. Subito dopo il presidente della Commissione europea Barroso era stato lapidario: «Gli impegni presi all'unanimità vanno rispettati». L'ultima tappa di Monti sarà, il 2, a Madrid e in questo caso i contorni della missione sono destinati a precisarsi nelle ore precedenti, perché la versione prevalente - Monti suggerirà a Rajoy di chiedere formalmente l'aiuto del SalvaStati - presenta controindicazioni diplomatiche e fattuali che si chiariranno da qui a giovedì.

 

Perché l'euro spaventa Obama - Maurizio Molinari

NEW YORK - La missione europea del ministro del Tesoro americano Tim Geithner nasce dai timori dell'amministrazione Obama di un'esplosione della crisi del debito europeo in settembre. Perché Washington ha tanto a cuore la salute dell'Eurozona? Per l'impatto che ha sull'economia americana. Nel secondo trimestre il pil Usa è cresciuto dell'1,5%, il più debole dal terzo trimestre del 2011, a causa di due motivi: la contrazione dei consumi e la diminuzione dell'export. Poiché l'Europa è il primo partner commerciale degli Usa, più la sua economia frena, più l'export cala, più posti di lavoro si perdono in America. E' un domino che può costare a Barack Obama la presidenza, considerando che l'Election Day è il 6 novembre. Da dove nasce lo scenario di una possibile implosione dell'Eurozona in settembre? E' il frutto di una sovrapposizione di scadenze. Il 12 settembre la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà sulla compatibilità con le leggi nazionali dell'European stability mechanism, il fondo Esm di salvataggio. Basterebbe un parere negativo per neutralizzare la strategia salva-euro di Bruxelles. Nello stesso giorno in Olanda si celebreranno elezioni nelle quali vengono dati in crescita i partiti anti-euro che potrebbero bloccare il secondo salvataggio della Grecia, da definirsi sempre entro settembre. Su tutto pesa l'incognita dei tassi spagnoli: per finanziare il debito Madrid deve ancora raccogliere 50 miliardi entro fine anno ma se i tassi dei Bonos resteranno oltre il 7% il crac è possibile. Perché la Spagna è decisiva? Per la grandezza della sua economia. Eurozona e Fmi hanno versato aiuti a Portogallo, Grecia e Irlanda ma un salvataggio della Spagna comporterebbe almeno il doppio del totale di quanto finora sborsato. Inoltre il salvataggio della Spagna spingerebbe la crisi verso l'Italia, la terza economia per grandezza dell'Eurozona. Nelle case dei fondi di soccorso europei Efsf e Esm - vi sono 459,5 miliardi di euro fino a luglio 2013 e 500 miliardi fino a luglio 2014: troppo pochi per soccorrere la sola Spagna. Quale è la soluzione che Washington suggerisce? Sebbene nelle dichiarazione pubbliche l'amministrazione Obama fa attenzione a rispettare la sovranità dell'Eurozona sui temi finanziari, la convinzione della Casa Bianca è che la soluzione è a portata di mano: consentendo al fondo Esm di rifinanziarsi prendendo in prestito denaro dalla Bce disporrebbe di risorse praticamente illimitate, destinate a consolidare l'euro, rassicurare i mercati e frenare la speculazione. Quando Mario Draghi, presidente della Bce, ha detto «faremo tutto quanto necessario per salvare l'euro» la Casa Bianca ha avuto la sensazione che si stia andando verso questa svolta. Da qui la decisione di Geithner di recarsi in Germania per fare pressing sui falchi, guidati dalla Germania: una specie di coalizione che include Olanda e Finlandia. Quanto è profondo il disaccordo fra Obama e Merkel? Obama aveva identificato la Merkel nell'interlocutore privilegiato sulla crisi dell'euro. Nel giugno 2011 la cancelliera fu accolta con tutti gli onori alla Casa Bianca ed ebbe la prestigiosa Medal of Freedom, ma nei mesi seguenti le convergenze hanno lasciato il posto a frizioni in crescendo a causa delle resistenze di Berlino all'adozione di misure pro-crescita. Il timore, a Washington, è che Berlino immagini possibili nuovi equilibri economici planetari con la Germania più vicina agli emergenti che all'Eurozona. Con quale strategia Obama tenta di disinnescare il rischio della crisi a settembre? La strategia è quella inaugurata dopo il G7 di Camp David di aprile, ovvero tenere l'Eurozona sotto pressione: le frequenti telefonate di Obama ai leader Ue come le missioni a ripetizione in Europa di alti funzionari, da Geithner alla vice Lael Bainard, nascono dalla volontà di essere aggiornati su ogni minimo sviluppo interno all'Eurozona. Obama può contare su Christine Lagarde, il direttore del Fmi, i cui rapporti contribuiscono a tenere sotto pressione gli europei, puntando a rafforzare la Bce. Può essere davvero la Bce a salvare l'Eurozona? In questo momento l'America non punta a trovare una soluzione alla crisi del debito ma a «scelte di politica monetaria capaci di guadagnare tempo», come suggerisce Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale. Tali scelte passano per la Bce. In attesa che l'Eurozona riesca a dare una guida politica unica all'unione monetaria.

 

Industria, la produzione va ancora giù - Sandra Riccio

L'industria non vede la luce alla fine del tunnel. A luglio la produzione industriale italiana è calata dello 0,4% sul mese prima, quando era stato stimato un calo dell'1,4% su maggio. Si tratta dell'ennesimo calo mensile consecutivo per la aziende del nostro Paese. A misurarlo è stato il Centro studi di Confindustria che periodicamente diffonde la fotografia sullo stato di salute del Sistema Italia. «La produzione media giornaliera è diminuita dell'8% annuo, contro il -8,3% di giugno», dice il Centro studi di Viale dell'Astronomia. Per il terzo trimestre in corso la variazione acquisita è, in luglio, di un calo dell'1,1%, dovuta per tre quarti all'eredità ricevuta dal secondo trimestre. Sull'Italia in cerca di crescita pesa dunque il cattivo andamento dei mesi passati sotto i colpi della crisi. Nel dettaglio, gli ordini in volume sono in decremento: -0,7% su giugno e -2,9% su anno. Il mese scorso erano diminuiti dello 0,6% su maggio e del 2,4% annuo. E in prospettiva anche i prossimi mesi si annunciano deboli. Il peggioramento degli indicatori qualitativi indica, come ha sottolineato il Centro studi, ulteriori riduzioni di attività: secondo l'indagine Istat sulle imprese manifatturiere, il saldo dei giudizi sugli ordini è sceso in luglio a -42 (da -40 di giugno), tornando sui valori di febbraio 2009, per effetto di un maggiore arretramento della domanda estera. Dopo il modesto recupero di giugno, sono tornate a diminuire anche le attese di produzione (saldo a -7 da -5) e di ordini (saldo a -4 da -2). Infine, la risalita dei livelli delle scorte (saldo dei giudizi a 2 da 1), più marcata nel settore dei beni intermedi, riduce le probabilità che nei prossimi mesi si possa avere un contributo alla domanda positivo dalla loro ricostituzione. La strada della Penisola per uscire dalla crisi è dunque ancora lunga e complessa. Negli ultimi mesi il momento in cui l'economia italiana tornerà a crescere si è progressivamente allontanato. La stima sull'andamento del Pil nel 2012 è scesa a un brutto -2% e oltre. Niente ripresa, neanche un accenno, come era stato ipotizzato in precedenza. La recessione si è fatta più pesante e le previsioni di Commissione europea e Fondo monetario internazionale sono state riviste al ribasso più volte. Il Pil, secondo una media delle stime di Ue, Fmi e Banca d'Italia, si contrarrà di oltre due punti percentuali. Allo stesso tempo, i consumi e la fiducia degli italiani sono in continuo calo, mentre la disoccupazione giovanile supera ormai il 35%. L'industria tenta la risalita ma è obbligata a confrontarsi con un credit crunch, vale a dire con una contrazione dei prestiti concessi dalle banche, che si prolunga nel tempo complice anche la difficile situazione internazionale provocata dalla crisi dei debiti sovrani. Così le banche continuano a tenere chiusi i cordoni della borsa. A dirlo sono i dati: nell'ultimo anno i prestiti a favore delle imprese a livello reale sono diminuiti di oltre il 3%. L'allarme è stato lanciato, di recente, dallo stesso Centro studi di Confindustria negli Scenari economici di giugno che non ha risparmiato uno sguardo pessimistico sul futuro. L'analisi sottolineava come «l'impatto sull'economia del credit crunch, che si è aggravato dopo l'estate 2011, persisterà per buona parte della seconda metà del 2012». Secondo il Centro studi di Confindustria, il totale dei prestiti erogati alle aziende italiane si è ridotto per sei mesi di fila a partire dall'ottobre 2011 (-0,3% il calo medio mensile calcolato) fino a marzo 2012. A pesare è anche l'andamento dello spread volato alle stelle nelle ultime settimane, insieme alle tensioni sui mercati finanziari. Mentre la crisi bancaria spagnola non ha di certo aiutato.

 

Disoccupati record

MILANO - Il numero dei disoccupati, pari a 2 milioni 792 mila, cresce a giugno del 2,7% rispetto a maggio (73 mila unità) ai massimi dal 2004. Tale aumento riguarda sia gli uomini sia le donne. Su base annua la crescita è pari al 37,5% (761 mila unità). Lo rileva l'Istat. Il tasso di disoccupazione si attesta al 10,8%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto a maggio e di 2,7 punti rispetto all'anno precedente. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l'incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari a giugno al 34,3%, in calo di un punto percentuale rispetto a maggio. I giovani disoccupati rappresentano il 10,1% della popolazione di questa fascia di età. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuiscono dello 0,4% (-52 mila unità) rispetto al mese precedente. Il tasso di inattività si posiziona al 36,1%, con una flessione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 1,8 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a giugno è al 34,3%, in diminuzione di un punto percentuale su maggio. Lo rileva l'Istat (dati destagionalizzati e a stime provvisorie) aggiungendo che tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 608 mila. I giovani disoccupati rappresentano il 10,1% della popolazione di questa fascia d'età.

 

Un registro delle aree bruciate. Così si fermano i criminali - Mario Tozzi

Lo spaventoso incremento degli incendi di quest'anno rispetto al 2011 non deve sorprendere per almeno due motivi. L'anno scorso si era ben al di sotto delle consuete medie nazionali, circa 50.000-100.000 ettari bruciati all'anno nei decenni passati. E non tutti prendono contro il fuoco quei provvedimenti dimostratisi utili, perché con gli incendi c'è ancora chi ci guadagna, considerandoli un modo di «controllare» il territorio. Già il fatto che si parli ancora di piromani la dice lunga sulla vera e propria affezione che c'è verso il fuoco da parte dell'uomo: in realtà qui i piromani non esistono, esistono, invece, i criminali del fuoco che appiccano incendi per ottenere un guadagno che è manifesto. Dove passa il fuoco non c'è più pregio ambientale, dunque non c'è più ragione di imporre vincoli alle costruzioni e alle infrastrutture spesso inutili. Anzi, il fuoco è più comodo, non devi chiedere lunghi permessi né attendere controlli. La prima ragione del fuoco è sempre la speculazione. Poi ci sono le ragioni tribali, le dispute territoriali, i dispetti, la distrazione. E per fortuna nessuno parla più di autocombustione, fenomeno rarissimo nelle foreste incontaminate, figuriamoci attorno ai centri abitati. C'era un tempo in cui gli incendi erano indispensabili agli ecosistemi: il fuoco permetteva il rinnovamento e il ringiovanimento di specie e habitat, pur con delle perdite qualche volta ingenti. Ma oggi, in ecosistemi malati l'incendio provoca un doppio danno: da un lato la perdita di biodiversità, paesaggio e godimento anche culturale. Dall'altro gli effetti sui versanti si percepiscono con le piogge autunnali: senza protezione di radici e arbusti il dissesto idrogeologico si incrementa esponenzialmente. Cosa si dovrebbe fare è noto da anni. Prendiamo il caso dell'isola d'Elba: fino ai primi anni del Duemila gli incendi dolosi bruciavano centinaia di ettari e arrivavano a uccidere persone. Ma un criminale del fuoco fu assicurato alla giustizia e i Comuni compilarono finalmente il censimento delle aree incendiate, facendo valere il principio che così vengono certificate e che in quelle aree nessuna attività costruttiva è più possibile. Di colpo, gli incendi all'Elba sono diminuiti di oltre il 90%. Perché non si provvede a un censimento nazionale delle aree incendiate, magari affidandolo alle prefetture, visto che i Comuni sono restii a farlo? E la legge 353/2000, che impedisce di costruire nelle aree incendiate, che fine ha fatto nel resto d'Italia? Ci sarebbero poi le nuove tecnologie, in grado di individuare una scintilla. Servirebbero anche più uomini e mezzi, perché non è tanto un problema di Canadair: quando interviene un mezzo aereo si può essere sicuri che quel fuoco ha vinto.

 

Repubblica - 31.7.12

 

I partiti e il vizio del comma 22 - Massimo Giannini

La pantomima intorno alla legge elettorale è umiliante e indegna della grande democrazia occidentale che ci illudiamo di essere. Il dibattito, bugiardo e strumentale, ricorda il famoso "Comma 22". I partiti della sempre più strana maggioranza giurano solennemente di volere la riforma. Si arrovellano su testi inutilmente complicati e furbescamente comparati. Discutono su modelli ibridi ispano-franco-tedeschi in cui si cerca di conciliare l'inconciliabile. Pongono condizioni e oppongono veti, usando le rispettive proposte come una minaccia: alcuni per andare alle elezioni anticipate, altri per evitarle. Il risultato di queste astruse e velenose schermaglie è lo stallo. Ogni ipotesi contraddice l'altra, secondo il noto paradosso descritto dal romanzo di Joseph Heller: "L'unico modo per ottenere il congedo dal fronte è la pazzia", ma "Chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo". Cambiate le parole, l'esito è lo stesso. Un assurdo cortocircuito logico e politico, dove si torna sempre al punto di partenza (cioè all'orribile "Porcellum" del redivivo e recidivo Calderoli) e dove si combatte per gli interessi di parte e mai per il bene comune (cioè un sistema di voto che garantisca rappresentanza ai cittadini e governabilità agli esecutivi). In questo clima da fine impero, vissuto pericolosamente sulla pelle di un Paese che ogni giorno si gioca l'osso del collo sui mercati, Giorgio Napolitano rilancia l'avviso finale ai dissoluti naviganti.  Il terzo, forse il quarto. Si è perso il conto, da quando a gennaio il Capo dello Stato sollecitò per la prima volta le forze politiche a sostenere il governo Monti nella sua indispensabile azione di risanamento economico, e a procedere in parallelo a una altrettanto irrinunciabile riscrittura condivisa delle regole elettorali, dopo la doccia fredda del referendum respinto dalla Corte costituzionale. Non è servito a niente. Anche l'ultimo appello del 9 luglio, con tanto di lettera ai presidenti di Camera e Senato, è caduto nel vuoto, triturato dal loop micidiale del "Comma 22". Il presidente della Repubblica azzarda dunque l'estremo tentativo di convincere Pd, Pdl e Udc ad elaborare un testo base, e su quello costruire una convergenza in Parlamento. Ora, come sempre, sulla nota diffusa dal Quirinale fioccano le interpretazioni. E ognuno tira la giacca di Napolitano dalla sua parte. È un esercizio rituale, e anche legittimo. Quando rinnova l'invito a "un responsabile sforzo di rapida e conclusiva convergenza", il Colle sbarra la strada a quell'idea nefasta di una "riforma a maggioranza" vergognosamente coltivata dalla rinata alleanza forzaleghista e imprudentemente auspicata dal presidente del Senato. Ed è ovvio che questa, implicitamente, è una mossa che rassicura Bersani. Quando sollecita "la massima cautela in rapporto a un potere costituzionale che appartiene solo al presidente della Repubblica", il Colle recide il nesso improprio che soprattutto a sinistra si tendeva ormai a creare tra riforma elettorale e voto anticipato. Ed è altrettanto ovvio che questa, implicitamente, è una mossa che rassicura Berlusconi. Al di là delle consuete esegesi di parte, quello che conta è il senso generale del messaggio di Napolitano. La riforma della "porcata" voluta nel 2005 dal centrodestra per impedire al centrosinistra una netta affermazione alle elezioni del 2006 è una responsabilità enorme, che pesa sulle spalle dei partiti a prescindere dal giorno in cui si tornerà a votare. È una responsabilità che le forze politiche portano di fronte agli elettori, ai quali va restituito il diritto di scegliere i propri eletti, e di fronte alla comunità internazionale, alla quale va assicurato che chiunque verrà dopo Monti saprà portare avanti stabilmente e credibilmente un programma di legislatura, imperniato sulle tante riforme concordate in sede europea. Questa è l'unica cosa che conta. In un Paese normale succederebbe questo. La Grande Coalizione approverebbe in fretta una riforma del sistema elettorale efficiente e coerente, preferibilmente bipolare, maggioritaria e magari a doppio turno, e nel frattempo sosterrebbe il governo in carica fino alla sua scadenza naturale. La parentesi "tecnica" si chiuderebbe senza traumi, e la politica riprenderebbe il suo posto e il suo ruolo. In Italia tutto funziona al contrario. Prevale il solito gioco del cui prodest, "costituzionalizzato" dal rovinoso ciclo berlusconiano. I primi beneficiari di una buona legge elettorale non sono i cittadini, che devono tornare a scegliere la coalizione preferita e i candidati più stimati. Sono le segreterie di partito, che scelgono i modelli elettorali per "nominare" i propri parlamentari con le liste bloccate, per ampliare i margini di una vittoria o per limitare i danni di una sconfitta. La pratica di questi otto mesi conferma plasticamente il primato della cattiva politica. I partiti non sembrano in grado di rispondere alla pressante domanda di responsabilità che arriva dal Paese e dalla sua istituzione più autorevole. Berlusconi continua a incombere come l'ombra di Banco: sabota i patti, avvelena i pozzi. Il costo politico di questa paralisi è altissimo. Lo paghiamo tutti. E inevitabilmente lo paga anche il governo Monti, che poggia su una maggioranza ormai impalpabile e pressoché impresentabile. In queste condizioni, il Professore può fare ben poco in Europa, perché la Merkel non può concedere altro a un Paese che non ha la più pallida idea su chi e come governerà dal 2013. E non può più fare nulla in Italia, perché varata la prima tranche di spending review dall'autunno l'esecutivo non avrà più una base parlamentare sulla quale costruire altre e più ambiziose riforme. Qualunque sarà la scadenza della legislatura, la campagna elettorale è già cominciata. Per questo, se le cose non cambiano, alla fine potrebbe essere persino lo stesso Monti a chiedere al Capo dello Stato di sciogliere le Camere a settembre. Tirare a campare fino alla primavera dell'anno prossimo non conviene al premier, ma forse non conviene neanche all'Italia. Senza un sussulto di dignità dei partiti, le elezioni anticipate rischiano di diventare addirittura il minore dei mali, e persino con lo scandaloso  Porcellum. Il più insopportabile dei paradossi, nel Paese del "Comma 22".

 

Corsera - 31.7.12

 

Spending review, oggi la fiducia - Roberto Bagnoli

ROMA - Il governo chiede la fiducia anche sul decreto spending review ma il voto slitta a questa mattina. Il braccio di ferro sui farmaci generici (finito con una mediazione che lascia al medico la facoltà di decidere) e una lunga discussione in Senato sul riordino della spesa pubblica - ridicolizzata da alcuni parlamentari Pdl e Lega che l'hanno paragonata alla «supercazzola» di monicelliana memoria - hanno allungato i tempi e alla fine il ministro per i Rapporti col Parlamento Piero Giarda ha dato l'annuncio della fiducia per oggi. Il maxiemendamento presentato ieri sera recepisce anche i contenuti del decreto legge sulle dismissioni. Dopo il voto, il provvedimento andrà alla Camera per essere convertito in legge giovedì o venerdì. Il maxiemendamento cambia anche il regime delle tasse universitarie, con una stangata sui fuoricorso. Ma modifica anche la situazione per quelli in corso, con un tetto all'aumento delle tasse (non più dell'inflazione) solo per gli studenti con redditi familiari (Isee) fino a 40 mila euro e aprendo la porta a incrementi negli altri casi. La mediazione raggiunta sui farmaci prevede che per il medico di famiglia rimanga l'obbligo di indicare sulla ricetta il principio attivo. Il medico ha però la facoltà di indicare sulla ricetta il nome del farmaco giustificando la scelta con una sintetica motivazione scritta. L'indicazione del medico - si precisa nel testo del maxiemendamento - è vincolante per il farmacista. La prima fase operativa della spending review assicura così allo Stato risparmi superiori a 4 miliardi nel 2012 e a 10 miliardi nel 2013. Queste risorse, rafforzate dalla cessione di alcuni asset per 10 miliardi di euro, consentiranno al governo Monti di rinviare al secondo semestre del prossimo anno, quindi post elezioni, l'aumento delle aliquote Iva altrimenti previsto per il mese di ottobre. Inoltre assicura il pensionamento anticipato ad altri 55 mila esodati, finanzia spese cosiddette «indifferibili» per oltre 2 miliardi nel prossimo anno e destina 1 miliardo sia nel 2013 sia nel 2014 alle zone terremotate di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Oltre alla conferma della specifica nelle ricette mediche del principio attivo, tra le modifiche di rilievo introdotte dal Senato, ricordiamo la facoltà delle Regioni di raddoppiare già dal 2013 all'1,1% dall'attuale 0,5% l'addizionale Irpef e la possibilità di arrivare anche a un raddoppio delle tasse universitarie per gli studenti i fuoricorso. Il capitolo dismissioni prevede la cessione alla Cassa depositi e prestiti (Cdp) delle società a controllo pubblico come Sace, Fintecna e Simest. Poiché Cdp è fuori dal perimetro della pubblica amministrazione, l'operazione porterà entro il 2012 a ridurre il debito pubblico di circa 10 miliardi. Tra le novità dell'ultimo minuto anche una intesa quadriennale tra Consip e il ministero della Difesa per la gestione degli acquisti e la cessione dei beni dismessi dall'amministrazione pubblica. Mentre il sindacato segue con occhio vigile e preoccupato l'evolversi della stretta sulla spesa buona fetta della quale derivante da forti sacrifici da parte del pubblico impiego, Confindustria suggerisce di spingere ancora di più sulla digitalizzazione dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione. Stefano Parisi, direttore generale di Confindustria Digitale, spiega che con l'erogazione dei servizi al cittadino e alle imprese via web si possono ridurre gli sprechi e le inefficienze in modo strutturale per un valore di almeno due punti di Pil, pari ad oltre 30 miliardi di euro in quattro anni». Dunque 7,5 miliardi di euro all'anno che andrebbero ad allontanare ancora di più l'aumento delle aliquote Iva.

 

La sovranità dei debitori - Angelo Panebianco

Nella sua storia il processo di integrazione europea ha combinato il nobile disegno di unificare il Continente, sia pure in un futuro indefinito, con misure pragmatiche, molto concrete, volte a risolvere i problemi man mano che si presentavano. È stata, fino alla crisi dell'euro, una storia di successo. Procedere, come si è sempre fatto, «per tentativi ed errori», e senza eccessi di politicizzazione dei problemi (che avrebbero scatenato conflitti), ha sempre aiutato l'integrazione. Almeno fino ad oggi. Anche la nascita dell'euro era avvenuta in questo modo: «Ci si imbarca e poi si vede». Si sperava che l'unificazione monetaria potesse trascinarsi dietro anche decisivi passi avanti sul piano dell'integrazione politica. Ma nessuno sapeva quando quei passi sarebbero stati compiuti. La crisi dell'euro ha cambiato tutto. Perché non è possibile uscirne con il tradizionale pragmatismo europeo, non è possibile superarla senza scelte di alto profilo politico. In gioco, niente di meno, ci sono la sovranità statale e i principi (e le procedure) della democrazia rappresentativa. Il Financial Times ha ospitato ieri l'autorevole parere di Otmar Issing, già membro del Consiglio della Banca centrale europea. In sintonia con l'opinione pubblica del suo Paese, Issing osserva che chiedere ai contribuenti tedeschi di ripianare, attraverso gli eurobond e in altre forme, i debiti dei Paesi dell'Europa mediterranea senza avere il diritto di esercitare uno stretto controllo sul modo in cui vengono impiegati i loro soldi, violerebbe il principio democratico del no taxation without representation (niente tasse se i cittadini-contribuenti non hanno il diritto di scegliere i rappresentanti). Perché mai i contribuenti tedeschi dovrebbero sborsare denaro senza che esistano i meccanismi per assicurare loro il controllo sul modo in cui quei soldi verranno spesi? Lungi dal favorire l'integrazione, ciò farebbe sorgere in Germania, secondo Issing, un risentimento così forte da portare alla dissoluzione dell'Unione. Piaccia o non piaccia, è una opinione «pesante» che non può essere ignorata. Si può però far osservare a Issing che i tax payers italiani potrebbero porsi un analogo interrogativo, di segno rovesciato, di fronte alla circostanza di una Germania che attualmente si finanzia a tassi negativi. Ma per capire la posizione dei tedeschi, d'altra parte, ci basta ricordare ciò che è accaduto poche settimane fa in Italia: di fronte a un quadro che si riteneva drammatico dei conti della Sicilia non si sono subito levate voci che chiedevano un commissariamento della Regione Siciliana da parte del governo? E che altro significava se non l'indisponibilità di molti contribuenti a continuare a pagare, senza poter esercitare alcun controllo, per le spese siciliane? L'esempio siciliano, naturalmente, riguarda il rapporto fra chi paga e chi spende all'interno di uno Stato nazionale. Nel caso europeo, la questione è ulteriormente complicata dall'assenza di uno Stato unitario. Ma, per l'essenziale, il problema è identico: chi paga deve essere titolare di un diritto di controllo sulle spese. Non si esce dalla crisi se non si trova il modo di conciliare due esigenze: garanzie per i tedeschi sull'impiego dei loro soldi, garanzie per gli altri che l'inevitabile perdita di sovranità che si prospetta non verrà usata dai più forti (come nel caso dei finanziamenti negativi) per indebolire ulteriormente i più deboli a proprio vantaggio. È un doppio e incrociato sistema di garanzie, in altri termini, quello che deve essere costruito. Non solo le rivoluzioni, ma anche le unificazioni incruenti non sono pranzi di gala.

 

La coca dei narcos in volo sui Caraibi - Guido Olimpio

WASHINGTON - I numeri dicono tanto. Dal 2006 a oggi le autorità messicane hanno individuato 3.834 piste clandestine usate dai trafficanti di droga. In Honduras, scalo intermedio per la «polvere» diretta verso gli Usa, ne hanno scoperte durante l'ultimo anni più di 60. Informazioni ufficiali che abbiamo incrociato con dati raccolti attraverso una ricerca personale su Google Earth. PIAZZOLE - Dall'alto somigliano a strade ma usando lo zoom si possono notare piccole piazzole in «testa» alla pista dove l'aereo - di solito un bimotore - può manovrare e ripartire. Alcune sono state ricavate usando la via principale in remoti villaggi. Altre ancora appartengono (o appartenevano) alle compagnie minerarie e i trafficanti le «prendono in prestito». VENEZUELA -Un articolo del «New York Times» ha rivelato come un gran numero di velivoli parta dalla regione di Apure, in Venezuela. In quest'area i narcos agiscono insieme ai guerriglieri delle Farc colombiane. Anche qui esiste un reticolo di piste semi-preparate dal quale decollano ininterrottamente gli aerei diretti di solito verso l'Honduras. RADAR - Una mappa con i tracciati radar fornita dalla Joint Task Force statunitense mostra l'incredibile traffico attraverso la regione caraibica, con più di 120 tracce. Per contrastare la minaccia, la Dea americana opera con Honduras e Guatemala. Una cooperazione che di recente ha permesso di bloccare alcuni velivoli dei trafficanti. LA GUERRA DELLA COCA - Il «giro» è consistente, redditizio e inesauribile. Per questo le bande acquistano un gran numero di aerei (anche negli Usa) usando dei prestanome attivi nella zona di Fort Lauderdale/Miami. A volte, per fare più in fretta, li rubano. I piloti non mancano, anche se la missione è rischiosa. Gli incidenti sono frequenti e in qualche occasione i voli possono essere intercettati. Da queste parti non si va troppo per il sottile. E' guerra vera. Un meccanico brasiliano che faceva parte dell'equipaggio di un narco-aereo è stato ucciso in Honduras. Invece di arrendersi ha fatto una mossa brusca. E lo hanno «abbattuto».

 

Fatto Quotidiano - 31.7.12

 

La Cassazione su mafia e appalti: "L'uomo di Gardini volle favorire Cosa nostra" - Davide Milosa

Da uomo di fiducia di Raul Gardini e da alto dirigente della Calcestruzzi interviene personalmente su un'impresa per "indurla a ritirarsi dalla partecipazione della gara". Sul piatto c'è l'appalto per la strada provinciale San Mauro-Castelverde-Gangi. Di più: scende a Roma per la spartizione dei lavori della tonnara di Capo Granitola (Trapani). Tra le società presenti anche la Reale, impresa riconducibile a Totò Riina attraverso "prestanomi". Insomma Lorenzo Panzavolta, ravennate, classe '22, tra gli anni Ottanta e Novanta, è uno dei protagonisti nella spartizione illecita degli appalti siciliani, mettendo "il proprio ruolo al servizio degli interessi mafiosi". Lo scrive la Corte d'appello di Palermo nel 2008, lo ribadisce oggi la seconda sezione penale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito che respinge così la revisione del processo chiesta dallo stesso ex dirigente della Ferruzzi. Il documento depositato il 26 luglio scorso timbra con certificazione storica un dato acquisito già in alcune sentenze: una delle più grandi industrie italiane, la Ferruzzi di Gardini, non solo ebbe rapporti con Cosa nostra, ma soprattutto ne favorì gli interessi. Ma per una verità acquisita, le parole dell'alta Corte riaprono una partita (siciliana ma non solo) archiviata velocemente e che per molto tempo è stata descritta come la chiave di volta per interpretare gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel mirino il dossier "mafia-appalti" depositato (per la sua prima stesura) nel 1991 dal Ros del generale Mario Mori. Informativa esplosiva, liquidata troppo in fretta e quindi svaporata tra le carte della Trattativa, soprattutto dopo che l'ufficiale dei carabinieri è stato coinvolto e indagato nell'inchiesta. Eppure quelli (1985-1991) sono anni ruggenti. Da nord a sud. E se a Milano, prima la Duomo connection e poi Mani Pulite danno la stura agli intrecci tra mafia-impresa-politica, a Palermo Salvatore Riina traghetta la sua organizzazione "da una fase parassitaria a una fase simbiotica con la grande imprenditoria". I giudici d'Appello fotografano così l'evoluzione voluta dal cda di Corleone. Siamo nel 1988. Un anno prima 360 presunti mafiosi vengono condannati a complessivi 2.665 anni di carcere. E' il primo grado del maxi-processo che mette in archivio l'epopea di una mafia ancora rudimentale. Parassitaria appunto e che entra nel mondo dell'edilizia attraverso i subappalti o il pizzo. Dalla metà degli Ottanta cambia tutto. "La mafia - scrivono i giudici di Caltanisetta - inizia a a gestire direttamente l'aggiudicazione degli appalti a imprese a lei vicine". Non solo: "Cosa Nostra, si inserisce a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti, applicando il pizzo sul pizzo, cioè decurtando le tangenti dirette ai politici dello 0,80%". In quel momento la Sicilia viene invasa dai finanziamenti pubblici. C'è da spartirsi una bella torta. Ai nastri di partenza si presentano "due organizzazioni criminali". La prima è Cosa nostra e il suo referente è Angelo Siino. La seconda è composta da un comitato d'affari che tiene dentro imprenditori e politici. In questo caso a far da tessitore e da ufficiale pagatore di tangenti è l'imprenditore Filippo Salamone e questo, scrivono i giudici d'Appello, grazie "alla sua linea diretta con il presidente della Regione Nicolosi e ai suoi legami con Calogero Mannino". Si tratta dei due politici che, stando alla ricostruzione della corte, in quel momento contano di più. Su uno di loro, Mannino, pesa oggi la richiesta di rinvio a giudizio nell'ambito dell'indagine palermitana sulla trattativa tra Stato e mafia. Totò Riina, però, non si accontenta. Il timore che il maxi vada a sentenza definitiva (come sarà) è alto. I dubbi sui vecchi referenti della Dc in poco tempo si trasformano in certezze. Toto u' Curtu accelera. Primo risultato: Angelo Siino non va più bene. Si attiva Brusca. Obiettivo: trovare un nuovo referente e portare a compimento la fusione tra Cosa nostra, grande impresa e politica. Tradotto: il terzo livello. Quello che Tommaso Buscetta non volle svelare. E che Giovanni Falcone aveva in testa di raccontare proprio agganciando la partita degli appalti. L'informativa del Ros, dunque, appare decisiva. Falcone lo dice direttamente e lo fa in un incontro pubblico pochi giorni dopo il deposito della prima informativa: "Bisogna cambiare il modo di investigare". Se Riina fa da regista occulto, il manovratore si chiama Pino Lipari, uomo ombra del boss. Sarà sua l'idea di allargare il tavolino (definizione per indicare la spartizione dei lavori pubblici) anche alle holding del nord-Italia. Quelle che i soldi li fanno girare sul serio. Viene varato quindi un triumvirato degli appalti: c'è Salamone che prende il posto di Siino. C'è l'ingegnere Giovanni Bini della Calcestruzzi che all'epoca "faceva capo al gruppo ravennate guidato da Panzavolta". Ma soprattutto spunta il nome di Antonino Buscemi "imprenditore mafioso della famiglia di Passo Rigano", già in rapporti d'affari con il gruppo di Gardini. Il nome di Buscemi, anni dopo, ritornerà in un appunto di Vito Ciancimino che affianca il colletto bianco di Cosa nostra al nome di Silvio Berlusconi per aver finanziato l'affare di Milano 2. Nei rapporti con Cosa nostra, dunque, Lorenzo Panzavolta non si sottrae e anzi con Buscemi i contatti diventano assidui. Risultato: la Calcestruzzi partecipa alla maxi-speculazione di Pizzo Sella, la magnifica montagna che sovrasta il golfo di Mondello. Uno scempio edilizio che ancora resiste e sul quale ci mise le mani la sorella di Michele Greco detto il Papa. Nell'affare entra la Calcestruzzi che, a detta dei giudici, in quell'operazione non vede una speculazione ma "un modo per favorire Cosa nostra". Un intervento voluto dallo stesso Buscemi. Ora alla base della richiesta di revisione del procedimento da parte di Panzavolta c'è un punto: all'epoca non era ad di Calcestruzzi ma semplice consigliere delegato. Un dato che viene definito irrilevante, visto che lo stesso Panzavolta, diventato amministratore delegato, "si era limitato a continuare l'investimento già intrapreso". L'uomo della Ferruzzi, condannato definitivamente a sei anni e sei mesi, sarà arrestato nel 1997. Il suo nome compare già nei verbali di Tangentopoli. Due anni prima, nel 1991, scattano le manette per Angelo Siino che inizia a collaborare. E' la prima tranche dell'indagine mafia e appalti. Siino fa il nome di Gardini e della Ferruzzi. Due anni dopo, il 23 luglio 1993, Gardini si suicida nella sua casa milanese. Panzavolta rivelerà una telefonata ricevuta dal patron poche settimane prima. Motivo: il coinvolgimento in Mani Pulite. I giudici nisseni però non ci credono e ipotizzano che quel contatto aveva come scopo capire gli sviluppi dell'inchiesta palermitana. Ecco la lettura che nel 2000 ne diede Siino, intervistato dal Corriere della Sera. "Credo che abbia avuto paura per le pressioni sempre più insistenti del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina (...) Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall'orbita mafiosa in cui era entrato. (...) So di preciso che quando si trattò di assegnare l'appalto per la costruzione della strada San Mauro-Ganci, Nino Buscemi mi disse che il 60 per cento dei lavori doveva essere assegnato alle imprese del Gruppo Ferruzzi. E Lima mi ordinò di eseguire". Ma prima di Gardini, muore Salvo Lima: ucciso a Palermo nel marzo 1992. E' il segnale: Cosa nostra cambia referenti politici. Saranno i socialisti di Bettino Craxi, ai quali lo stesso Gardini era da sempre legato. Insomma la sentenza della Cassazione su Lorenzo Panzavolta scrive l'ultima puntata del dossier su mafia e appalti. Riportando in primo piano il rapporto tra le stragi del '92-'93 e i contatti di Cosa nostra con le grandi imprese del nord Italia.

 




Data notizia31.07.2012

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