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Politica Italiana


 

Manifesto - 4.8.12

 

Inquinare paga - Angelo Mastrandrea

È principio assodato, oltre che regola codificata nell'Europa cui quotidianamente ci viene ricordato di appartenere, che chi inquina paga. A questo principio si è attenuta la Corte di Strasburgo quando si è occupata del petrolchimico di Priolo in Sicilia, e anche la Commissione europea ha sollecitato il nostro Paese ad adeguarsi, minacciando sanzioni e ricorsi. A Taranto esistono pochi dubbi su chi abbia inquinato e molte certezze su chi siano le vittime. Eppure il governo, pur di neutralizzare un magistrato fin troppo solerte che ha deciso il sequestro di sei impianti, è immediatamente intervenuto a riparare il danno come un qualsiasi padre che mette mano al portafogli per ovviare alla bravata di un figlio discolo. L'intervento ha preso la forma di un decreto legge che sblocca 336 milioni di euro in gran parte già stanziati per la bonifica dell'Ilva, oltre alla possibilità (tutta da verificare) di destinare una parte dei 21 miliardi stanziati dal Cipe per il sud Italia al risanamento del quartiere più prossimo allo stabilimento, uno dei più popolari della città. Inoltre, ha spiegato il ministro dell'Ambiente Corrado Clini, qualora saranno attuate dall'azienda una serie di innovazioni tecnologiche nel breve periodo, l'azienda «potrà accedere ai fondi pubblici». La vicenda di Taranto mette a nudo una volta per tutte il laissez faire garantito a chiunque promettesse lavoro al sud. Nessuno ha mai chiesto alcunché in cambio, nessuno ha presentato il conto. Non è accaduto alla Fiat a Termini Imerese, alle decine di imprenditori che hanno preso i soldi del terremoto dell'80 in Irpinia e sono scappate lasciando cimiteri industriali, ai magnati del petrolio in val d'Agri, Basilicata. Lo stesso sta avvenendo con i veri responsabili del disastro tarantino, i vertici dell'Ilva, disponibili al dialogo con chiunque pur di non essere chiamati a rispondere del loro operato. In Italia vale ancora l'eterno principio che inquinare paga. L'Europa ci faccia caso.

 

La parabola di una città avvelenata e il risanamento impossibile - Annamaria Rivera

Era l'alba degli anni sessanta quando vidi per la prima volta un cadavere: il corpo a malapena ricomposto di un ragazzo, compagno di vacanze estive al mare. Per tragica ironia del destino, lui, campione di tuffi, era precipitato da un'impalcatura del cantiere che costruiva l'Italsider di Taranto. Era una delle prime vittime dell'acciaieria, oltre che di una bocciatura scolastica punita con l'obbligo di un lavoro estivo. Lavoro nerissimo, controlli zero e neppure il minimo rispetto della sicurezza: era il sistema, che sarebbe diventato sempre più reticolare, degli appalti e dei subappalti, favorito dalla stessa Italsider per tagliare tempi e costi dei lavori e disporre di manodopera sottomessa. Quello che ho raccontato fu solo uno dei più precoci omicidi bianchi, una lunga teoria che avrebbe scandito la vita quotidiana della città. Già altissimo nella fase della costruzione, il tasso d'infortuni, compresi i mortali, nel 1970 s'impennò a 1.694 ogni 1.000 operai: in sostanza quasi due infortuni l'anno per ogni operaio. Ben presto ai sacrificati direttamente dal profitto si sarebbero aggiunte le vittime dell'inquinamento, la cui entità mostruosa è talmente nota che sarebbe pletorico insistervi. Per dire solo della mia famiglia, all'unica di noi tre sorelle rimasta a Taranto non sono serviti a salvarla dalla morte per cancro l'attivismo ecologista e neppure la sobrietà estrema dello stile di vita. E di cancro si è ammalata buona parte dei cugini che tuttora vi risiedono. A proposito del sistema degli appalti, è grazie ad esso che nella città dei due mari esordiva e s'infiltrava la mafia che poi si sarebbe organizzata nella Sacra Corona Unita, nella Nuova Camorra Organizzata e in altre reti criminali. Insomma, la "cattedrale nel deserto" e il sistema mafioso stravolsero per sempre non solo l'ecosistema ma anche il tessuto sociale e politico della città, un tempo comunista in buona parte, e produssero alla lunga boss feroci come i fratelli Modeo e loschi figuri come il sindaco Cito, con la sua progenie tuttora sulla breccia politica. Come ha scritto Ornella Bellucci in Il mare che non c'è. Come un'industria può divorare una città (a cura di C. Raimo, 2007), «la dilatazione degli appalti e di un indotto parassitario» sono stati «il brodo di coltura dell'inferno degli anni ottanta, della connivenza tra mafia e politica, delle guerre di mala, dell'implosione del sistema delle partecipazioni statali». Certo, c'erano stati anni migliori, sul versante del protagonismo e della coscienza operaia e di conseguenza anche su quello delle istituzioni. La fase della riscossa operaia, dal 1969 alla metà degli anni '70, il ruolo svolto dai consigli di fabbrica, la capacità di saldare le rivendicazioni dei lavoratori garantiti dell'Italsider con quelle dei non garantiti dell'indotto, si riflessero poco più tardi nella famosa Vertenza Taranto, sui temi dell'occupazione e dello sviluppo, che riuscì a coinvolgere l'intero mondo del lavoro e buona parte della società tarantina. Alcuni giorni fa, in una trasmissione radiofonica, Ferrante, il presidente dell'Ilva - distintasi per una gestione talmente dispotica da avere come emblema il confino degli operai riottosi nelle palazzine Laf - ha parlato, non smentito da alcuno, di «uno splendido rapporto con lavoratori e sindacati». Tuttavia, le larghe intese non sono una novità dell'oggi, con forze sindacali e politiche di fatto alleate col padronato e il governo - rappresentato ora da un ministro dell'Ambiente credibile come una volpe nel pollaio - tutti a far pressione, in modo più o meno esplicito, contro l'imprudenza della magistratura tarantina. La quale in realtà è stata la sola a non dare mai tregua al Gruppo Riva, condannato per la prima volta nel 1982 grazie a Franco Sebastio, allora sostituto procuratore. Già nel 1958 - ricorda Ornella Bianchi (Il diritto dimezzato, Annali della Fondazione G. Di Vittorio, 2011) - al momento di decidere del polo siderurgico «si saldò a livello locale un'ampia intesa tra istituzioni, forze politiche di diverso colore, associazioni imprenditoriali e le stesse organizzazioni sindacali», solidali nell'ideologia ultra-industrialista, anche se non nell'intera gamma d'interessi. «Non si levò dunque alcuna voce critica - continua Bianchi - contro uno sviluppo ancora una volta artificiale ed eterodiretto, né si espressero dubbi sulla sostenibilità ambientale di una acciaieria così imponente e così a ridosso della città». Più tardi, «neppure i sindacati condannarono i troppi incidenti che cominciavano a scandire la vita dell'Italsider, assegnandogli il triste primato delle morti sul lavoro». Alle elementari si apprendeva che avevamo il privilegio d'essere nate nella capitale della Magna Grecia, la città di Archita, Liside e altri pitagorici, che conserva la più grande collezione al mondo di ori dell'antichità, la città che a quel tempo aveva la palma del primo ponte girevole, di uno dei più bei tramonti del Mediterraneo e anche del più importante allevamento di mitili al mondo, poi distrutto dall'acciaieria. Intorno alla mitilicoltura, alla pesca e all'agricoltura fioriva una rete di piccole industrie agroalimentari, certo del tutto insufficiente a compensare la disoccupazione crescente, legata alla gravissima crisi economica degli anni '50, provocata dal declino dell'Arsenale militare e di altri cantieri navali. Ma non era ineluttabile che il destino della molle Tarentum fosse d'essere ingoiata dal mostro avido di sacrifici, partorito dai sogni della coalizione industrialista. Un mostro che insieme alla città ha divorato non solo antiche masserie, reperti archeologici, immense distese di mare, spiagge e pinete, ma anche un numero incredibile di esseri umani, per non parlare dei non umani. È assai dubbio che al punto in cui si è, cioè di distruzione di un intero ecosistema, si possa inseguire la chimera di un'acciaieria compatibile, come vanno promettendo alcuni. E poiché il governo e altri decisori politici hanno scelto di destinare una somma ingentissima non già alla riconversione produttiva, bensì a un irrealistico risanamento, è improbabile che possa risolversi l'antinomia fra il lavoro e la vita.

 

Facciamo l'Ilva valley - Nicola Cipolla

«Non si può più consentire al siderurgico tarantino del gruppo Riva (in possesso dell'ex impianto Finsider dal 1995) di sottrarsi al dovere di anteporre la logica del profitto, sino ad oggi così spregiudicatamente e cinicamente seguita, al rispetto della salute e della salubrità dell'ambiente». Partendo da questa considerazione il giudice Patrizia Todisco, sostenuta dai Procuratori di Taranto e di Lecce e da tutti i colleghi, ha disposto il rinvio a giudizio e gli arresti domiciliari a carico dei proprietari Riva e di sei dirigenti per i reati di disastro ambientale e omicidio colposo plurimo. Sono in corso, anche, due procedimenti penali, ad iniziativa di comitati ambientalisti e di cittadini danneggiati. Viene consacrato, così, in un atto giudiziario, il concetto, finora espresso dalla sinistra ambientalista, della impossibilità di conciliare un'economia basata sul profitto con la difesa dell'ambiente dai disastri, a cui ogni giorno assistiamo, come lo scioglimento dei ghiacci ai poli, gli incendi, le siccità, le alluvioni. I magistrati di Taranto e Lecce riaffermano il principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge che deriva dalla rivoluzione francese tradotto poi nel codice napoleonico e nelle Costituzioni di tutti gli Stati europei. Questi giudici sono sullo stesso piano, a mio avviso, di quelli antimafia siciliani Falcone, Borsellino, Chinnici, ed ora, i loro eredi Ingroia e Spampinato, etc. che sono stati e sono sottoposti ad un fuoco di fila da parte di poteri che si sono giovati e si giovano tutt'oggi dell'appoggio della mafia. La maggior parte degli operai e dei sindacati hanno seguito, e forse seguono ancora, la linea difensiva dei Riva per paura di perdere il posto di lavoro. Ma ci sono lavoratori che: si sono ripresi la parola e hanno rivelato verità scomode. Irrompono nella sede della fondazione Riva, zeppa di telecamere e giornalisti, dove Ferrante tiene nei giorni scorsi la sua conferenza stampa e parlano: «Il 30 marzo (all'approssimarsi della sentenza quando gli operai manifestarono contro i magistrati) ci avete pagato la giornata e i pullman per andare alla manifestazione. Oggi abbiamo scioperato, ma voi avete continuato a produrre, avete fatto 23 colate di acciaio al posto delle solite 18...». Silenzio imbarazzato e fine della conferenza stampa. Sono intervenuti a centinaia alla manifestazione indetta dai sindacati il 2 agosto per sostenere queste posizioni senza suscitare reazioni contrarie da parte delle migliaia di altri operai intervenuti. Si impone una riflessione. Nel XX secolo la forza scatenante di tutte le grandi rivoluzioni antimperialiste è stata rappresentata essenzialmente dalle masse contadine e dalle borghesie nazionali, che hanno posto fine ad un sistema di globalizzazione iniziato nel 1492. Oggi l'anello più debole della dominazione capitalista è rappresentato dall'incompatibilità del sistema basato sul profitto con la difesa dell'ambiente e della salute di tutti i cittadini. Il caso Taranto è emblematico. È un dovere per chi si professa di sinistra o di chi dirige un sindacato, come la Fiom o la Cgil, sostenere, sia a Taranto sia in Sicilia, la provvidenziale azione dei magistrati. Il caso Taranto è significativo per un'altra ragione: rappresenta il fallimento e/o l'obsolescenza di due politiche industriali iniziate nel '48 (Piano Sinigaglia) e nel '50 (Cassa del Mezzogiorno). La mancanza di risorse minerarie, carbone e ferro, in quantità sufficienti per alimentare una grande industria, aveva limitato lo sviluppo del nostro paese. Negli anni 50' e 60' il Piano Sinigaglia, appoggiato dalla Fiat di Valletta, con il primo stabilimento a ciclo integrale di Cornigliano (Ge), si basò sul carbone e minerali di ferro, provenienti, via mare, da paesi che avevano le materie prime ma non erano in grado di realizzarne in loco la trasformazione. Con la fine del colonialismo, e l'inizio dello sviluppo dei paesi che oggi vanno sotto il nome di Brics, la situazione è profondamente mutata in quanto questi paesi sono in grado di utilizzare in loco le materie prime di cui dispongono. Per fare un esempio, nel 2002 la Cina produceva il 15% dell'acciaio mondiale oggi ne produce il 45% ed è al primo posto nel mondo. Però nel contempo ha chiuso i reparti a caldo, come quelli sequestrati a Taranto, ubicati a Shanghai e a Canton e li ha trasferiti nelle zone interne, meno popolate e più vicine alle miniere, mantenendo però nelle due grandi città costiere le lavorazioni più ricche. La cokeria e gli alti forni di Taranto, per funzionare, hanno bisogno di dieci tonnellate di carbone e minerale, che proviene da migliaia di km di distanza, per produrre una tonnellata di acciaio che successivamente viene lavorata nei reparti a freddo o in altre acciaierie elettriche d'Italia. Tutto ciò si è retto finora perché gli impianti di Taranto, costati miliardi di denaro pubblico alla Finsider, sono stati quasi regalati a Riva, hanno ottenuto finanziamenti e soprattutto la tolleranza di un disastro ambientale inconcepibile in un paese civile. In Francia e Gran Bretagna, paesi leader della prima rivoluzione, hanno chiuso da tempo questi impianti trasformati oggi in un sito turistico di archeologia industriale. Per affrontare veramente la questione bisogna partire dal fatto che la sentenza non mette in discussione tutta l'acciaieria ma solo la cokeria e gli alti forni cioè poco più di un terzo degli operai. Adoperando lo schema di Cornigliano (chiusura degli alti forni e mantenimento delle lavorazioni elettriche più redditizie) si potrebbe acquistare, sul mercato internazionale a costi competitivi, il prodotto necessario per la seconda lavorazione liberando i 7.500 operai rimasti e la popolazione di Taranto dall'attuale crisi ambientale. Così come potrebbero fare gli altri impianti elettro siderurgici che lavorano in Italia. I 4.500 operai nel settore da chiudere sarebbero sicuramente impiegati per diversi anni nel lavoro necessario di rimessa in sicurezza delle aree interne ed esterne inquinate (è vietata l'agricoltura per 20 km attorno alla fabbrica). Le enormi superfici così liberate, non possono essere restituite all'agricoltura, ma potrebbero essere utilmente occupate da una grande centrale fotovoltaica capace di produrre la gran parte dell'energia elettrica necessaria per l'azienda. Nessun operaio dovrebbe essere licenziato. E qui il discorso si allarga al Mezzogiorno dove sono in crisi tutte le "cattedrali nel deserto" (che più che cattedrali sono mostri di desertificazione) a cominciare da Gela, Priolo, Milazzo, Brindisi, etc, che hanno visto ridurre a poche centinaia le migliaia di lavoratori utilizzati nel primo periodo della loro attività. Queste non solo hanno occupato terreni adattissimi al turismo e all'agricoltura d'avanguardia ma con i loro fumi ne impediscono lo sviluppo per decine di km. L'unico impianto del Mezzogiorno, che ha prodotto e produce occupazione e sviluppo, anche qualificato, è quello promosso da Pasquale Pistorio a Catania con la STMicroelettronics che ha realizzato, in un momento di crisi dell'elettronica di consumo un aumento degli investimenti e dell'occupazione. Occupazione, particolarmente qualificata, per quasi il 50% rappresentata da ingegneri e tecnici (onde lo sviluppo delle facoltà universitarie collegate) e che oggi è in grado di produrre 400 Mw di pannelli solari all'anno che però non possono essere utilizzati in Italia perché, dopo l'exploit dei primi Conti Energia degli anni 2010 - 2011 e nella prima parte del 2012 che hanno portato l'Italia al primo posto nel mondo nell'installazione di pannelli fotovoltaici, in virtù dell'unica materia prima in cui abbondiamo che è il sole. Monti, sostenuto dalla sua maggioranza ABC, ha bloccato le rinnovabili per garantire il monopolio dell'Eni, dell'Enel e delle altre società privatizzate, mettendo così in serio pericolo i 60 mila nuovi posti di lavoro, ma soprattutto la prospettiva di raggiungere i 350 mila posti come in Germania. Posti creati da piccole e medie imprese ma anche da imprese come quella della famiglia Marcegaglia che, come ho scritto nell'articolo "Il futuro è rinnovabile" del 6 ottobre scorso sul manifesto, ha ristrutturato un suo impianto siderurgico iniziando la produzione di pannelli fotovoltaici con oltre 250 nuovi addetti. Utilizzando, nello spirito dell'art. 43 della Costituzione, richiamato da Cremaschi nel manifesto del 3 agosto, queste esperienze e l'apporto delle due imprese (Stm e Marcegaglia) si potrebbe proporre per l'Ilva una nuova attività nel fotovoltaico di dimensioni analoghe all'Etna Valley (4.500 occupati) capace di sviluppare ulteriormente l'occupazione. Ma questo presuppone un mutamento radicale nella politica ambientale e industriale del governo Monti. Ai quattro nuovi referendum proposti dall'Idv bisognerà aggiungerne un altro tendente a rovesciare questo provvedimento che blocca l'unica crescita industriale possibile. Intanto la Regione Puglia, Nichi Vendola, la Fiom, la Cgil, e se vogliono gli altri sindacati, dovrebbero mettersi alla testa di una mobilitazione che, partendo da Taranto, riguarda l'avvenire ambientale e industriale di tutto il paese. E prima di pensare, in vista delle prossime elezioni nazionali, a schieramenti pre elettorali o ad alleanze post elettorali, addirittura con l'Udc, bisogna chiedere a Bersani e Casini se vogliono ritirare oggi il sostegno alla politica disastrosa di Monti in generale e, in particolare, rivedere la loro posizione, riguardo la questione essenziale e strategica nel XXI secolo, ce è quella del passaggio da una economia basata, come nel XIX e XX secolo sulle energie fossili, ad un nuovo modello economico e sociale necessario per salvare l'ambiente, ormai tecnologicamente possibile e capace di assicurare lo sviluppo dell'occupazione e quindi una migliore difesa delle conquiste sociali già realizzate.

 

In Sicilia il patto è già saltato - Andrea Fabozzi

ROMA - L'accordo l'hanno firmato per il 2013, quest'anno però dovranno già smentirlo, nel primo appuntamento elettorale. Il voto regionale in Sicilia è previsto per la fine di ottobre, qualcuno ipotizza addirittura prima ma non è escluso che possa anche slittare (solo un po'). Quello che è certo è che Sinistra ecologia e libertà e partito democratico partono da due fronti opposti. Divisi dai candidati, quello del Pd non è ancora ufficiale, e soprattutto dalla linea politica. Claudia Fava, che di Sel è uno dei fondatori, si è candidato con una proposta di totale alternativa al governo Lombardo, il governo che il Pd ha (dolorosamente) sostenuto. E infatti Fava spiega che la sua candidatura si rivolge non al partito democratico - che in Sicilia è ai minimi termini e sta subendo l'autocandidatura di Rosario Crocetta - ma ai suoi elettori, «quelli che hanno votato Pd per fare l'opposizione a Lombardo e due anni dopo si sono ritrovati in maggioranza». Dunque l'alternativa «può essere costruita solo con le forze che non hanno avuto responsabilità di governo», invece dal Pd nemmeno un autocritica. Dunque è Fava a certificare la non esportabilità del patto Vendola-Bersani: «Qui le formule nazionali non funzionano e del resto il centrosinistra in Sicilia non esiste, il Pd lo ha condotto sul patibolo offrendolo a Lombardo. Il Pd è corresponsabile non solo del malgoverno con alcuni pezzi del centrodestra e con l'Mpa, il partito del presidente, ma anche del saccheggio delle risorse pubbliche». La nomina di due assessori un minuto prima di dimettere la giunta è solo l'ultimo esempio. A maggior ragione l'Udc, che secondo Fava deve «almeno saltare un giro» visto che pur avendo avuto rapporti difficili con Lombardo «discenda dalla stessa filiera culturale del governatore» e infatti sta ereditando pezzi del suo partito. Nel frattempo un po' per imput romano e molto per prepararsi a gestire il buco che Lombardo lascia in eredità, Pd e Udc stanno provando l'abbraccio. Il Pd con qualche difficoltà in più visto che il partito è diviso e l'unico candidato in campo, l'ex sindaco di Gela e europarlamentare Crocetta, ha fatto tutto da solo. Al punto che ieri ha attaccato duramente il segretario regionale Giuseppe Lupo quando nientemeno che Pippo Baudo ha rivelato di essere stato sondato dai democratici come possibile candidato. Lupo ha smentito: la caccia all'intesa con i post democristiani di Casini (che, bisogna ricordare, ha ritrovato la solidarietà verso Totò Cuffaro, andando a fargli visita in carcere) procede lungo strade diverse dal recupero del presentatore televisivo, vecchia gloria andreottiana. E potrebbe persino tornare a incrociare proprio il nome di Crocetta, per quanto difficile questo possa apparire oggi. Così almeno ha dichiarato il leader regionale dell'Udc, il senatore Gianpiero D'Alia che ieri a riunito a Palermo la direzione del suo partito. E ha domanda ha risposto: «Se Crocetta sarà il candidato del Pd e condividerà il nostro programma elettorale allora il nostro candidato sarà l'ex sindaco di Gela». Crocetta, del resto, nota Fava, gode dell'apprezzamento esplicito di Lombardo e può contare sul sostegno del quotidiano più lombardiano che ci sia, La Sicilia di Mario Ciancio Sanfilippo. L'aggancio con l'Udc in regione, per i democratici, sarebbe solo il primo passo in vista della riedizione di un governo di larghe intese siciliane, possibilmente aperto anche al centrodestra al momento schiacciato da una folla di candidati. Il pallino è nelle mani del senatore D'Alia che oggi parte per un giro di consultazioni. Comincia con «gli amici del Pd».

 

Questo sindaco non è in lista - Giorgio Salvetti

Che cos'è questa lista dei sindaci? Dopo l'accordo tra Bersani e Vendola si torna a parlare di un movimento che vede come protagonisti i primi cittadini della svolta arancione dello scorso anno, i quali scenderebbero direttamente in campo con una loro lista per appoggiare il centrosinistra alle prossime elezioni. Sarebbe questa la via per coinvolgere la società civile, drenare la perdita di voti e di fiducia per la politica e arginare l'ascesa del Movimento Cinque Stelle. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ci crede e si è candidato ad esserne il fondatore e il trascinatore. Si fanno i nomi anche del sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, e del sindaco di Bari, Michele Emiliano, capeggiati non da De Magistris, ma da Giuliano Pisapia che avrebbe già dato la propria disponibilità a Vendola e Bersani, e che sarebbe più gradito ai due leader. Pisapia però è in vacanza e nel suo staff più che di lista dei sindaci si pensa a come aprire i partiti al contributo della cittadinanza attiva. Il Pd ieri ha negato l'esistenza di questa lista. E per Emiliano si tratta di un'ipotesi che non esiste «disegnata nel cielo». Ne parliamo con il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Sindaco allora cos'è questa lista? Io non ne so niente. E in ogni caso non ho nessuna intenzione di candidarmi. In questo momento di crisi voglio stare vicino ai cagliaritani e fare il sindaco della mia città. E poi penso che bisogna procedere secondo certe priorità. Prima dobbiamo dire che paese vogliamo, avere un programma di governo intorno al quale costruire la coalizione di centrosinistra, quindi, attraverso le primarie, bisogna permettere agli elettori di scegliere il nostro candidato alla presidenza del consiglio, e poi allargarsi, aprirsi e chiedere il sostegno di tanti cittadini. Non si può parlare di liste prima di svolgere questo percorso fino in fondo. Infine io sono di Sel e sostengo la mia lista, non altre. De Magistris però sembra avere un'idea diversa. Io parlo per me, ovviamente. Ognuno è libero di fare come meglio crede, se lui vuole fare una lista è libero di farla, ma per me è prematura, prima serve costruire un progetto per il paese. Ma tra voi, sindaci arancioni, ne avrete pur parlato. Abbiamo parlato di tante cose ma non di questa. Abbiamo ottimi rapporti tra di noi, De Magistris mi ha anche invitato a Napoli per una bellissima iniziativa sui beni comuni. Il modello «arancione», però, si basa proprio sull'apertura dei partiti alla cittadinanza attiva, su questo i sindaci saranno chiamati ad avere un ruolo? Un conto è dire che i sindaci del centrosinistra siano chiamati a dare il loro contributo e sostengano i partiti della coalizione, questi partiti si devono aprire alla società e su questo fronte i sindaci hanno molto da dare, ben altra cosa è parlare di una lista dei sindaci. Che cosa pensa del patto Bersani-Vendola? Mi pare sia un bene che si parli di programmi per il futuro governo del centrosinistra. Anche senza Idv e magari finendo al governo con l'Udc? Con Di Pietro credo che Vendola stia facendo tutto il possibile per ricucire e penso che Italia dei valori sia a tutti gli effetti una forza del centrosinistra. Quanto a ritrovarsi al governo con l'Udc al momento mi sembra che questa ipotesi sia molto lontana. Non tanto lontana, dopo l'apertura di Vendola. Vendola ha già chiarito la questione. E poi non mi appassionano queste discussioni col bilancino che sommano algebricamente le forze politiche. Mancano di contenuto e non appassionano neppure i cittadini. Invece c'è bisogno di coinvolgere tutti quelli che si sono comprensibilmente allontanati dalla politica per gli atteggiamenti e i giochi di poteri di molti politici. Ma appunto a questo servirebbe la lista dei sindaci, ad aprirsi alla società e a tutti i delusi dal centrosinistra che potrebbero votare Grillo, o sbaglio? A Cagliari, come a Napoli e a Milano il centrosinistra è riuscito a coinvolgere i cittadini. Quel modello ha pagato. Abbiamo vinto. Ora si tratta di ripetere quell'esperienza a livello nazionale. Il patto fra Sel-Pd e le aperture all'Udc non rischiano di frustrare questa voglia di partecipare? Anche molti sostenitori di Sel sono perplessi. Infatti bisogna ragionare di altro, dei contenuti, di lavoro, occupazione, lotta alla precarietà. Su questi temi si riesce a dare entusiasmo e voglia di partecipare, e così si trasforma un'alleanza tra partiti in un progetto per il futuro del paese.

 

Non allineati, delusi - Sandro Medici

Era nell'aria, s'era capito, ma quando il patto tra Bersani e Vendola è stato ufficialmente annunciato, molti a sinistra, molti di noi si sono sentiti svuotati e frustrati. Come chi da anni pedala in salita, sfiatando e sudando, e qualcuno gli sgonfia le ruote lasciandolo sul bordo della strada sfinito e deluso, indispettito per aver tanto faticato, forse invano. Prima di riprendere il respiro e magari guardare ad altri orizzonti, concediamoci allora di consumare tutta l'inquietudine che si va depositando in questi giorni nelle discussioni, nelle telefonate, nei rivoli del web o nel chiuso di una riflessione, di un interrogarsi senza rispondersi, di un amaro tormento. C'è sconcerto, disorientamento, perfino collera. Perché la sinistra italiana continua ciclicamente a dividersi tra subalternità e massimalismo, tra un realismo rassegnato e un irraggiungibile orizzonte, tra la languida seduzione del qui e ora e l'impettito fascino del mai? Perché non riesce a praticare politiche coraggiose ma possibili, avventate ma consapevoli, prigioniera di un riflesso cosiddetto responsabile che spezza le ali e taglia le unghie, o relegata a coltivare nobili speranze, spesso ingannevoli e comunque lontanissime? Nel progetto di Sinistra e libertà, nel suo tentativo (gramsciano?) di tenere insieme il dire e il fare, l'utopia e la pratica politica, si scorgeva la possibilità di superare dicotomie storiche con piglio culturale contemporaneo. Un tentativo di liberarsi dai retaggi novecenteschi ma tuttavia ancorato al desiderio di misurarsi con l'antica aspirazione del sovvertire grammatiche politiche e modelli economici, gerarchie sociali e comportamenti civili. Un'agile combinazione tra pensiero e iniziativa che agiva nelle lotte come nelle esperienze di governo, nei rapporti con movimenti e associazioni come nelle svariate attività istituzionali e amministrative. Nonostante limiti e anche qualche errore, la breve storia di Sel è riuscita a dimostrare che anche nel nostro paese ci sarebbero spazio e ruolo per una sinistra che né si omologa e si conforma, né si accontenta delle proprie certezze. A tratteggiare uno stile politico che non si esauriva all'interno del partito ma si voleva aperto ad altre soggettività, grazie alle quali comporre una volontà più ampia e, in definitiva, più efficace e fattiva. Difficile, se non impossibile, che tutto ciò possa ora convivere nell'alleanza con un partito, il Pd, che altro non si propone se non accompagnare con maggiore efficienza il processo neo-liberista con cui il capitale intende uscire dalla sua crisi, demolendo le politiche pubbliche e imponendo gli interessi privati. Alludere a un mondo diverso e possibile, e poi ritrovarsi ad affiancare chi il mondo lo vuole ormai così com'è, sempre più ingiusto e ancor più autoritario. E non ci si venga a raccontare che proprio per evitare derive ancor peggiori, è meglio provare ad attenuarne gli effetti facendo attrito con la propria partecipazione. Inutile a questo punto continuare a domandarsi i perché e i percome. Il bisogno di uscire dalla tirannia delle compatibilità finanziarie e trovare nuove prospettive politiche resta ancora la principale urgenza della sinistra. E non tutti (anzi pochini) sono disponibili a stringere patti e farsi normalizzare. Sappiamo tuttavia che questa refrattarietà ancora non basta per avviare un nuovo progetto di rilancio della sinistra. Qualche giorno fa è affiorata una bella suggestione: creiamo il movimento dei non allineati, dei tanti che nelle associazioni, nei partiti, nei sindacati, dappertutto vivono se stessi come un potenziale processo alternativo. Perché non raccogliere questo sentimento politico?

*presidente del X Municipio e candidato a sindaco di Roma

 

L'Idv tenta i referendum: «La Fiom si unisca a noi» - LORIS CAMPETTI

Lo strappo della foto di Vasto e il rimescolamento delle alleanze a sinistra, sanciti dall'incontro tra Bersani e Vendola, hanno costretto anche l'Italia dei valori a ricercare una sua strada in preparazione delle elezioni. La prima mossa del nuovo corso dipietrista è l'annuncio della prossima deposizione di 4 quesiti referendari, due contro la cosiddetta «casta» e due sul lavoro che puntano alla cancellazione dell'articolo 8 della manovra berlusconiana dello scorso agosto con cui si è aperta la strada alla fine del contratto nazionale e alla «rinascita» dell'art.18 dello Statuto dei lavoratori, mandato in pensione da Fornero. Una mossa, questa, che ha creato scompiglio in quei settori sociali e sindacali che stavano preparando una mossa analoga: c'è la preoccupazione che l'Idv voglia mettere il cappello politico su una battaglia che dovrebbe avere il sostegno e la mobilitazione di diversi soggetti. Maurizio Zipponi, responsabile del lavoro per l'Idv, nega questa presunta egemonia e dice anzi di voler mettere il suo partito al servizio di un comitato il più ampio possibile. La Fiom, la sinistra sindacale Cgil, associazioni di giuristi e un vasto movimento democratico stavano discutendo i tempi e le forme per fermare la corsa alla cancellazione dei diritti del lavoro. Perché avete deciso di metterci il vostro marchio? Vorrei lanciare attraverso il manifesto un messaggio alle persone di buona volontà che come noi sono preoccupate per i rischi che corre la nostra democrazia. Teniamo i nervi saldi. Per l'Idv il programma è dirimente, è la precondizione per qualsivoglia alleanza che dev'essere alternativa al centrodestra e segnare una profonda discontinuità con il governo Monti. La prima discontinuità per noi sta nelle politiche per il lavoro. Dopo alcune incertezze e qualche dubbio sullo strumento referendario in alcune aree del movimento antiliberista, verificata l'infondatezza delle preoccupazioni di chi escludeva la possibilità di avviare il percorso elettorale con le elezioni in primavera, abbiamo deciso di approfittare di una finestra aperta: una volta depositati i quesiti alla Corte di Cassazione si possono raccogliere le firme, almeno 700 mila, tra l'inizio di ottobre e la fine di dicembre. Di conseguenza il referendum si dovrà fare entro un anno, al massimo all'inizio del 2014. Se nel frattempo un centrosinistra in discontinuità con il governo Monti avrà vinto le elezioni, sarà suo compito legiferare per riportare embrioni di democrazia nel lavoro, altrimenti i cittadini saranno chiamati a dire la loro con i referendum. Mi spiace che Nichi Vendola si sia aggiunto a coloro che sostengono, sbagliando, la non percorribilità della strada referendaria. Cosa prevedono i due referendum sul lavoro? L'abrogazione di alcune parti della nuova legge che riduce l'efficacia dell'art.18, per aumentarne invece l'efficacia e l'estensione. Rispetto all'art.8 berlusconiano puntiamo a riconquistare un principio: alcuni diritti devono essere a disposizione solo di chi lavora, non dell'impresa né dei sindacati, e in questo contesto il contratto nazionale rappresenta un elemento di civiltà. Resta il fatto che avete scelto di partire da soli... Non è così, non c'è tempo per le centralità identitarie dei singoli. E non c'è più tempo per tergiversare. Semmai, la cosa più importante ora è costruire un'azione unitaria. Chiedo solo che all'Idv venga riconosciuta la dignità di una forza politica che sta cambiando. Se è vero come è vero che l'obiettivo - la ricostruzione della democrazia nel lavoro - è comune, penso alla Fiom e a tanti altri soggetti e personalità, allora facciamo un comitato referendario unitario, noi ci mettiamo a disposizione come parte rispettata di un movimento per la democrazia partecipata. L'Idv, e non parlo solo a nome mio ma anche del presidente Di Pietro con cui siamo in piena consonanza, è pronta a fare un passo indietro per farne insieme due in avanti. La strada referendaria e la ricerca di un rapporto con i movimenti si affiancano a una crescente distanza dalle scelte del Partito democratico. È una posizione condivisa nell'Idv? Alcuni brontolii si sono sentiti. Non siamo il Pcus, dissensi ci sono anche tra di noi. Posso però dire con certezza che il 95% del partito condivide le scelte del presidente. Dopo il confronto c'è la composizione unitaria. È giusto che sia così, in un partito che attraversa una fase di grande cambiamento. Al centro di questo processo c'è la convinzione condivisa che la democrazia non è un mezzo ma il fine. In Italia la democrazia è stata violata, per esempio alla Fiat deve ben 11 tribunali si sono pronunciati contro le politiche di Marchionne. I tribunali parlano, mentre il presidente del consiglio e il presidente della repubblica tacciono. Ripeto: al centro mettiamo i contenuti e sulla base di contenuti condivisi si possono costruire le alleanze. Aggiungo che noi vogliamo parlare anche agli elettori del Pd che non condividono le scelte del gruppo dirigente. E se sui referendum non si arrivasse a un comitato unitario? Sarebbe un errore politico, a parte il fatto che qualora si presentassero più quesiti referendari sullo stesso tema, ogni soggetto proponente dovrebbe raccogliere almeno 700 mila firme. Ma la nostra proposta unitaria è squisitamente politica, abbiamo dimostrato di non aver problemi a raccogliere le firme. L'abbiamo già fatto con successo.

 

Quella gigantesca bolla tra Cina e Brasile - Joseph Halevi

Il dollaro australiano, ancor più del real brasiliano e del peso argentino, è una moneta cinese. Tutta la sua dinamica dipende dalle aspettative riguardo la Cina fatte dalle società finanziarie mondiali e solo in modo molto secondario dal differenziale nei tassi di interesse rispetto a quelli praticati dalla Federal Reserve e da americana, dalla Banca d'Inghilterra, dalla Bank of Japan e dai tassi sui bund tedeschi. Da circa un mese il dollaro australiano si sta rivalutando fortemente nei confronti del dollaro Usa e dell'euro: era 96 centesimi di dollaro Usa e ora è di oltre 104 centesimi. In rapporto all'euro era di 77 centesimi di euro ed ora è di 86 centesimi di euro. La situazione europea non giustifica aspettative positive riguardo l'espansione delle esportazioni cinesi verso l'Europa che, infatti, stanno rallentando in termini assoluti. Ne consegue che le società finanziarie credono nel decoupling (separazione) della Cina dalla crisi europea e dalla bassa crescita Usa. Esse quindi investono in prodotti finanziari derivati collegandoli ad una visione positiva circa il dollaro australiano. Su questa base effettuano logicissime operazioni hedge sui prezzi futuri delle materie prime. È interessante che questo fenomeno non stia più coinvolgendo il Brasile mentre l'Argentina sta nuovamente implodendo sotto l'inflazione, crisi della bilancia dei pagamenti e del mercato nero in divise. Ne concludo che l'Australia è vista come il vero retroterra minerario ed alimentare della Cina. Una volta colta l'importanza dell'Australia nell'economia politica cinese, la rivalutazione del dollaro australiano segnala la formazione ed espansione di una gigantesca bolla finanziaria che va dal cuore della Cina fino al Brasile. Il punto è che le società finanziarie si sbagliano, credono troppo nei cinici dirigenti cinesi. In realtà vi vogliono credere perché la Cina è il paese di Bengodi del plusvalore capitalistico ed è la pompa che gonfia la finanza mondiale. Ma la Cina non può effettuare il decoupling e subirà notevolmente la crisi. Non oso pensare cosa succederà quando la bolla si sgonfierà. Sicuramente l'America meridionale verrà ulteriormente devastata e così i mercati finanziari mondiali.

 

La guerra infuria, il pane manca - Marina Forti

È il lato nascosto di ogni guerra: in molte zone della Siria la popolazione fatica sempre di più a trovare il cibo. Per almeno un milione e mezzo di persone la carestia è un rischio immediato, secondo la stima delle agenzie umanitarie dell'Onu; ma almeno il doppio, 3 milioni, avranno bisogno di assistenza alimentare e agricola per tutto l'anno prossimo. Al momento il problema non è tanto la mancanza di derrate, ma la difficoltà di raccoglierle e distribuirle: nelle zone urbane travolte dai combattimenti il cibo manca perché non arriva; quando le armi tacciono per qualche ora i pochi fornai e negozi che hanno qualcosa da vendere sono presi d'assalto e i prezzi sono alle stelle, soprattutto per latte, verdura e cibo fresco. Ma ormai la stessa produzione agricola sta calando, e questo promette male per il futuro.

In Siria dunque si prepara «un inverno di fame», titolava un dispaccio di Irin news (l'agenzia dell'ufficio dell'Onu per gli affari umanitari) alla fine di luglio. Descriveva le fertili regioni agricole della Siria orientale, come la piana di al Ghab: i questa stagione di solito siamo in pieno raccolto, ma quest'estate molti campi sono incolti. Un agricoltore della zona spiega che l'esercito è dispiegato nelle campagne e attorno al suo villaggio ci sono posti di blocco: «A volte ci lasciano passare, a volte no», e andare a lavorare i campi è diventato un azzardo. Altri non sono riusciti a coltivare perché il prezzo di sementi e insetticidi è alle stelle, e così anche il carburante: il diesel necessario a trattori, mietitrici e pompe per irrigare è introvabile, e se c'è costa il triplo del normale. L'allarme lanciato dall'Onu si basa su una «valutazione rapida sulla sicurezza alimentare» condotta in giugno congiuntamente dalla Fao, dal Programma alimentare mondiale (Pam) e dal ministero per l'agricoltura del governo siriano. Il rapporto afferma che «il reddito delle famiglie è crollato; il costo del carburante continua ad aumentare; le rimesse degli emigranti sono venute meno; agricoltori e allevatori hanno perso i loro beni, mandrie o raccolti, e la loro sopravvivenza immediata; il raccolto di grano è rinviato e la deforestazione aumenta», riassume la Fao. Le persone più immediatamente a rischio sono, come sempre, la parte già più vulnerabile della popolazione siriana. «Ci sono interi gruppi di popolazione rurale, agricoltori, pastori e lavoratori agricoli migranti, la cui sopravvivenza sta collassando», spiegava (a Irin) un portavoce di Ocha, l'ufficio Onu per gli affari umanitari, il 24 luglio. Si aggiunga che, causa i combattimenti, gli sfollati all'interno del paese sono ormai oltre un milione, stima Ocha. Consideriamo il quadro. Il Comitato internazionale per la Croce rossa ormai definisce la situazione siriana un «conflitto armato non-internazionale», ovvero guerra civile. Ma la presenza di militari e/o miliziani è una parte del problema: il collasso è più ampio. Dove è stato possibile coltivare i raccolti sono rimasti nei campi anche perché non ci sono i braccianti per raccoglierli, o perché mancano carburante ed energia elettrica. Il raccolto di grano è stato rinviato nelle province di Daara, Damasco, Homs e Hama, spiega la Fao in un comunicato del 2 agosto. La deforestazione aumenta perché la legna sostituisce il gas da cucina introvabile. Non solo. La provincia di Daara contava in tempi normali sulle rimesse di circa 200mila lavoratori migranti, ma quest'anno il 70% di loro sono tornati; chi è rimasto in Libano non riesce a mandare soldi a casa perché non c'è lavoro. Leggiamo nel comunicato della Fao che per le famiglie di quei 200mila è ormai difficile sfamare i bambini o mandarli a scuola, molti hanno venduto il bestiame o fatto debiti. Si consideri poi che la Siria soffriva già degli effetti di una siccità prolungata fin dal 2006, nelle regioni settentrionale e orientale, che aveva già spinto molti a vendere il bestiame e/o a emigrare - ora tornano, ma senza sementi per coltivare, né altre fonti di reddito o assistenza per le loro famiglie. Tutto questi ha implicazioni economiche più generali. Le agenzie dell'Onu stimano che il settore agricolo in Siria abbia perso 1,8 miliardi di dollari quest'anno - in un paese dove l'agricoltura fa il 30% del prodotto interno lordo. Un'agenzia francese di previsioni di mercato, Strategie Grain, citata dalla Reuter, ha ridimensionato la stima del raccolto di grano siriano nel 2012 a 2,5 milioni di tonnellate (contro i 3,3 milioni di tonnellate del 2011). Un economista siriano citato da Irin teme ben peggio, il raccolto non supererà i 1,9 milioni di tonnellate: perché il granaio della fertile Siria è proprio là, nelle regioni dove la guerra infuria.

 

Pace, formato villaggio - Marinella Correggia

A Qalamoun, una zona di altopiani fra Damasco e Homs, il movimento Mussalaha ha registrato un successo nonviolento, come riferisce l'agenzia di stampa cattolica Fides. Mussalaha («Riconciliazione») è un'iniziativa dal basso, intrapresa da varie autorità locali e religiose, per dimostrare che esiste una via di dialogo e ricomposizione alternativa alla guerra e alle armi. Il 30 luglio è stato firmato un accordo storico tra le forze dell'opposizione di Qalamoun e i rappresentanti di Mussalaha di Yabroud, Qâra, Nebek e Deir Atieh e dintorni. A Qalamoun, zona di antichi monasteri, la popolazione è in maggioranza sunnita ma vi è una forte presenza cristiana. Da mesi diversi villaggi della regione si erano proclamati «indipendenti» e avevano paralizzato le istituzioni statali e della vita civile con gli scioperi. Questa fase di disobbedienza civile è stata accompagnata da un'insurrezione armata con miliziani che attaccavano postazioni dell'esercito, ma anche alcuni civili ritenuti vicini al governo o troppo concilianti con il regime. Ai miliziani si sono aggiunte le bande criminali che hanno approfittato del disordine e della mancanza di sicurezza per effettuare rapimenti e rapine. Ma in base all'accordo di ieri l'opposizione rinuncia all'opzione militare, e, quindi, vieta ai suoi membri di attaccare le forze governative, militari o di sicurezza e i civili. Essa depone le armi e rimette la sicurezza nelle mani dello Stato. Da parte sua il governo si è impegnato a garantire alla popolazione civile la libertà di esprimersi democraticamente attraverso manifestazioni e sit-in. I prigionieri politici che non si sono macchiati di delitti di sangue sono stati liberati e le persone rapite a scopo politico o di lucro sono state rimesse in libertà. Le famiglie sunnite divise tra oppositori e lealisti oltre tra oppositori di diverse fazioni si ritrovano riunite da questo accordo. Dal Monastero di Qara suor Claire Marie, francese di nazionalità, coltivatrice di erbe officinali, al telefono dice la sua gioia: «E' anche stato liberato un ragazzo rapito. Noi preghiamo tanto perché la battaglia di Aleppo si concluda presto e tacciano le armi in tutta la Siria».

 

Le esecuzioni in calo

Offre qualche motivo di ottimismo il rapporto annuale dell'associazione Nessuno tocchi Caino, che si batte per l'abolizione della pena di morte nel mondo. Si tratta di un'evoluzione positiva in atto ormai da un decennio, e confermata nel 2011 e nei primi sei mesi del 2012, si legge nel rapporto presentato ieri a Roma. Infatti i paesi o territori che hanno deciso di abolire la pena capitale per legge o in pratica sono oggi 155. Di questi, i paesi totalmente abolizionisti (dove la pena di morte non è contemplata mai) sono 99; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 7; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 5. Gli abolizionisti di fatto, dove la pena di morte è nelle leggi ma non si eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni, sono 44. I paesi che invece mantengono la pena di morte nel 2011 sono saliti a 43, da 42 del 2010, ma solo perché il Sudan si è «sdoppiato» nel luglio del 2011, con l'indipendenza del Sudan del Sud. I paesi che praticano la pena capitale sono comunque progressivamente diminuiti: nel 2005 erano 54. Nel 2011 sono state eseguite almeno 5.000 condanne a morte in 19 paesi: fa impressione, ma sono meno delle 5.946 del 2010. Il calo è dovuto principalmente alla Cina, che è passata da circa 5.000 esecuzioni nel 2010 a circa 4.000 nel 2011. Tra i paesi che hanno ripreso a eseguite condanne capitali c'è il civilissimo Giappone, 3 esecuzioni nei primi sei mesi del 2012: e questo ha suscitato molte polemiche nel paese. Negli Stati Uniti nessuno Stato «abolizionista» ha reintrodotto la pena di morte, ma l'Idaho, che non compiva esecuzioni dal 1994, ne ha effettuate due, nel 2011 e nel 2012. Ancora una volta, l'Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità delle esecuzioni nel mondo, benché in calo: nel 2011 nel continente asiatico almeno 4.931, contro almeno 5.855 nel 2010. Cina, Iran e Arabia Saudita i primi paesi «boia del 2011. Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, unico paese del continente che ha compiuto esecuzioni (43) nel 2011. In Europa, la Bielorussia (con due uomini giustiziati nel 2011 e altri due nel 2012) continua a costituire l'unica eccezione in un continente altrimenti libero dalla pena di morte.

 

La Stampa - 4.8.12

 

"Stavamo via un mese intero. Oggi mia figlia fa una settimana" - Raphael Zanotti

TORINO - La 850 bianca già carica in cortile dalla sera prima, in cucina la signora Cristina che prepara gli ultimi panini e il marito Francesco, in fabbrica, che conta le ore che lo separano dalle vacanze. Ogni tanto Francesco chiedeva qualche ora di permesso. Così, per partire nella notte, nella speranza di evitare l'inesorabile serpentone di auto. «Quelle sì che erano vacanze» ricorda oggi Francesco Anrò, 75 anni, entrato alla Fiat nel 1952 dopo l'immancabile scuola Allievi. Erano gli anni degli esodi, quelli veri. Quando a Torino centinaia di fabbriche chiudevano i battenti lo stesso giorno, il 31 luglio, e migliaia di operai poche ore dopo si riversavano sulle strade con famiglie intere stipate nelle piccole utilitarie stracolme di valigie, bambini e teglie di melanzane alla parmigiana. Un mese di ferie, le città svuotate, le spiagge - sempre le stesse - trasformate in carnai. Poi il controesodo. E di nuovo, la fabbrica. Fino all'estate successiva. Vacanze lontane anni luce da quelle di oggi, del week end lungo, mordi e fuggi, della cassintegrazione o peggio dell'azienda che chiude. Francesco Anrò ha due figlie, Barbara e Paola, impiegate. Anche il marito di Barbara lavora in Fiat, agli Enti Centrali. Ma quest'anno lei e le bambine faranno solo una settimana, in Romagna. Paola non andrà nemmeno in ferie, l'azienda per cui lavorava ha chiuso le filiali di Torino e Firenze. Appesa all'incertezza. E allora il signor Anrò torna agli Anni Sessanta, agli esodi all'epoca tanto odiati e oggi tanto rimpianti. «Andare in ferie era un sogno che si aspettava tutto l'anno e a giugno si cominciava a stringere la cinghia per riuscire anche quell'anno a far fare due settimane di mare alle bambine - racconta - Ricordo ancora: partivamo sulla 850 bianca, io mia moglie e le bambine. Prima vacanza, Alassio. Quattro ore e mezza per arrivarci, si faceva la Ceva-Savona. Dopo il San Bernardino ci si fermava per la colazione: brioche e latte per le bambine, panino al salame e un bicchier di vino per noi adulti». Tre settimane ad Alassio erano il massimo. Si affittava una casa a poco. «Il primo giorno lo passavamo a pulire, l'ultimo pure» dice l'ex operaio Fiat. Quest'anno Barbara andrà in un albergo, per una settimana non conveniva prendere un appartamento. Ombrellone, sicuramente. E qualche divertimento per i figli, di 11 e 15 anni. «Ricordo che io ad Alassio mi svegliavo alle 7 del mattino e andavo a mettere la stuoia sulla spiaggia libera. Per prendere il posto. Alle 9 arrivava Cristina con le bambine, che la spiaggia era già piena». Vacanze al risparmio, ma belle agli occhi del pensionato Anrò. «Tutti gli anni incontravamo gli stessi amici, si passavano le serate insieme». Viaggi all'estero, niente, nell'epoca in cui le autostrade cominciavano appena a essere costruite. «L'unico mezzo era il treno, o l'auto per chi poteva permettersela. Io ne ho avute tante, tutte bianche. Le lucidavo prima di ogni viaggio». E ora? «Ora guardiamo i nipotini. E domani partiamo anche noi». Vacanza di un mese? «No, macché, una settimana, in montagna. Ne facevo di più quando lavoravo e la fabbrica chiudeva. Che belle che erano quelle vacanze».

 

Il Grande Esodo che non c'è più - Massimo Gramellini

Oggi è il gran giorno che non c'è più. Il primo sabato d'agosto, quello del Grande Esodo, con il suo armamentario di frasi fatte a uso dei telegiornali: il caldo opprimente, le partenze intelligenti, le code da bollino nero. Ebbene: avremo il caldo, le code e le partenze intelligenti, ma lo siamo abbastanza anche noi per sapere che si tratta di una finta. Da un lato la parola Esodo si è disgregata - chi può va in vacanza fuori stagione, quando gli alberghi costano meno -, dall'altro si è rimpicciolita e immalinconita. Evoca poveri cristi senza stipendio né pensione, gli esodati. E risuona sarcastica alle orecchie di quegli italiani che non hanno più i soldi e nemmeno lo spirito per staccare davvero la spina. Un tempo neanche troppo lontano - vent'anni fa - un impiegato in viaggio con la famiglia nel primo sabato d'agosto poteva permettersi tre settimane di villeggiatura a pensione completa. Poi le tre settimane si sono ridotte a due, a una e infine a questa mancia di divertimento preso a morsi. Un paio di giorni e si torna in città a lavorare o semplicemente a non fare nulla, perché il lavoro non c'è oppure l'ufficio ha chiuso per ferie e nessuno sa se a settembre riaprirà ancora. Le vacanze di massa erano il rito di un'Italia consumista e benestante. A tratti grottesco come tutti i riti collettivi, ma carico di significati simbolici. Le migliaia di persone che si ritrovavano sudaticce al casello partecipavano a una festa sgangherata di ringraziamento. Rendevano omaggio al dio del Boom che le aveva fatte nascere nella parte ricca del pianeta e offrivano ai figli e a se stessi quella possibilità di evadere dalla realtà quotidiana che era stata preclusa ai loro avi. Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore, con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati. Mai come adesso avremmo bisogno di un Grande Esodo. Spegnere e accendere l'interruttore per guardare le cose da un'altra prospettiva. In questa estate del nostro scontento, chi non ha soldi e impieghi non sa come trovarne e chi li possiede ancora ha paura di perderli all'improvviso. Il sentimento dominante non è più l'attesa, ma la disillusione. I politici costano ancora troppo ma non contano più nulla. Gli intellettuali e i capi partito non tirano fuori un'idea di futuro che non sia la riproposizione improponibile di modelli del passato. Gli europei senza sole del Nord non hanno intenzione di dare un soldo a quelli del Sud, che considerano dei privilegiati. I signori della finanza non hanno pagato il conto della crisi provocata dalla loro avidità e continuano gelidi a spadroneggiare. Due eventi inediti e meravigliosi - la scomparsa delle guerre in Europa e il prolungamento della vita media - hanno prodotto l'effetto collaterale di una società vecchia e ingessata, che non ha spazio per i quarantenni, figuriamoci per i ventenni. L'attesa spasmodica del Leader Messianico è stata definitivamente frustrata dalla mesta parabola del buon Obama, partito per cambiare il mondo e finito a giocarsi la difficile riconferma contro un bellimbusto sovvenzionato da Wall Street. L'economia che sta conquistando il mondo è quella che maltratta i lavoratori e non rispetta la natura. Se questo è il quadro, a chi affidarsi se non a se stessi? Ma come si fa ad affidarsi a se stessi, quando si è deboli, malati, modesti? Molti riesumano le vacanze della seconda metà degli Anni Quaranta, consumate fra le macerie della guerra. Ma allora il morale era inversamente proporzionale allo stato delle abitazioni. Costruire il benessere regala sempre più gioia che difenderlo. Il nostro tarlo è tutto lì: sembriamo anziani aggrappati al borsellino con le unghie, per il terrore (più che giustificato) che qualcuno ce lo scippi. Invece l'unica rivoluzione possibile è tornare a pensarci come bambini che ricominciano da zero. Riandare a quel tempo della nostra infanzia in cui il Grande Esodo d'agosto non era tanto una vacanza, ma uno scatto interiore per esplorare in maniera più limpida la vita.

 

Il bollino nero è diventato rosa o fucsia - Bruno Gambarotta

Non ci sono più i Bollini Neri di una volta. I notiziari ancora minacciano il «week end da bollino nero», ma lo fanno più che altro per pigrizia lessicale o per evocare il buon tempo antico. A conti fatti il bollino si rivelerà rosa o fucsia. Nelle cronache di un tempo la parola più gettonata era «esodo», con la variante «esodo biblico». In quegli anni si partiva e si ritornava tutti insieme. Anche le aziende che non avevano alcun rapporto con la galassia Fiat (poche per la verità), chiudevano i battenti in coincidenza con le «ferie Fiat». Nell'ultimo giorno di lavoro, alla conclusione di ogni turno, sui piazzali davanti alle fabbriche si radunavano le auto dei dipendenti con un mostruoso parallelepipedo di bagagli sul tetto, avvolto nel cellophane e imbracato da decine di corde elastiche. All'interno moglie e figli in fremente attesa del marito e padre che timbrava il cartellino, usciva, si metteva alla guida e partiva in direzione sud per un viaggio che poteva durare anche più di dodici ore. La gloriosa Seicento, comprata a rate firmando cambiali, non aveva l'autoradio perciò le notizie sul traffico in tempo reale non distraevano il guidatore che con pazienza seguiva il flusso continuo di auto che ogni tanto sostava per poi ripartire, mentre sull'altra corsia dell'autostrada passava un'auto ogni mezz'ora. Su quelle utilitarie non c'era neanche l'aria condizionata perciò i finestrini abbassati permettevano di fare conversazione con i passeggeri delle auto che si affiancavano nelle soste. E che poi ci superavano perché la nostra corsia era sempre la più lenta. Per distrarre i bambini si giocava con le targhe delle auto davanti alla nostra, vinceva il primo che azzeccava il nome della provincia o scopriva un numero più alto degli altri. Se la sosta si prolungava si usciva per sgranchirsi le gambe e fare due chiacchiere con i vicini. Chi non aveva ancora l'auto partiva in treno. Stando già pronti sulla banchina, in attesa dell'arrivo dei vagoni dal deposito, svelti a lanciare il figlio più piccolo nello scompartimento attraverso il finestrino aperto in modo da occupare i posti. Al rientro in città il volume dei bagagli era cresciuto perché si portavano su i prodotti del paese d'origine, i pomodori secchi, l'olio, il pecorino, i peperoncini. Il giorno successivo alla partenza in massa, i giornali pubblicavano la foto di via Roma deserta, percorsa da un solitario pattinatore a rotelle, sempre lo stesso, che viveva tutto l'anno in attesa di quel momento di gloria. I lettori scrivevano deprecando la chiusura totale dei negozi e auspicando l'introduzione delle ferie scaglionate, «come nei Paesi più civili del nostro». E' vero che il tempo addolcisce i ricordi ma noi rimpiangiamo quelle lontane estati perché ci rendiamo conto che quel modo di partire e di tornare tutti insieme era la celebrazione di un rito. Era il rito pagano delle vacanze, vissute collettivamente come tempo separato dal tempo del lavoro. Una società, per rimanere coesa e per riconoscersi tale, ha bisogno di riti nei quali specchiarsi. Ora il rito delle ferie è andato in frantumi; ciascuno di noi, navigando ossessivamente in rete alla ricerca dell'occasione migliore, si costruisce la sua personalissima vacanza e parte stando sempre connesso. Molte aziende non chiudono i battenti e incoraggiano i dipendenti a dividere il blocco unico delle ferie in tanti segmenti più piccoli. Il vacanziere solitario ogni giorno riverserà nel suo blog le esperienze, l'elenco dei cibi, le emozioni e le fotografie delle sue ferie, non trascurando di postare i giudizi e i voti sui mezzi di trasporto e sulle strutture che l'hanno ospitato, entrando in contatto (virtuale) con altre monadi in giro per il mondo. Tornato a casa e ripreso il lavoro, occuperà parte del tempo libero a tenere i contatti (virtuali) con gli altri viaggiatori che hanno condiviso le sue esperienze. Archiviato il pattinatore di via Roma, sui giornali comparirà la fotografia di piazza Carignano con le panchine occupate da turisti intenti a riversare sul computer aperto sulle ginocchia il diario del loro soggiorno a Torino.

 

Inchiesta Ilva, intercettazioni choc. "Dobbiamo pagare tutta la stampa" - G.Ruotolo

TARANTO - Un dirigente dice a un altro: «La stampa dobbiamo pagarla tutta». I pm si presentano con un faldone di intercettazioni. Che compromettono pesantemente le posizioni degli indagati, lo staff dell'Ilva di patron Emilio Riva. Che dimostrano l'inquinamento probatorio, e cioè il tentativo di alterazione dei dati sulla emissione dei veleni prodotti dallo stabilimento. Ci sono intercettazioni in cui l'Ilva chiede conto al direttore dell'Arpa, Giorgio Assennato, dei risultati di una campagna di rilevamenti. Questo avviene nel giorno in cui l'Ilva si presenta al Riesame (con il suo nuovo presidente Bruno Ferrante) perché vuole contestare le conclusioni a cui è giunta l'accusa. L'udienza fiume iniziata alle 9 del mattino in un clima surreale, con il Tribunale completamente isolato dalle forze dell'ordine, e un corteo "solidale" con gli imputati bloccato dallo stesso presidente Ferrante che non intende più «manovrare» i suoi dipendenti, e si è conclusa alle 9 di sera. I giudici hanno tempo fino al 9 agosto prima di decidere sulla scarcerazione degli indagati e sul dissequestro degli impianti. Udienza drammatica di un'inchiesta giudiziaria dagli esiti imprevedibili, perché il Riesame potrebbe confermare il sequestro degli impianti e far accelerare le procedure di spegnimento degli impianti, rompendo così quell'«armonia» costruita tra Bari e Roma di attiva convergenza tra governo, regione, azienda ed enti locali.Nel giorno in cui Palazzo Chigi nomina un commissario per bonificare Taranto, l'acciaieria più grande d'Europa rischia la chiusura se la proprietà non rispetterà le prescrizioni stabilite dal gip Todisco. «Non ci dormo la notte al pensiero che 20.000 persone rischiano di non lavorare più». Francesco Sebastio, procuratore di Taranto, in una pausa del Riesame, risponde alle domande dei giornalisti. Mentre un legale degli imputati commenta amaro: «Dopo sei ore di discussione, le posizioni sono cristallizzate. Non si fanno passi avanti». I legali dell'Ilva si presentano con le memorie e controperizie da depositare: «Lo stabilimento Ilva di Taranto esercisce nel pieno e indiscusso rispetto di una legittima Autorizzazione integrata ambientale, emessa dalla competente pubblica amministrazione nell'agosto 2011. Anche le contestazioni elevate in passato non hanno mai individuato presunti sfondamenti dei limiti di emissione. Dal 1998 al 2011 lo Stabilimento Ilva di Taranto ha investito, solo in tecnologie finalizzate alla tutela dell'ambiente e della salute, circa un miliardo e centouno milioni e 299 mila euro, pari al 24% degli investimenti totali. Le polveri? I livelli di Taranto sono considerevolmente inferiori a quelli medi annui registrati nelle aree urbane del Nord Italia, e anche a Firenze o Roma». Insomma, una radicale contrapposizione rispetto ai dati emersi dall'incidente probatorio, i cui esiti, dice il procuratore Sebastio, sono ormai «una prova del processo». Naturalmente il «processo» avviene nell'aula del Tribunale del Riesame. E le affermazioni di accusa e difesa raccolte nei corridoi del Tribunale ne sono una fedele rappresentazione. Sebastio sostiene che la ricostruzione della memoria dell'accusa fatta ai giudici dal pm Buccoliero è molto netta: «L'Ilva sostiene di aver rispettato i parametri indicati dall'Aia, dall'Autorizzazione integrata ambientale. In realtà l'Aia fa riferimento alle emissioni convogliate, cioè quelle che escono dal camino E 312. Ma noi invece abbiamo dimostrato che il problema è rappresentato dalle emissioni diffuse (parchi minerari) e fuggitive. In un anno i controlli effettuati sono stati soltanto tre e preavvisati. Occorrono campionamenti continui. Dove sono stati scaricati i sacchi di diossina presi e caricati a spalle?». In mattinata il procuratore aggiunto Pietro Argentino aveva presentato un'istanza per spostare a metà settembre la decisione sul sequestro dello stabilimento. Istanza respinta dal Riesame per gli evidenti «rilevanti interessi socio economici» che impongono una decisione immediata. L'accusa si è rivolta ai giudici del Riesame con un quesito: «A Genova è sorto lo stesso problema di Taranto. Tra il 2002 e il 2005 l'area a caldo è stata sequestrata (ottenendo le conferme del Riesame e della Cassazione) ed è stata trasformata in area a freddo. Perché non si può fare la stessa cosa a Taranto?». La nuova Ilva di Bruno Ferrante è ottimista. Anche se quelle intercettazioni telefoniche depositate ieri mattina sono compromettenti, l'importante è guardare al futuro, voltare pagina. Che ha deciso di ritirarsi da tutti i contenziosi sollevati, e con la presenza del suo presidente Ferrante nell'aula del Riesame conferma la volontà di difendersi «nel processo e non dal processo».

 

Ecco perché Draghi ha germanizzato la Bce - TONIA MASTROBUONI

La Bce è stata «attendista, cauta, e ha posto condizioni». In altre parole, è diventata «un bel po' tedesca». Il commento della Süddeutsche Zeitung la dice lunga sulla svolta di Mario Draghi. Il principale quotidiano tedesco smentisce la vulgata dell'isolamento di Jens Weidmann, e spiega che «improvvisamente si intravede di nuovo un po' di Bundesbank» nell'azione dell'Eurotower. Draghi ha scelto infatti la via opposta al suo predecessore: invece di rompere con i tedeschi, come fece JeanClaude Trichet nel 2010, l'italiano ha «germanizzato» l'Eurotower. Convinto, non a torto, che in questo momento sia pericoloso entrare in rotta di collisione con la banca centrale tedesca. E più ancora con la Germania. Così, mentre Trichet nell'estate del 2011 aveva cominciato a comprare titoli spagnoli e italiani senza porre vincoli ai governi, Draghi lo ha escluso: prima dovranno sottoporsi ai programmi di aiuti, poi beneficeranno dell'«antispread» di Francoforte. Mentre Trichet dal 2010 ha sempre agito come «avanguardia», ha attivato misure straordinarie senza attendere che l'Europa facesse progressi verso l'integrazione fiscale e politica, Draghi vuole agire in concomitanza con il fondo salva-Stati e pressa i paesi perché attivino gli strumenti e le istituzioni promesse nei vertici europei. Anzi, è stato proprio l'italiano a coniare il termine «fiscal compact» e a indicare ai governi tutte le tappe successive dell'integrazione: il «growth compact» e, più di recente, l'unione bancaria. Un atteggiamento in piena sintonia, se non con la Bundesbank, sicuramente con il governo di Angela Merkel. Soprattutto, Draghi è perfettamente consapevole che oggi non si tratta più di salvare piccoli paesi, ma giganti come la Spagna e l'Italia. In proporzione, vuol dire che l'onere, e dunque il ruolo della Germania, è cresciuto. «La Bundesbank», ragiona un'autorevole ex Bce come Lucrezia Reichlin, «ha condizionato Draghi, anche se lui ha ottenuto un risultato importante, perché l'altro membro tedesco del consiglio direttivo, Jörg Asmussen, e il governo tedesco sembrano essere dalla sua parte». Ma un sintomo della difficoltà di Draghi a compattare il board, sostiene, è che il presidente «non ha fornito dettagli sulle misure straordinarie che ha in mente o su come sarà ripartito il rischio degli acquisti di titoli. Questo è certamente dovuto alla difficoltà politica a costruire questo pacchetto di interventi». Le decisioni prese da Francoforte sono «importanti», sottolinea l'economista della London Business School. Tuttavia, al di là del rimbalzo di ieri, «i mercati non sono convinti della mossa della Bce, e per vari motivi». Anzitutto «arriva tardi, in una situazione molto deteriorata». In secondo luogo l'acquisto dei titoli di Stato dovrà essere preceduto dalla richiesta della Spagna e dell'Italia di aiuti, dunque alla formulazione di un piano di aggiustamento monitorato dalla Ue. Che rischia anch'esso di essere troppo "tedesco". «La condizionalità - ragiona Reichlin - implica un bias restrittivo delle politiche fiscali nei paesi sotto stress.» Il risanamento sarà «nell'ottica di quelli già chiesti alla Grecia, al Portogallo e all'Irlanda: basato su una deflazione interna che aggraverà nei prossimi due anni la recessione e appesantirà il debito». Tra l'altro, una fonte autorevole della Bce spiega che in realtà è la Spagna la vera emergenza, «l'Italia soffre soprattutto l'effetto contagio». Insomma, anche a Francoforte pensano che i tassi di interesse non rispecchino i fondamentali del nostro paese. Addirittura, che potrebbe essere sufficiente imporre un memorandum a Madrid e attivare per il paese guidato da Mariano Rajoy i due meccanismi «salva-spread», l'Efsf sul mercato primario e la Bce sul secondario, per spezzare la catena che ci sta risucchiando nella spirale dei salvataggi. Così come pensano che i due paesi non abbiano bisogno di troppe correzioni: l'aspetto che interessa davvero è il monitoraggio. In Italia, si osserva nei corridoi della Bce, mancano pochi mesi al voto, e in Spagna il governo ha mostrato più volte di non aver capito o aver voluto capire la gravità della situazione. In ogni caso l'acquisto dei bond, come ha detto Draghi anche ieri, avverrà illimitatamente, e senza sterilizzare. è un progresso importante, rispetto all'«era Trichet». E l'altra novità fondamentale, è che quelli presi in carico da Francoforte non saranno più privilegiati. Correranno gli stessi rischi di quelli in mano agli altri investitori. Ma non bisogna dimenticare le altre misure ormai stra-attese dai mercati: un taglio dei tassi di mezzo punto entro fine anno: un terzo altro e acquisti di bond aziendali. Ed è anche cominciato lo studio delle condizioni per accettare la licenza bancaria all'Esm. Un'ipotesi è accettarla come controparte, insomma concederle prestiti quando avrà acquisito un'altra funzione, oltre a quella di aiutare i paesi. Ad esempio, non appena avrà avuto il via libera dall'Europa (quando ci sarà la vigilanza bancaria unica) di ricapitalizzare le banche.

 

Brasile, Battisti risulta irreperibile

SAN PAOLO - Il giudice federale Alexandre Vidigal, presidente del Tribunale Distrettuale numero 20 di Brasilia, con un'ordinanza ha chiesto alla polizia di accertare dove si trovi Cesare Battisti: secondo quanto riferito dal quotidiano "Jornal de Brasilia", l'ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo, condannato all'ergastolo in contumacia per omicidio plurimo e al centro di una disputa per l'estradizione dal Brasile sfociata quasi in incidente diplomatico tra l'Italia e il Paese sud-americano, risulta infatti irreperibile, come ribadito per iscritto dallo stesso magistrato. Battisti non è stato trovato all'indirizzo di Rio de Janeiro che aveva dovuto comunicare alle autorità, entro trenta giorni dall'elezione di domicilio, per consentire i periodici controlli previsti dalle leggi brasiliane. Vidigal ha fissato dunque un termine di cinque giorni per la localizzazione del 58enne ex terrorista: qualora le ricerche non sortissero alcun risultato, scatterebbe automaticamente un'inchiesta formale per l'individuazione dell'attuale di Battisti, da concludersi entro un mese. In caso di perdurante irreperibilità, la presenza del latitante italiano in territorio brasiliano diverrebbe irregolare, con i conseguenti provvedimenti del caso, eventuale estradizione compresa. A quel punto potrebbe inaspettatamente riaprirsi la vicenda che ha visto Battisti sottrarsi per quasi tre decenni alla giustizia italiana, fin dall'evasione risalente al 1981, seguita dalla fuga in Francia, Messico e infine appunto in Brasile, dove fu arrestato nel 2007. Due anni più tardi ottenne lo status di rifugiato politico, revocato nel 2009 quando però l'allora presidente Luiz Inacio "Lula" da Silva, al suo ultimo atto da capo dello Stato, oppose il proprio rifiuto all'estradizione. Condannato successivamente a due anni di reclusione per uso di passaporto falso, seppure da scontarsi in regime di semi-libertà, un anno fa Battisti ha infine ottenuto dalla Corte Suprema Federale del Brasile la definitiva conferma del non doversi procedere all'estradizione in Italia, con immediato rilascio: una conferma che la sua sparizione potrebbe tuttavia mettere una volta di più in discussione.

 

l'Unità - 4.8.12

 

Com'è debole l'Unione - Paolo Soldini

Ormai si va avanti a colpi di scena. Il forte rialzo delle Borse e il calo degli spread sui titoli, ieri, non possono essere stati sicuramente soltanto un «rimbalzo tecnico». Qualcosa deve essere accaduto. Aveva ragione Mario Monti quando ha commentato i crolli avvenuti sui mercati giovedì scorso? In quell'occasione di fronte alla (apparente?) marcia indietro di Mario Draghi sull'acquisto di titoli dei paesi in difficoltà da parte della Bce, il premier aveva sostenuto che la reazione negativa dipendeva dal fatto che gli operatori sui mercati debbono rispondere «in due secondi». Ora, a mente fredda e valutando con calma le dichiarazioni del capo dell'Eurotower, gli stessi operatori riconoscerebbero che comunque Draghi l'impegno a ricorrere a «misure non convenzionali» lo ha preso e l'intervento diretto del suo istituto sul mercato secondario dei titoli non lo ha affatto escluso, pur prendendosi qualche settimana per mettere a punto il piano e legando l'iniziativa ai fondi di stabilità (il presidente del Consiglio non vuole che si dica salva-stati). Il ricorso ai quali, si sa, comporta obblighi per i paesi che ne fanno. Le opinioni su quanto è «veramente» accaduto nella riunione del Consiglio dell'Istituto giovedì, sull'atteggiamento di Draghi e sul contrasto con il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, possono essere varie. Ma su un punto concordano tutte. Nel momento stesso in cui il suo capo ha preso l'impegno a schierare la Bce nella battaglia per calmierare il mercato dei titoli e impedire che Spagna e Italia si dissanguino con i rendimenti troppo alti, l'istituto di Francoforte è diventato un'altra cosa. Per anni, dalla sua istituzione il 1° giugno del 1998, si è detto che l'unico compito della Bce sarebbe stato quello di assicurare la stabilità monetaria. In sostanza, e per esplicita condizione posta da Berlino, fu strutturata sul modello della Bundesbank, che ha sempre rivendicato a sé il ruolo di «cane da guardia dell'inflazione». Si può sostenere, sforzandosi un po', che nel compito di garantire la «stabilità monetaria» rientrino anche gli interventi per calmierare il mercato dei titoli di stato e abbassare gli spread «ingiustificati». Ma non c'è dubbio che qualche ragione agli ultraortodossi alla Weidmann non manca: la Bce sta cambiando politica e ruolo. Con tutta la prudenza, di cui Draghi ha dato giovedì ampia prova deludendo molti, ma in modo in prospettiva irreversibile. Questo cambiamento ha delle implicazioni sulle quali si dovrebbe cominciare a ragionare con una certa urgenza. Due sono (o meglio: dovrebbero essere) le più evidenti. La prima è che una banca centrale che «fa politica finanziaria» rende ancora più assurdo l'assetto attuale, fondato su una moneta unica senza istituzioni che la governino e la sostengano. Una Bce «diversa» potrebbe perciò fare da volano per la ripresa del cammino verso l'integrazione europea. Verso la creazione, intanto, della cosiddetta Unione bancaria e verso un coordinamento crescente delle politiche fiscali. Sarà dunque vero che la crisi dell'euro, se non crolla tutto, spingerà alla fine verso l'Unione politica? Molti lo pensano, ma molti pensano anche il contrario. Perché un ruolo più forte della Banca centrale europea avrà anche un'altra conseguenza, assai meno auspicabile: renderà ancora più acuto il problema della democraticità delle scelte economiche e monetarie. È la questione che in Germania hanno posto, da sponde diverse, i giudici della Corte di Karlsruhe che hanno accolto i ricorsi contro lo «scavalcamento» del Bundestag nel voto su Fiskalpakt e contributi all'Esm, e anche la Spd e, in generale, la sinistra tedesca. La presa di posizione contraria all'ipotesi Draghi venuta l'altro giorno da Franz-Walter Steinmeier, uno dei possibili candidati socialdemocratici alla cancelleria nelle elezioni dell'autunno 2013, ha stupito molti, ma ha una sua logica ed è stata condivisa, sostanzialmente, da tutta la sinistra, dalla Linke ai Verdi. Una Bce più «politica» e meno «tecnica» rafforzerebbe il già forte deficit di democrazia tanto nelle istituzioni dell'Unione quanto nei processi decisionali delle scelte economiche. I parlamenti nazionali sarebbero esautorati ancor più di quanto accada adesso, mentre il parlamento europeo vedrebbe ridotti ulteriormente i suoi già deboli poteri di codecisione e di controllo. In queste posizioni della sinistra c'è molto probabilmente anche qualche ragione propagandista, in vista d'una campagna elettorale che si giocherà molto su questi temi. Ma il problema esiste. E certo non solo in Germania.

 

Quella lezione che viene dall'Ilva - Moni Ovadia

La dolorosa controversia dell'Ilva di Taranto, al di là delle sue specificità, ci mette di fronte ad una delle questioni più gravi del nostro tempo: quale debba essere la relazione che intercorre fra lavoro e vita, in generale e in quali termini di priorità debbano essere considerati il diritto al lavoro e il diritto alla salute. A chiunque venisse proposta a bruciapelo l'alternativa retorica: «Si lavora per vivere o si vive per lavorare?», di primo acchito, senza rifletterci, risponderebbe che si lavora per vivere. Ma è davvero così che vanno le cose? Per una minoranza di cittadini delle nostre società avanzate è probabilmente così, ma oggi per la gran parte delle persone che vivono solo del loro lavoro, di qualsivoglia natura sia questo lavoro, la situazione è diversa. Si vive per lavorare, perché il lavoro ha da tempo cessato di essere proposto come un diritto ed è sempre più subordinato alle ragioni del profitto, della speculazione finanziaria e soprattutto del consumo e alle sue pressanti sollecitazioni. Se vivere la vita è stabilire relazioni umane individuali e sociali, creare una famiglia, partecipare all'edificazione di una società giusta fondata su valori universali quali la solidarietà fra gli uomini, l'accoglienza dell'altro, promuovere l'educazione e la formazione culturale dei cittadini e in particolare dei giovani, tutto ciò è sempre più rimosso dall'orizzonte del lavoro. Il lavoro diventa sempre più una concessione subordinata ad un ricatto: più fatica, minor retribuzione, rinuncia ai diritti e alla sicurezza, crescita esponenziale dei processi di alienazione. Ora, in questo contesto, quale valore può essere attribuito alla salute di chi lavora? Evidentemente un valore molto scarso o nullo. Questa tragica verità è quella che rivela, per esempio, tutta la vicenda dell'amianto. I noti effetti tossici ed esiziali dell'asbesto - clinicamente noti da lunghissimo tempo - sono stati deliberatamente ignorati dalle proprietà e dalle dirigenze di grandi gruppi industriali. In nome del cosiddetto sviluppo, imprenditori e dirigenti hanno taciuto i pericoli per la salute dell'uomo e hanno condannato ad un'atroce morte ad orologeria migliaia e migliaia di operai e lavoratori colpevoli solo di voler provvedere al sostentamento delle proprie famiglie. I numeri dell'ecatombe sono e saranno quelli di uno sterminio di massa. Purtroppo, allora, in nome del diritto al lavoro, anche esponenti politici e sindacali delle organizzazioni dei lavoratori criminalizzarono coloro che denunciavano la tossicità mortale dell'amianto. Oggi, con la consapevolezza di cui disponiamo, sarebbe imperdonabile difendere uno sviluppo che sacrifichi il diritto alla salute.

 

Europa - 4.8.12

 

Grazie a Draghi tregua d'agosto - Raffaella Cascioli

Agosto è appena alle porte, ma per Italia e Spagna è già settembre. Un salto temporale, quello compiuto negli ultimi cinque giorni di luglio da Roma e Madrid, in virtù del pragmatismo di Mario Draghi. Fedele al principio secondo cui "se non puoi affrontare direttamente un problema, aggiralo", SuperMario ha fatto quel che c'era da fare per salvare l'euro: ha "illuso" chi voleva farsi illudere e, contemporaneamente, ha concluso un patto di ferro con i rigoristi di Berlino e dintorni. Una settimana fa le sue parole («Faremo tutto quanto è necessario per salvare l'euro e, credetemi, sarà sufficiente») hanno di fatto consentito ai due paesi mediterranei di avere cinque giorni di bonaccia per collocare a tassi in forte calo i propri titoli del debito pubblico. Non si può dimenticare che Italia e Spagna erano nel pieno di un turbolento attacco speculativo che aveva indotto le rispettive autorità di borsa a vietare le vendite allo scoperto. Un attacco innescato dal Fondo monetario che aveva dato fuoco alle polveri ipotizzando problemi di accesso ai mercati per Spagna e Italia. Draghi a Londra ha "sterilizzato" la speculazione e ha fissato un appuntamento. Lo ha fatto con la freddezza di chi stava stringendo un patto di ferro con i tedeschi. La boccata d'ossigeno ha consentito al Tesoro italiano di collocare titoli per 18 miliardi di euro, completando il 66% del piano particolarmente impegnativo di aste per il 2012. La domanda per l'occasione è stata sostenuta in tutte le aste italiane con particolare riguardo ai titoli a breve e medio termine e a tassi in calo di circa mezzo punto. Anche in Spagna, dove alcune aste avevano mostrato una rarefazione della domanda, ieri sono tornati a farsi vivi gli investitori internazionali a tassi in calo e con una richiesta superiore alla domanda. Ma Draghi a Londra non ha solo acquistato tempo per Roma e Madrid evitando pericolosi danni al costo del debito. È andato oltre. Ha gettato le basi per impegnare la Bce su un nuovo terreno che prevede tra l'altro acquisti illimitati di titoli di debito pubblico degli stati, stringendo alleanze con i rigoristi ed isolando il falco della Bundesbank; quel Weidmann a cui è stata concessa in consiglio la contrarietà di bandiera. A questo punto la concessione di una licenza bancaria al fondo salvastati permanente potrebbe addirittura essere superflua così come il dibattito che aveva scaturito. L'intesa con la cancelliera Merkel e il suo ministro delle finanze Schaeuble prevede l'attivazione dell'intervento della Bce e del Fondo temporaneo salvastati ma a condizioni. Una soluzione che piace ai tedeschi, un compromesso accettabile per i banchieri centrali perché stando a quel che ha dichiarato Draghi gli interventi della Bce avverranno soprattutto sul breve e medio termine, e non sui Btp a dieci anni come l'estate scorsa. In questo modo la Bce limiterà l'assorbimento di titoli a rischio, mentre si fornirà ai governi che nel breve stanno mettendo in campo le riforme uno scudo contro la speculazione. La reazione del mercato giovedì non poteva che essere emotiva: gli investitori hanno compreso, troppo tardi, di essersi prestati ai cinque giorni di bonaccia e che ora per agosto, con un mercato sottile e l'assenza di aste, non c'è vento di speculazione che tenga. Ora è troppo tardi. L'euro è stato messo in sicurezza, la Bce potrà impegnarsi su un terreno nuovo anche rispetto all'anno scorso quando l'intervento era temporaneo e limitato nell'ammontare. Ed è questo che le Borse hanno festeggiato ieri, mentre gli spread pur scendendo dai massimi livelli sono apparsi elevati. A questo punto la partita si sposta dal mercato interbancario ai governi. Spetterà a Spagna e Italia chiedere all'Efsf l'attivazione di acquisti di titoli alle aste. Aiuti che per i tedeschi devono essere condizionati. Ed è qui che è entrato in scena l'altro Mario. Quel Monti che ha percorso in lungo e in largo le strade d'Europa per spiegare che l'Italia già oggi deve assolvere alle condizioni stringenti del piano di rientro dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo e all'impegno, preso dal governo Berlusconi, di raggiungere il pareggio un anno prima del previsto dalla normativa comunitaria. E se ieri Rajoy ricordando i 900 miliardi di debiti non ha escluso la possibile attivazione di aiuti, Monti non ha potuto escludere l'attivazione dello scudo anti-spread ma ha fatto capire ai rigoristi del Nord che umiliare l'Italia non conviene a nessuno. Che l'alternativa è il ritorno di compagini antieuropeiste. Che quell'unione fiscale e quel mercato unico in grado di far crescere l'Europa si potranno concretizzare solo con una spinta europeista franco-tedesca ma a trazione italiana. Ai primi di settembre è fissato un nuovo Ecofin. Per quella data la Spagna potrebbe chiedere l'attivazione dello scudo anti-spread. Vero o no, quel che accadrà in autunno sarà probabilmente un'altra storia.

 

Corsera - 4.8.12

 

E il voto diventa un referendum sull'Europa - Francesco Verderami

Come definire il dibattito che ha impegnato venerdì il governo? Come catalogare il quesito attorno al quale si è discusso, a proposito della Consulta tedesca che a settembre dovrà esprimersi sulla legittimità costituzionale del fiscal compact e dello scudo anti-spread? «La sentenza della Corte tedesca - si sono chiesti i ministri italiani - lascerà impregiudicata la libertà del Parlamento di Berlino?». Qual era il tema al centro del confronto? Si discuteva di economia o di democrazia? L'Europa - all'affannosa ricerca di una «terza via» tra il modello federale americano e l'unione tra Stati - è sempre più un sistema integrato per via della moneta, ma al momento non sembra avere né gli strumenti istituzionali né la generosità politica per uscire dal vicolo. Così l'Italia rischia di pagarne le conseguenze, rischia di subire - come spiega l'ex ministro Sacconi - «una limitazione della propria sovranità, e non solo per un'eventuale dipendenza da ulteriori vincoli». Dopo Madrid toccherà a Roma approssimarsi alla richiesta di aiuti per sfuggire alla morsa dello spread, e il «programma» di salvataggio finanziario metterebbe in mora i progetti politici dei partiti in vista delle elezioni. È un pericolo di cui c'è consapevolezza nel Palazzo e che il presidente del Senato scorge all'orizzonte: quello cioè di una «democrazia pre-commissariata », di un futuro governo «con margini di autonomia ridotti». Tutto ciò, «nonostante il lavoro svolto da Monti», «malgrado il senso di responsabilità» mostrato dalle forze della «strana maggioranza», i provvedimenti «dolorosissimi che sono stati condivisi» e che hanno finito per gravare sui cittadini. Il punto è proprio questo: come lo spiegheranno i partiti che hanno appoggiato il professore, quando si confronteranno con le urne? È ben chiaro a Schifani il rischio di una «reazione diffusa », di un «rigetto dell'Unione» che potrebbe sfociare in «un voto anti- sistema». Le consultazioni - che dovrebbero servire a rinnovare il Parlamento - potrebbero insomma trasformarsi in un referendum pro o contro l'Europa, se il governo invocasse lo scudo. In quel caso, per arginare l'offensiva in campagna elettorale, a Pdl Pd e Udc non basterebbe sostenere che «anche a noi questa Europa non piace», che «l'Europa è un'incompiuta », perché si esporrebbero all'accusa (semplicistica quanto efficace) di non aver operato per cambiarla. A meno che - com'è già accaduto in Francia - i partiti non adottassero la strategia di Hollande, che ha chiesto un giudizio ai cittadini sul rapporto di Sarkozy con la Merkel, vincendo la sfida. Ma sempre di referendum si tratterebbe, pro o contro l'Europa. L'Italia che si appresta a diventare un laboratorio, è però al «caso greco » che guarda con preoccupazione, visto lo stato in cui versa la politica. Non a caso, per scongiurare l'evenienza, tra i democratici c'è chi teorizza il voto anticipato, così da lasciare al nuovo governo e non a Monti «il compito di negoziare le condizioni per gli aiuti». Ma il timing non sembra più favorire questa soluzione, che dal centrodestra viene peraltro scartata. E il capogruppo del Pdl alla Camera Cicchitto, arriva fino all'estremo, al «paradosso democratico»: «Visto come stanno le cose, le elezioni non andrebbero anticipate di cinque mesi ma posticipate di cinque anni». Se non è l'evocazione della Grande Coalizione, ci si avvicina, è un sentimento trasversale nei due schieramenti. Un'opzione che Bersani rifiuta, al termine di una serie di messaggi pubblici e di ragionamenti svolti nelle riunioni di partito e nei colloqui con il governo. Quando, due settimane fa, il capo dei Democrat si è chiesto e ha chiesto «dov'è lo scudo? », voleva denunciare la fragilità dell'intesa realizzata al vertice europeo di fine giugno, quando sembrò che gli aiuti potessero arrivare per i Paesi «con i conti in ordine» senza dover passare per il «programma». Un «programma» che - secondo Bersani - dovrebbe essere «condiviso » dai partner europei, visto che «oltre 200 punti di spread sono da addebitare agli attacchi speculativi contro l'euro e non possono essere scaricati solo sull'Italia». E comunque, «se ci fossero impegni condivisi e mutuali in Europa, un centro-sinistra di governo sarebbe in grado di rispettarli». È un segnale di garanzia e di continuità rispetto all'agenda Monti che il candidato del Pd a palazzo Chigi lancia alle istituzioni internazionali e ai mercati. Ma quale sarebbe la reazione del centrosinistra se - tra i punti di negoziazione - oltre a un ampliamento del processo di liberalizzazioni e a un maggior controllo sugli enti locali con drastica riduzione della spesa, venisse riproposto il nodo del mercato del lavoro e fosse richiesta una legislazione «più aperta »? La modifica dell'articolo 18 è uno dei punti inseriti in un dossier del Fondo monetario internazionale sull'Italia, è l'incubo ricorrente nelle ultime notti per alcuni dirigenti del Pd. È chiaro che un governo di centrosinistra non toccherebbe quella norma. Il problema è se, per garantire lo «scudo», all'Italia venisse chiesto di modificarla. Sarebbe un tema di economia o di democrazia?

 

Ce la facciamo anche da soli - Francesco Giavazzi

Dobbiamo farcela da soli. Non chiedere l'aiuto del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Efsf e poi Esm), non sottoporci alla vigilanza dell'Eurogruppo e rinunciare allo scudo che ci offre la Bce. Ce la possiamo fare da soli perché la nostra situazione è diversa da quella spagnola: non abbiamo avuto una bolla immobiliare e le nostre banche non sono zeppe di mutui andati a male; il debito pubblico è elevato (123% del Pil), ma i conti dello Stato al netto degli interessi sono attivi (+3,6% nel 2012), e soprattutto non abbiamo accumulato un ingente debito estero spendendo per oltre un decennio il 10% più di quanto veniva prodotto. La Spagna non ha alternative, noi sì. Per riuscirci da soli ci vuole uno scatto di orgoglio. È necessario che Mario Monti ritrovi lo slancio e la determinazione iniziali. E soprattutto è necessario che il Parlamento si occupi di meno degli interessi particolari dei quali è diventato il paladino e guardi un po' di più all'interesse generale. Se pensassimo di non esserne capaci, tanto varrebbe votare subito: la campagna elettorale sarebbe in gran parte inutile perché l'agenda politica verrebbe comunque dettata da altri, i quali non necessariamente fanno solo i nostri interessi. E il risultato delle elezioni sarebbe pressoché irrilevante: anche questioni di nostra pertinenza verrebbero risolte a Berlino e a Francoforte. Per riuscire a tutelare la nostra indipendenza economica e politica ci vuole un piano. Oggi, non a settembre. Perché quando la Spagna firmerà la sua richiesta di aiuto - prevedo nei prossimi giorni - se non avremo una strategia alternativa e senza l'intervento della Bce, il nostro spread salirà ancora. Ci troveremmo a dover chiedere aiuto con un'economia allo stremo. Il piano per «salvare l'Italia» ha due parti. Innanzitutto bisogna sospendere, da qui alle elezioni, le emissioni di titoli a medio-lungo termine. Da settembre a marzo il Tesoro ne deve emettere 100 miliardi circa, di cui 60 circa detenuti da residenti, 40 da investitori esteri. Si cominci a vendere qualche società pubblica, ad esempio quote di Terna e Snam Rete Gas: i prezzi di Borsa sono depressi, ma anche i rendimenti dei Btp sono straordinariamente elevati. Vendere con la rapidità necessaria è tuttavia tecnicamente impossibile. Le azioni di queste società sono già state trasferite alla Cassa Depositi e Prestiti che può scontarle alla Bce e con la liquidità così ottenuta acquistare Btp. La Cassa ha una licenza bancaria e lo può fare: è quello che da mesi fanno le nostre banche. Si può riprodurre il meccanismo con altre società pubbliche e veicoli diversi dalla Cassa. Affinché una simile operazione sia credibile non deve essere un'alchimia finanziaria, ma un «anticipo in conto vendita», cioè si deve cominciare a vendere. Si potrebbe anche pensare ad attrarre il risparmio delle famiglie con emissioni di titoli non soggetti a imposte per i residenti. Il ministro Grilli avrà certamente idee migliori: l'importante è la rapidità. Cento miliardi sarebbero sufficienti per cancellare la maggior parte delle aste di qui a marzo. Sette mesi senza l'assillo delle aste dovrebbero essere impiegati, come diceva Prodi (che però purtroppo non lo fece), per «smontare l'Italia come un meccano e rimontarla in modo che funzioni»: ridurre le spese, tagliare il debito vendendo, riprendere riforme (liberalizzazioni e mercato del lavoro) che sono state lasciate a metà, fare una legge elettorale decente. Se lo farà, Mario Monti ci avrà regalato un Paese indipendente e moderno.

 

Quelle scommesse su debiti e tassi - Marco Zulberti

Il tasso Euribor a tre mesi, quello che si utilizza per il calcolo delle rate dei mutui a tasso variabile, nelle ultime sedute è sceso a 0,3810, livello minimo mai registrato nella storia recente non solo dell'euro, ma anche del vecchio marco e della sterlina inglese. Nel frattempo, dopo il discorso di Mario Draghi di giovedì, lo spread tra i titoli tedeschi e quelli italiani a dieci anni è tornato ancora una volta sopra i 500 punti, per scendere in area 460 ieri, con un tasso di rendimento poco sotto il 6%. Bastano questi due dati per delineare la particolare curva dei tassi che caratterizza le attuali contraddizioni dell'Europa monetaria, che sembra aver perso l'agenda redatta dieci anni fa con l'introduzione dell'euro. Fino a che lo spread rimarrà in queste aree il sistema economico europeo non uscirà dalla crisi perché, oltre a ridurre drasticamente la redditività del sistema bancario, questo stato di cose impone un blocco dei nuovi investimenti nelle singole economie, soprattutto di quelle più in crisi. Mentre la curva dei tassi tedeschi si presenta quasi piatta con i rendimenti a dieci anni leggermente più alti di quelli a breve, quella dei paesi come Grecia, Spagna e Italia appare come una sorta di muro verticale che blocca ogni tentativo di ripresa economica. Le economie in difficoltà si trovano oggi in questa sorta di trappola tra i minimi dei tassi a breve rilevati dalla Bce sullo stato generale dell'economia dei paesi aderenti all'euro, compresi quelli virtuosi come la Germania, e i massimi dei tassi a lungo termine determinati dalle quotazioni del mercato secondario, dove sono trattati i titoli del debito di ogni singolo paese. L'uscita da questa trappola è possibile solo rispolverando gli accordi presi nel 2001, prima dell'introduzione dell'euro, sospendendo la quotazione dei derivati sui singoli debiti nazionali, come è stato tra il 2002 e il 2009, e adottando un unico strumento di copertura Eurobond al posto degli attuali future sul bund tedesco e sul btp italiani, che abbia come riferimento un paniere composto da tutti i titoli pubblici europei. Fino a che saranno quotati i derivati sui singoli debiti nazionali, infatti, si deve comprendere la resistenza della Bundesbank nel negare interventi sul secondario. Nella memoria degli operatori aleggia ancora l'incubo dei 50 mila miliardi di lire bruciati da Banca D'Italia nel 1992, con l'uscita dallo Sme.

 

Professioni, Ordini salvi e formazione continua. Slitta di un anno l'assicurazione obbligatoria - Isidoro Trovato

Al capolinea senza sorprese. Il Dpr sulla riforma delle professioni approvato ieri dal Consiglio dei ministri, pone fine (forse) alla lunghissima «epopea» per la riforma del mondo professionale. Un percorso iniziato quasi due anni fa con il ministro Alfano e completato oggi dal ministro Severino. Dopo proteste scontri, confronti e compromessi il testo finale si presta a molteplici interpretazioni: gli Ordini professionali si dichiarano quasi tutti soddisfatti e la stesura finale sembra ricalcare le richieste formulate dal Consiglio di Stato (quasi sempre in sintonia con i pareri espressi dai singoli Ordini professionali). I sostenitori di un libero mercato e gli avversari del mondo professionale saranno probabilmente delusi da un testo che sostanzialmente mantiene inalterati prerogative e poteri del sistema ordinistico. Questi i punti cardine della riforma. L'accesso. Per professione regolamentata si intende l'attività riservata per disposizioni di legge il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in ordini o collegi (nessun riferimento a registri o elenchi tenuti da amministrazioni o enti pubblici). Il tirocinio. Si tratta di uno dei temi più dibattuti negli ultimi mesi: nella precedente versione del Dpr il tirocinio doveva svolgersi per sei mesi durante l'ultimo anno del percorso di studi all'Università. A ciò si aggiungeva un corso di formazione di 200 ore a frequenza obbligatoria: Troppa teoria che precludeva la pratica professionale. Questa la critica, pressoché unanime, del mondo ordinistico. E così adesso il tirocinio sarà di 18 mesi, obbligatorio per tutti, fatta esclusione per quelle professioni che già non lo prevedevano negli ordinamenti; il corso di formazione di 200 ore sopravvive ma è diventato facoltativo, in aggiunta alla pratica professionale. Inoltre i corsi di formazione potranno essere organizzati anche da enti esterni alla categoria, ma solo se autorizzati dal Consiglio nazionale, sentito il parere vincolante del ministero vigilante. La formazione. Era la richiesta più condivisa da tutte le categorie: più qualità e quindi più formazione professionale anche per chi professionista lo è già. Il Dpr conferma che la formazione continua è obbligatoria e sarà sotto il controllo degli Ordini, che potranno predisporne i regolamenti e autorizzare anche enti o soggetti esterni. Gli Ordini. È stato fissato il principio della separazione tra gli organi disciplinari e gli organi amministrativi nell'autogoverno degli ordini. Anche questo era uno dei temi più contestati: nella versione precedente il testo prevedeva che a far parte degli organismi disciplinari fossero i candidati non eletti alle elezioni per il consiglio degli Ordini. Una tesi fortemente contestata da tutto il mondo professionale. Adesso invece spetterà al presidente del Tribunale, nel cui circondario ha sede il Consiglio di disciplina territoriale, nominarne i membri, sulla base di un elenco fornito dall'Ordine; gli Ordini hanno 90 giorni per stabilire i criteri di scelta dei candidati; dei Consigli di disciplina potranno fare parte anche soggetti esterni alla categoria e non iscritti all'albo. L'assicurazione. Di fatto questo è un tema che ha subito un rinvio: i singoli professionisti dovranno avere un'assicurazione per i possibili danni arrecati ai clienti. I consigli degli ordini e degli enti previdenziali (non le associazioni professionali) possono negoziare le convenzioni assicurative; la negoziazione può avvenire entro il termine di 12 mesi e quindi se ne riparlerà tra un anno. Professionisti e spot. È regolata la libertà di pubblicità informativa relativa all'attività professionale; la violazione costituisce illecito disciplinare e violazione delle norme sulle pratiche commerciali. Questo il panorama complessivo che sta raccogliendo commenti positivi da quasi tutte le categorie con un'unica, importante eccezione: il mondo dell'avvocatura che contesta fortemente la scelta del governo di non stralciare la posizione degli avvocati. Da tempo infatti rimane incagliata in Parlamento la legge di riforma forense e il timore degli avvocati è che questo Dpr possa rappresentare la pietra tombale ai cambiamenti della loro categoria. E annunciano battaglia. Per loro il capolinea potrebbe non essere questo.

 

Siria, voto contro il Consiglio di sicurezza

È bagarre nell'Assemblea generale dell'Onu sulla Siria. Il Palazzo di Vetro ha approvato una risoluzione che condanna l'escalation di violenza nel Paese e che critica l'impotenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite a fare pressioni su Damasco. Una risoluzione di portata simbolica, e non vincolante, adottata con 133 voti a favore e 12 contrari, tra cui la Russia e la Cina. Nessun a nazione ha potere di veto all'interno dell'Assemblea, ma le defezioni delle due potenze sono di quelle che pesano in un momento in cui dalle Nazioni Unite avrebbe potuto arrivare un messaggio di maggiore unità. TERZI: «SUBITO IL SUCCESSORE DI ANNAN» - L'Italia è stata uno dei Paesi che hanno fermamente desiderato questa risoluzione e il titolare della Farnesina, Giulio Terzi, ha commentato: «È uno sviluppo politico che saluto con soddisfazione. L'Onu dimostra di saper riprendere l'iniziativa diplomatica in una fase complessa e cruciale della crisi siriana. Terzi quindi auspica «che la risoluzione adottata oggi a New York costituisca la base sulla quale il successore di Kofi Annan (delegato da Onu e Lega Araba a trattare con il regime di Assad la cessazione delle ostilità, ndr), da nominare quanto prima, possa operare con un mandato forte». LA RUSSIA: «È DANNOSA» - Critiche pesanti invece dalla Russia, che ritiene «dannosa» la risoluzione, in quanto la ritiene «equivalente» a un appoggio diretto ai ribelli che combattono il regime di Assad. L'ambasciatore russo presso l'Onu Vitaly Churkin in assemblea ha ribadito che il testo, redatto dai delegati sauditi, «nasconde manifesto appoggio all'opposizione armata». Insieme a Russia e Cina si sono schierati anche Cina e Cuba. LA GIORNATA - È di almeno centoventi morti il bilancio del 73esimo venerdì di guerriglia in Siria. Lo annunciano fonti dei Comitati Locali di Coordinamento della Rivoluzione, una delle principali organizzazioni dell'opposizione. Il centro della crisi questa volta sarebbe Arbaeen, nei pressi di Hama: almeno settanta vittime, tra cui numerosi bambini e donne. Più di venti le persone uccise invece a Damasco, nel quartiere di al-Tadamun, dove le forze governative hanno attaccato in massa. Dodici persone sarebbero state giustiziate in maniera sommaria, e tra esse anche un noto leader religioso, Ahmad Saleh al-Hamd, imam della moschea di Al-Zubeir, e i suoi due figli. Le stesse fonti non forniscono cifre per la città di Aleppo, dove da quattordici giorni è in corso una battaglia senza quartiere.

 

Fatto Quotidiano - 4.8.12

 

Idv nel caos. Donadi: "Di Pietro scodinzola dietro a Grillo, subito il congresso"

"Tonino sta mandando tutto al macero": parola di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell'Italia dei Valori. Il deputato, intervistato dal Corriere della Sera non risparmia critiche all'apertura di Antonio Di Pietro al Movimento 5 Stelle. Una scelta autodistruttiva secondo una parte del partito, che porta a un sostanziale passo indietro: "Ci abbiamo messo anni a creare tutto questo. A trasformare l'Idv da movimento di protesta a partito di governo".  Per Donadi, Di Pietro ormai "preferisce scodinzolare dietro Beppe Grillo, copiarne persino il linguaggio e gli atteggiamenti offensivi", così come avvenuto per il video sui leader-zombie pubblicato sul sito del partito pochi giorni fa. I primi segnali di avvicinamento "palese" ai 5 Stelle si erano avuti a fine luglio, quando Di Pietro aveva rivelato ai cronisti di Montecitorio di voler lavorare a una lista di "non-allineati" per il post-Monti. "Dopo la riforma elettorale - è stata l'analisi del leader Idv - i partiti della maggioranza cercheranno in ogni modo di ghettizzare chi non si allinea alle loro posizioni, a cominciare da noi e dal Movimento Cinque Stelle". I partiti di maggioranza, aggiunge, "fanno bene a temerci, perché saremo noi il futuro partito di maggioranza. E sappiano pure che troveremo sempre il modo per sfuggire alle loro furbizie". Un "noi" che ha mostrato chiaramente in quale direzione si muoverà Di Pietro; una direzione che non piace a Donadi: "Penso che non sia giusto tradire così la nostra storia". Scissione dietro l'angolo? "Mi rifiuto anche solo di prendere in considerazione questa ipotesi". Ma il malumore interno al partito è crescente: il leader dell'Idv dà ormai per scontato un'alleanza tra i partiti del centro-sinistra, ma senza di lui, in vista delle elezioni politiche. Per questo si è candidato a premier, in aperta sfida a Pierluigi Bersani, che replica: "Porte chiuse a Di Pietro? No, è lui che ha scelto un'altra strada. Noi non siamo settari". Secondo il capogruppo alla Camera dell'Idv, se "Di Pietro fosse sceso in campo per le primarie, sarebbe stata un'ottima notizia; la prova che staremmo ancora lavorando con Bersani e Vendola nel centrosinistra. Invece no, candidandosi a premier ha fatto l'ennesima scelta di rottura". Intanto Pd e Sel si sono già mossi: durante l'incontro a Roma di due giorni fa, il duo Bersani - Vendola ha aperto all'Udc di Casini, estromettendo Di Pietro: "Il propagandismo esasperato di Di Pietro lo sta portando alla deriva", ha dichiarato il presidente della Puglia. Ma per Donadi la colpa del mancato accordo con l'Udc non è dei centristi: "In questo momento mi sembra paradossale prendersela con Casini". Lo sfogo del capogruppo alla Camera dell'Idv è stato messo nero su bianco: ci saranno conseguenze all'interno del partito? Il diretto interessato, per ora, lo esclude ma ha chiesto con forza a Di Pietro di convocare i vertici del gruppo, prima della riunione di Vasto di settembre. E se qualcuno gli chiedesse di dimettersi da capogruppo? "Non ci sono diventato con un sorteggio, ma mi hanno scelto i colleghi. E la loro scelta è revocabile". Tuttavia, se "dimettermi da capogruppo fosse il prezzo da pagare per convincere Di Pietro ad anticipare la riunione dell'esecutivo o a convocare il congresso sono pronto a pagarlo. Anche subito", annuncia Donadi.

 

San Carlo, esempio di sanità alla milanese tra sprechi e pensionati-superconsulenti - Davide Milosa

Impiegati semplici venduti come personale specializzato con competenze e conoscenze avanzate. Risultato: spreco di denaro pubblico che, sulla carta, deve finire nelle casse della Mds di Gianfranco Mozzali, già uomo di fiducia di Pierangelo Daccò, facilitatore della sanità lombarda accusato di corruzione assieme al presidente Roberto Formigoni nell'inchiesta sulla Fondazione Maugeri. Ma anche superconsulenze affidate a ultrasettantenni che sono in pensione è vero, ma, e il particolare non pare secondario, risultano anche amici di chi l'incarico lo decide. Siamo al San Carlo Borromeo, uno degli ospedali più grandi di Milano. E ci troviamo di fronte a un bell'esempio (si fa per dire) di sanità alla milanese. Quella che dal 2008 piazza alla direzione generale Antonio Mobilia. Nomina quanto mai politica (Mobilia è uomo caro ai La Russa), visto che il nostro, già all'epoca, arriva terz'ultimo nella graduatoria dei dg dell'area metropolitana. Nulla cambia nel 2010. Mobilia incassa la conferma. Altri due anni. Da valutare il prossimo dicembre? No perché il giro di valzer di 10 dg, comunicato ieri dallo stesso Formigoni, sposta Mobilia all'Asl 2 di Milano. Nel frattempo dagli archivi del San Carlo spuntano delibere e gare d'appalto che certificano quantomeno una gestione poco attenta dell'ospedale. Tutte carte che, naturalmente, portano in calce la firma di Antonio Mobilia, il quale, prima di atterrare sulla poltrona del San Carlo, ha diretto, per dieci anni, l'Asl Città di Milano, la più grande d'Italia con un bilancio annuo di 2,4 miliardi di euro. All'epoca il larussiano Mobilia si tiene accanto Giuseppe Grisolia, classe '39, calabrese di Amendolara (Cosenza). I due lavorano fianco a fianco per anni. Tanto che nel 2009, a nomina incassata, il neo dg del San Carlo chiama l'amico di sempre, riservandogli una bel contratto di consulenza (circa 30mila euro) rinnovato anno dopo anno e confermato anche per il 2012. Nel maggio 2011, lo spartiacque: Giuseppe Grisolia da Amendolara dall'oggi al domani si ritrova in mano la gestione di buona parte dei lavori che riguardano l'ospedale. La delibera parla, infatti, "di controllo delle attività di pianificazione strategica della Direzione in considerazione della necessità di mantenere il monitoraggio costante circa gli stati attuativi e di avanzamento dei lavori". Si tratta di opere "ammesse al finanziamento da parte della Direzione generale sanità della Regione Lombardia". Ufficio retto per oltre dieci anni da Carlo Lucchina, fedelissimo di Formigoni e come il governatore lombardo indagato nell'inchiesta Maugeri. Sanità alla milanese, si diceva. E così Grisolia, con un contratto di appena 25 ore settimanali, si ritrova per le mani la gestione di progetti milionari. Tra questi la progettazione di tre sale operatorie (3 milioni di euro), i lavori per il nuovo atrio (un milione e mezzo) e per la manutenzione degli ascensori (due milioni), per non parlare dei service che gestiscono la cucina, il calore (circa 55 milioni), e anche l'eliporto, il cui impianto antincendio costa 10mila euro al mese ed è affidato all'Elisicilia. Insomma, non male per un 73enne in pensione. Ombre e sospetti, ma (ad oggi) nulla di penalmente rilevante. Resta la poca accortezza della direzione generale. Certificata, in questo caso, dalla procedura negoziata per portare al San Carlo due impiegati "specializzati in linguaggi di programmazione, contabilità analitica e capacità di gestione dei flussi intercorrenti tra le varie unità operative". Questo recita la delibera del 24 agosto 2010 che ai nastri di partenza mette cinque società. Di queste, due (la Mds e la Periplo srl), oltre a essere riconducibili alla medesima persona, rientrano nell'inchiesta della procura di Milano sui fondi neri sottratti dalle casse della Fondazione Maugeri. Dominus è Giancarlo Mozzali (recentemente scarcerato), il quale, riassumono i magistrati, operava fianco a fianco con il direttivo amministrativo di Maugeri, e "lo supportava nella sua attività e nei rapporti con Daccò" per individuare "le società italiane ed estere alle quali trasferire le somme di danaro della Fondazione Maugeri". Di più: secondo l'accusa Mozzali utilizzava sia la Mds sia la Periplo "per operazioni commerciali fittizie con cui fornire apparente giustificazione ai trasferimenti all'estero delle somme di danaro della Fondazione Maugeri". Va detto che la Mds fino al 2008 ha controllato la Periplo. Dopodiché le quote passano alla lussemburghese Sib investments S.A., quindi alla maltese Sib limited. Nel frattempo, la partita degli impiegati specializzati si conclude il 12 ottobre 2010. Vince la Mds che si impegna a fornire due persone per un prezzo totale di 200mila. Durata 15 mesi. Sembra finita. Ma si va ai supplementari. L'intero pacchetto, infatti, viene bloccato dal direttore amministrativo Maurizia Ficarelli. In sostanza Mds avrebbe fornito solo impiegati ordinari (di concetto si direbbe) reperibili attraverso una semplice agenzia di lavoro interinale a metà del prezzo. Pochi giorni fa la stessa dottoressa Ficarelli è stata rimossa dal suo incarico. Tutto questo capita in Lombardia, culla della sanità d'elite, in uno degli ospedali più importanti, la cui storia recente si intreccia con le ultime inchieste giudiziarie che hanno riguardato il San Raffaele e la Maugeri. Da un lato attraverso i rapporti tra Mario Cal (presidente della ospedale e morto suicida il 18 luglio scorso) e lo stesso Mobilia, all'epoca in cui era direttore dell'Asl. Dall'altro a causa dell'ingombrante figura di Pierangelo Daccò che, a compulsare fonti interne al San Carlo, ebbe un ruolo (solo indiretto) nella nomina del fratello Renato Moreno Daccò a direttore del Pronto soccorso. Tutto avviene in una notte. Con la delibera numero 1318 del 15 dicembre 2010 che prevede l'inizio dell'incarico quinquennale per il giorno successivo. Chi, allora, frequentava i corridoi della direzione racconta di un Mobilia in affanno e preoccupato perché "a Pierangelo (Dacco', ndr) non si può dire di no".

 




Data notizia04.08.2012

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