Politica Italiana
Manifesto - 8.8.12
Sentenza politica - Loris Campetti
Se non fosse una bestemmia, quella del Tribunale del Riesame di Taranto si potrebbe definire una sentenza politica. Conferma che Riva ha avvelenato e continua ad avvelenare i suoi operai e i cittadini di Taranto, come prima aveva fatto lo stato quando l'Ilva si chiamava Italsider. Conferma il sequestro degli impianti, ma lo finalizza alla loro bonifica. Conferma il carcere per la famiglia Riva ma consegna l'impianto e il rispetto della sentenza al manager dei Riva, Ferrante. Si può dire che è stato tolto di mano ai padroni il timone, e si può anche dire che, comunque, il lupo è stato messo a guardia del gregge. Ma avrebbe potuto fare qualcosa di diverso, il Tribunale del Riesame? Le pressioni sulla magistratura sono state pesantissime e agite da più parti, a cominciare dal governo Monti e dal suo irrefrenabile ministro Clini. La pressione più forte che grava sulle scelte della magistratura è quella oggettiva, perché un giudice dev'essere terzo ma terzo non vuol dire marziano. Decenni di inquinamento hanno compromesso la salute di un'intera popolazione e di un territorio delicato quanto eccelso. Ma intorno al mostro d'acciaio si è sviluppato uno dei principali poli industriali e occupazionali, la vita e la morte di Taranto si intrecciano profondamente. Della vita della città, però, in pochi si sono occupati. Certo non i carnefici, i padroni della più grande acciaieria d'Europa che hanno sempre e solo guardato al profitto, eludendo richiami e impegni, rendendo complici persino le loro vittime. I sindacati hanno impiegato troppo tempo a riprendersi la loro autonomia di giudizio e di azione, e non tutti l'hanno fatto contribuendo così ad allargare il fossato tra i lavoratori e la città. Un giudizio su una sentenza come quella emessa ieri non può che essere sub judice: dipende dalla sua applicazione, da come si comporterà Riva e dai soldi che investirà per rendere tollerabile la presenza della fabbrica in città, e dipende naturalmente dai controlli. Ma le lavorazioni a caldo dell'Ilva dentro una città possono essere compatibili con la vita e la salute dei cittadini e dell'ambiente? Se lo chiedevano le donne di Cornigliano finché non l'hanno spuntata, se lo chiedono i tarantini e prima o poi anche loro la spunteranno. Certo, chi oggi proponesse di mettere un altoforno nel cuore di Roma o Cagliari o Verona sarebbe considerato un pazzo. Non è stato così ieri a Napoli, a Genova e a Taranto e con i disastri di una politica industriale cieca dobbiamo oggi fare i conti, e non li si possono fare in un giorno. Quel che si può fare subito, invece, e si deve fare, è rovesciare i principi e i fini di una futura politica economica chiedendoci cosa, come e dove produrre nel rispetto di inappellabili vincoli sociali e ambientali.
Il «risanamento», evita la chiusura - Gianmario Leone
TARANTO - Il tribunale del Riesame di Taranto, anticipando i tempi rispetto al limite del 9 agosto, ha emesso il suo verdetto sul ricorso presentato dall'Ilva nei confronti delle ordinanze del gip Patrizia Todisco: il sequestro degli impianti viene confermato, ma si scongiura la chiusura vincolandola alla messa a norma. Un provvedimento definito dallo stesso procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, «articolato, sul quale non ci possiamo esprimere compiutamente fino a quando, insieme ai miei colleghi, non avremo letto le motivazioni. Da una prima lettura del dispositivo possiamo dire che è sostanzialmente confermata la tesi accusatoria». Ecco: proprio nell'avverbio «sostanzialmente» sta il segreto, o il trucco, per definire un provvedimento che lascia spazio a diverse interpretazioni. Perché se da un lato è chiaro quanto deciso in merito alle ordinanze di custodia cautelare, diverso è il discorso sul sequestro preventivo degli impianti. Il collegio del Riesame (formato dal presidente Antonio Morelli, che è anche presidente del tribunale di Taranto, e dai giudici a latere Rita Romano e Benedetto Ruberto) ha infatti revocato gli arresti per cinque degli otto dirigenti dell'Ilva finiti ai domiciliari (Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice e Salvatore D'Alò), confermando quelli per il patron Emilio Riva, il figlio Nicola e per l'ex dirigente dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso. Per quanto riguarda il sequestro preventivo delle sei aree a caldo (Area Parchi, Area Cokerie, Area Agglomerato, Area Altiforni, Area Acciaierie e Area Grf - Gestione Rottami Ferrosi) disposto dal gip nell'ambito dell'inchiesta per disastro ambientale, nel testo del provvedimento si legge che «in parziale modifica del decreto di sequestro preventivo impugnato, ferma restando la nomina degli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuele Laterza e Claudio Lofrumento» viene nominato custode e amministratore delle aree e degli impianti sotto sequestro il dottor Bruno Ferrante, nella sua qualità di presidente del cda e di legale rappresentante di Ilva Spa, «revocando la nomina del dottor Mario Tagarelli». In pratica si autorizza il «controllato» ad essere a sua volta il «controllore» di quanto avverrà o meno nella sua azienda. Il che si presta a una doppia lettura: perché se da un lato la decisione lascia alquanto perplessi, dividendo anche il movimento ambientalista, dall'altro potrebbe essere una mossa sottile con la quale si responsabilizza del tutto la proprietà sulla realizzazione dei lavori di ambientalizzazione degli impianti, senza possibilità alcuna di poter incolpare altri della mancata realizzazione della bonifica. Mossa che soddisfa i sindacati. Si legge ancora nel provvedimento del Riesame, si «dispone che i custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». Dunque, il Riesame modifica il senso di base del sequestro: perché mentre il gip Todisco nella sua ordinanza aveva ordinato il sequestro senza facoltà d'uso, con la nomina degli ingegneri per l'immediato avvio delle procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti, il Riesame lascia nel limbo il discorso sulla produzione mantenendo di fatto i sigilli «virtuali» imposti dalla procura, ma consentendo all'Ilva di lasciare gli impianti in funzione: sia per evitare qualunque situazione di pericolo che potrebbe venir generata dallo spegnimento, sia per ottemperare alle richieste del gip, come l'attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni maggiormente inquinanti (quelle contenenti diossine e Pcb). E che ci si trovi di fronte a un provvedimento non del tutto chiaro, lo dimostrano le dichiarazioni del presidente dell'Ilva, l'ex prefetto di Milano Ferrante. Che, pur manifestando «grandissima amarezza» per la conferma dei domiciliari a Emilio e Nicola Riva, ravvede nelle decisioni del Riesame uno spiraglio per la salvezza del siderurgico. «Mi pare di capire che alcune questioni contenute nel provvedimento del gip non compaiono oggi in quello del tribunale del Riesame - commenta - Non si parla più di chiusura, di interruzione dell'attività, non mi sembra di cogliere nel provvedimento del Riesame queste parole. Si parla di utilizzo dell'impianto, certamente finalizzato alla messa in sicurezza e ad altri provvedimenti inerenti all'impatto ambientale». Dunque l'Ilva continuerà la sua produzione, che non si è mai realmente interrotta. I giudici si sono riservati di depositare le motivazioni dell'ordinanza. I termini non perentori per le motivazioni sono di cinque giorni. Per capire al meglio quale sarà il reale futuro dell'Ilva di Taranto, non resta che attendere altri pochi giorni.
Come mai Vendola non si è accorto di niente? - Alessandro Marescotti*
Due quintali e dieci chili a testa. A Taranto le emissioni industriali sono tali e tante che, se sommassimo tutti i fumi delle ciminiere e tutti gli scarichi in mare, e li dividessimo per gli abitanti della città, otterremmo proprio questo numero: 210 chili. Ogni anno. Oltre una tonnellata a testa in cinque anni. Sfido a trovare un'altra città in Italia dove si possano fare questi conteggi. Basta prendere i numeri della perizia commissionata dalla magistratura, fare somme e divisioni e, con una normale calcolatrice, arriviamo a questa brutale verità. A Taranto, ogni mese, almeno due persone sono uccise dalle sostanze chimiche prodotte dall'inquinamento industriale. È questo l'eccesso di mortalità calcolato dai periti nominati dalla procura di Taranto nell'ambito dell'incidente probatorio. Chi ha governato questa verità non l'ha voluta cercare. Ha preferito non sapere e non far sapere. E ha lasciato che una città morisse lentamente. A essere indagati per disastro ambientale e altre ipotesi di reato sono i vertici dell'acciaieria Ilva. Otto dirigenti sono agli arresti domiciliari. La magistratura è intervenuta lì dove la politica ha fallito. Un dato della perizia ci dice che tra lavoratori dell'Ilva i tumori si impennano fino ad arrivare ad un allarmante +107% per il cancro allo stomaco. E poi ci sono i dati degli effetti immediati dell'inquinamento. Essi sono fotografati dai periti con precisione impressionante che non lascia molto spazio ai dilemmi: il danno alla salute non è solo ereditato dal passato ma riflette un danno diretto, frutto delle esposizioni attuali. Chi lava i balconi a Taranto lo nota: il secchio è sempre nero e non si vede miglioramento. La polvere nera in fondo al secchio si attacca alla calamita. È impressionante pensare che può andare anche nei polmoni. La "prova calamita" dimostra la provenienza dell'inquinamento. Se a Taranto c'è questa situazione anomala, come mai la Regione Puglia non ha agito prima della magistratura? Dove vanno a finire i buoni propositi della politica sanitaria volta alla prevenzione? Come mai in pochi mesi tre periti nominati dalla procura sono riusciti a produrre i dati eclatanti che, in anni e anni di governo, la Regione non è riuscita a fornire? Alla Regione parlano di «carenza di personale». Tuttavia anche un vigile urbano avrebbe potuto fare di più, conteggiando i morti annui del quartiere Tamburi (accanto al quale sorge l'acciaieria) e operando un raffronto con i morti del resto della città. Per anni questi semplicissimi conteggi non sono stati fatti. Bastava eseguirli con lo stradario alla mano. Bastava un vigile con la calcolatrice e avremmo avuto qualche numero utile in più. Quando andai dal procuratore capo per portare dei numeri sul quartiere Tamburi relativi ai decessi per tutte le cause (il dato è semplicissimo da raccogliere), ebbi modo di scoprire, con mio grande stupore, che quei conteggi non venivano fatti e che la somma dei morti annui avveniva senza alcun criterio statistico che offrisse un'idea - anche grezza - del possibile impatto dell'inquinamento sul quartiere Tamburi, il più esposto. Di fronte a questi dati sconcertanti appare stonato l'ottimismo a cui si impronta la nota stampa del presidente Nichi Vendola del 5 aprile scorso nella quale si pone l'accento su alcuni dati regionali che esprimerebbero una «buona condizione di salute» della popolazione pugliese. Un ottimismo in perfetta sintonia con quello del sindaco di Taranto, sostenuto proprio da Vendola. Parliamo di Ippazio Stefano, che nell'ottobre del 2011 si compiaceva così: «Mi complimento per gli sforzi e i risultati ottenuti da Ilva». Lo stesso sindaco, nei mesi precedenti, era così ottimista che non chiedeva di inserire nell'Autorizzazione integrata ambientale alcuna prescrizione particolare per limitare l'inquinamento dell'Ilva. Il 4 agosto 2011 l'allora ministro Stefania Prestigiacomo confermava che «il sindaco di Taranto non ha formulato per l'impianto specifiche prescrizioni ai sensi degli articoli 216-217 del Regio Decreto 27 luglio 1934, numero 1265». Quel Regio Decreto offriva e offre al sindaco dei superpoteri, che possono giungere fino alla chiusura di un'industria che arrechi danno alla salute. La perizia epidemiologica commissionata dalla magistratura tarantina si conclude così: «L'esposizione continuata agli inquinanti dell'atmosfera emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte. I modelli di analisi messi a punto hanno consentito di stimare quantitativamente il carico annuale di decessi e di malattie che conseguono all'esposizione all'inquinamento». Sono affermazioni che vanno nella direzione opposta all'ottimismo di facciata esibito negli scorsi mesi dal presidente della Regione e dal sindaco di Taranto. Ed è per questo che Salute pubblica, PeaceLink, Lega italiana lotta tumori (Lilt) e Medicina democratica hanno sottolineato: «I risultati favorevoli di alcuni indicatori di salute sulla totalità della popolazione regionale possono soffrire di un effetto di diluizione per cui aree maggiormente protette da minacce ambientali rischiano di mascherare le cattive condizioni di salute di aree più minacciate. Tra le popolazioni minacciate ricordiamo i lavoratori». Credo che, dopo l'inchiesta sugli inquinatori, si apra un nuovo fronte. Quello delle complicità. Una rete di potere e di pressione che le intercettazioni telefoniche ha portato alla luce in modo devastante. Quelle telefonate intercettate spiegano tante cose. Come mai ad esempio nell'agosto del 2010 viene rimosso, con una norma nascosta nel decreto legislativo 155/2010, il limite del benzo(a)pirene? Parliamo di una sostanza cancerogena che rende i bambini del quartiere Tamburi dei «fumatori incalliti» (per un equivalente di mille sigarette/anno). Le intercettazioni vertono in buona parte proprio sul benzo(a)pirene. Ma passiamo alla diossina. Come mai la legislazione italiana non ha un limite per diossine e Pcb nei terreni di pascolo? Oggi in Italia, in qualunque regione, una pecora può contaminarsi "a norma di legge" in terreni con diossine e pcb. Possiamo mangiarne il formaggio e rimanerne contaminati. E questo perché se esiste un limite per gli alimenti, non esiste tuttavia un limite apposito per i pascoli. Per ovviare a questo "buco normativo" per i pascoli si adotta il limite di diossine e pcb delle zone urbane, che è assolutamente inadatto: le pecore non pascolano sull'asfalto. Il ministro dell'Ambiente Clini questa cosa la sa? E il ministero delle Politiche Agricole ha qualcosa da dichiarare?
*presidente di PeaceLink «QR»
Una sfida che riguarda tutti - Massimo Serafini
Il dramma sociale che si sta consumando a Taranto era largamente annunciato. Altrettanto prevedibili le divisioni fra i lavoratori esplose in piazza. Prevedibile non solo per la nefasta presenza dei Riva, i veri responsabili di questa tragedia, ma anche di chi ha tollerato il loro cinismo e la loro prepotenza, a cominciare dalla ex ministro dell'Ambiente Prestigiacomo, che giudicò inopportuno il provvedimento con cui, il presidente della Regione Vendola, intimava all'Ilva di rispettare i limiti di emissione europei. Parte della responsabilità ricade sulla Uilm e la Fim Cisl per avere subito il ricatto dei Riva sull'occupazione e quindi rifiutato l'idea stessa che la difesa dei posti di lavoro fosse possibile solo obbligando l'azienda a non avvelenare più. Questa subalternità ha di fatto favorito la rottura fra le associazioni di cittadini e i lavoratori e spinto i primi a chiedere giustizia alla magistratura e i secondi a difendere l'azienda così com'è. Solo la Fiom ha cercato di uscire da questa subalternità e non da oggi. Quasi due anni fa, infatti, come responsabile lavoro di Legambiente, fui coinvolto in una iniziativa con cui la Fiom provò a ricucire il rapporto con la cittadinanza e con gli ambientalisti. Sono convinto che se si fossero praticate almeno in parte le conclusioni di quell'evento probabilmente oggi a costringere i Riva a mettersi in regola e a non avvelenare più ci avrebbero pensato i lavoratori stessi e non i tribunali. Preso però atto della situazione drammatica ora è necessario far finire bene la vicenda. Finire bene significa in primo luogo fare giustizia per i cittadini di Taranto e quindi porre fine al cocktail di veleni con cui sono costretti a convivere da decenni: bonificare dunque in tempi certi il pregresso, accumulatosi nel territorio e imporre il rispetto rigoroso dei limiti di emissione europei da parte dell'azienda. Finire bene significa anche fare giustizia per le lavoratrici e i lavoratori dell'Ilva, prime vittime dell'inquinamento: Taranto deve continuare ad essere il principale polo siderurgico del paese, garantendo gli attuali livelli di occupazione. Va dunque rivendicata e ottenuta un'Ilva completamente rivoluzionata, dotata delle migliori tecnologie che le permettano di emettere ciò che le normative europee prevedono, di consumare poca energia e di realizzare un generale processo di innovazione dei suoi prodotti e della sua organizzazione del lavoro. Tutto ciò lo si deve realizzare a fabbrica aperta e funzionante. Per raggiungere questo risultato ambizioso serve una critica severa della privatizzazione della siderurgia, che ha prodotto un vero e proprio sfacelo: per le persone che vi lavoravano costrette a farlo in reparti insalubri e con condizioni di lavoro e sfruttamento insopportabili; sull'aria, l'acqua e la terra quotidianamente avvelenate. La giusta battaglia in favore dell'appello degli economisti, per un'altra politica economica per uscire dalla crisi, sostenuta anche da questo giornale, sarebbe più forte e credibile se si misurasse con un caso emblematico come quello dell'Ilva, esempio chiarissimo del generale processo di deindustrializzazione che le privatizzazioni hanno determinato nel paese. Il regalo della vecchia Italsider ai privati e a privati, come i Riva a Taranto e i Lucchini a Piombino non poteva che produrre una ricerca di profitti facili garantendo competitività a prodotti vecchi attraverso una riduzione dei costi del lavoro e dell'ambiente. Senza una lotta politica in grado di rilanciare un rinnovato impegno pubblico che imponga e diriga il processo di innovazione e riconversione necessarie alla siderurgia italiana, a Taranto il conflitto fra ambiente e lavoro sarà inevitabile. Umilmente chiedo ai gruppi dirigenti del centro sinistra di misurarsi con il dramma che si sta consumando a Taranto e quindi di sottoporre l'affannosa e inconcludente discussione su quale schieramento dovrà contendere alle destre il governo del paese sulla ricetta con cui ci si propone di risolverlo. Altrettanto decisivo per tentare di far finire bene la vicenda è che le organizzazioni sindacali accettino e si misurino con i ritardi accumulati, già denunciati da Landini su questo giornale. Non c'è futuro per l'Ilva se i lavoratori vengono spinti a difendere la fabbrica così com'è. La produzione non va fermata, ma solo nel quadro di un chiaro progetto che ponga fine all'avvelenamento di Taranto e della sua cittadinanza. Sarebbe quindi importante che l'autocritica fatta da Landini si traducesse in una precisa iniziativa politica verso gli altri sindacati e soprattutto verso la popolazione cercando nuovamente di far crescere in essa il convincimento che Taranto può vivere senza veleni, continuando a produrre acciaio. Infine per finire bene è necessario un salto di qualità anche del movimento ambientalista. Non ci si può limitare alla soddisfazione per la chiusura, per via giudiziaria, della fabbrica dei veleni, fregandosene del dramma sociale che si sta producendo o limitandosi a dire che di esso è responsabile Riva e la politica a lui asservita. Bisogna essere consapevoli che lasciare le cose come sono ora significa dare un colpo mortale e definitivo alla credibilità di quella riconversione ecologica dell'economia di cui andiamo parlando da anni e che pensiamo sia l'unica credibile via di uscita dalla crisi. Come potremmo, mi chiedo, convincere milioni di lavoratrici e lavoratori a lottare per una società sostenibile se essa non è in grado di far sì che i necessari processi di riconversione industriale garantiscano e possibilmente sviluppino gli attuali livelli di occupazione? In altre parole gli ambientalisti non possono permettere che a Taranto finisca come finì a Massa Carrara la vicenda della Farmoplant, dove l'azienda fu chiusa, i lavoratori persero il lavoro e i terreni rimasero avvelenati. E' compito anche degli ambientalisti indicare un progetto che permetta di risanare Taranto e il suo territorio nel quadro di una continuità produttiva e occupazionale compatibile con la salute della popolazione. Sono consapevole che la situazione reale di Taranto va nella direzione opposta a quanto sto proponendo. Ci sono però spiragli su cui è possibile agire per invertire la tendenza, oggi prevalente, alla divisione fra chi si batte per la propria salute e chi per il lavoro. C'è un accordo già sottoscritto per la bonifica che necessita, per essere credibile di maggiori risorse; c'è l'impegno della Fiom ad aprire una riflessione critica nell'insieme del movimento sindacale; c'è soprattutto un governo regionale e il suo presidente Vendola che prima ha obbligato i Riva a rispettare i limiti di emissione europei e ora è disponibile ad investire risorse umane e finanziarie per una soluzione che tuteli contemporaneamente la popolazione e i posti di lavoro; ci sono sul medesimo obiettivo coinvolti il comune di Taranto e la chiesa; ed infine ci sono associazioni, a cominciare da Legambiente che con la sua lettera aperta ai lavoratori dell'Ilva dimostrano che è possibile ritessere un rapporto unitario fra lavoratori e cittadinanza e animare quindi una vertenza in grado di imporre la tutela dei posti di lavoro e quella dell'ambiente. Difficile si, ma non impossibile se si lavora per sviluppare queste potenzialità e non ci si rassegna allo stato di cose presenti.
La compressione sociale di Mario Draghi - Gabriele Pastrello
Gli gnomi della finanza che stanno speculando sulla possibilità di far crollare l'euro hanno un potente alleato nella Bundesbank. Ogni volta che il suo presidente, Weidmann, interviene si apre una crisi. È successo anche stavolta. Dopo le dichiarazioni di Draghi che indicavano prospettive completamente nuove nell'azione della Bce, le proteste della Bundesbank, che l'ha richiamata al rispetto letterale dei suoi compiti istituzionali, sembravano aver indotto Draghi a fare marcia indietro. Così almeno lo hanno interpretato i mercati. In realtà i mercati sono troppo nervosi, o magari vi sono forze che vi agiscono enfatizzandone le paure e cercando di dissipare il fragile ottimismo. Ma la situazione è molto meno compromessa di quanto sembri. Anche se le sue dichiarazioni sono apparse più caute di quelle precedenti, la linea di Draghi ha ottenuto via libera dalla maggioranza del consiglio della Bce, con l'eccezione del rappresentante della Bundesbank che, peraltro, è stata esplicitamente indicata come l'oppositore ufficiale della sua linea. In realtà il problema nasce dal fatto che Draghi non può dire apertamente quello che ha inteso parlando di «qualsiasi mezzo» per salvare l'euro. Ovviamente, in assenza di attacco speculativo, quello che Draghi può fare sono le cose note e permesse: acquisto sul mercato primario con fondi del Fondo di stabilità, Efsf. In secondo luogo, acquisti da parte della Bce di titoli italiani e spagnoli sul mercato secondario. Bisognerebbe, peraltro, ricordare che questi acquisti furono interrotti in marzo, ed è proprio da marzo che si invertì la discesa degli spread, conseguente alla manovra Draghi di dicembre. Ovviamente Draghi non può dire che, se ci fosse un attacco speculativo, interverrebbe come prestatore di ultima istanza, come aveva fatto intendere. Difficilmente potrà dirlo; potrà, eventualmente, farlo. Anche le dichiarazioni di Monti che non richiederà l'intervento della Bce non sono altro che una ragionevole scommessa sul vero significato della linea di Draghi. Se è vero che Draghi interverrà come prestatore di ultima istanza in caso di attacco, questo allontana la probabilità dell'attacco e, contemporaneamente, la sgraditissima ipotesi che il governo italiano debba richiedere l'intervento della Bce, con tutto quello che segue, come sanno Irlanda, Portogallo Grecia e, forse domani, la stessa Spagna. D'altra parte la Merkel ha dato alcuni giorni fa un assenso difficilmente revocabile alla linea Draghi il quale, nello stesso discorso del «qualsiasi mezzo», aveva comunque sottolineato che il progresso nel controllo dei deficit e nelle riforme va avanti e non deve rallentare. Queste oscillazioni sono dovute al fatto che il problema ha un doppio aspetto, uno monetario e uno, per così di dire, di condizionalità; cioè, che se è vero che va salvato l'euro, siccome contestualmente si salvano i debiti sovrani dei paesi attaccati allora, secondo Germania e Bruxelles, questi paesi devono sottomettersi a pesanti condizioni per ottenere l'aiuto. Lo scopo del bombardamento Bundesbank sembra quindi essere stato piuttosto quello di ottenere che Draghi sottolineasse l'aspetto di condizionalità legato all'intervento della Bce. Peraltro lui stesso, in un'intervista al Wall Street Journal, aveva enunciato una strategia di «compressione sociale» per l'Europa: riduzione dello stato sociale e del potere contrattuale dei lavoratori, che è quella messa in atto attraverso il fiscal compact e le riforme imposte. Ma questa strategia è stata messa in pericolo dall'ostinazione tedesca a non voler affrontare la crisi valutaria con strumenti monetari. Perché, anche se sotto attacco erano i debiti pubblici di alcuni stati europei, in gioco non c'erano solo le loro politiche fiscali. In gioco c'è l'euro come moneta unica, messa sotto attacco sui mercati finanziari mondiali Non volerne prendere atto rischiava l'implosione della zona euro. Da cui l'intervento straordinario di Draghi che ha raccolto anche la preoccupazione americana che l'euro implodesse alla vigilia delle elezioni presidenziali. Ma bisogna anche ricordare che il ministro del Tesoro Usa, Geithner, non ha detto alla stampa che gli preme che la crisi dell'euro venga evitata, bensì che resti «dormiente» fino alle elezioni Usa. Poi si vedrà. Non dobbiamo farci illusioni. L'obiettivo di Draghi è la messa in sicurezza della strategia di «compressione sociale» da lui stesso enunciata. È la minaccia di attacco diretto al debito italiano che rafforza la linea dell'austerità del governo Monti. Eppure, lo stesso obbligo assunto da Draghi di salvataggio dell'euro come tale aprirebbe spazi all'azione della sinistra, se ne fosse capace, per un deciso riequilibrio dei sacrifici.
Un'intervista ineccepibile - Joseph Valevi
Come i lettori già sanno, mi colloco in totale opposizione alla politica economica fondata sull'austerità e sui tagli di bilancio. In tal senso la linea Monti-Pd è esiziale per l'Italia, che di giorno in giorno vede ridursi le prospettive anche di un minimo rallentamento della crisi. No, non c'è luce in fondo al tunnel e non ci sono camion davanti. Ma l'intervista di Monti a Der Spiegel è ineccepibile. L'ho letta interamente nella versione inglese del settimanale (http://www.spiegel.de/international/europe/interview-on-the-euro-crisis-with-italian-prime-minister-mario-monti-a-848511.html) ed è notevole per la sobrietà con cui tocca i punti principali della crisi europea. Può essere considerata un aggiornamento dell'importantissima intervista che il Presidente del Consiglio rilasciò a Die Welt a gennaio. Monti pone in evidenza che la rottura del sistema monetario e bancario europeo sta imponendo alla banche di trincerarsi nei propri confini nazionali, aumentando le difficoltà per i paesi che non godono della fiducia dei mercati. Osserva inoltre che l'attuale crisi dell'eurozona origina anche dagli errori effettuati nel passato, primo fra tutti la violazione delle regole imposta da Francia e Germania nel 2002 e 2003, dando così il cattivo esempio agli altri paesi. Il collegamento con l'intervista a Die Welt emerge quando Monti afferma, giustamente, che si è in presenza di una dissoluzione psicologica dell'Europa e di una crescita dei pregiudizi reciproci. Per Monti i governi non devono limitarsi ad un'applicazione meccanica dei criteri stabiliti dai rispettivi parlamenti. L'affermazione, che ha suscitato le ire dei politici tedeschi, è ovvia: ogni governo ha dei margini, più o meno ampi, di autonomia rispetto al parlamento. Le violente reazioni tedesche sono da ascriversi alle verità espresse dal Presidente del Consiglio italiano. Oltre ad aver ricordato la violazione delle regole nel 2002-3 Monti ha sottolineato quanto segue. Il differenziale tra tassi tedeschi ed italiani aiuta la Germania a sostenere il suo debito pubblico (il cui costo è ormai negativo in termini reali). I meccanismi di rifinanziamento escogitati da Draghi ed i fondi salva stati, di cui l'Italia è finanziatrice, hanno aiutato le banche tedesche. Infine Monti ha confermato, indirettamente, quanto vado scrivendo da tempo, cioè che i fondi salva banche e stati sono in realtà degli strumenti tossici che aggravano l'indebitamento. Al giornalista di Der Spiegel il Presidente del Consiglio italiano fa notare che l'Italia contribuisce ai suddetti fondi; pertanto le è stata addebitata la quota parte nelle relative erogazioni. Senza tali addebiti il rapporto debito pubblico pil non sarebbe oggi salito al 123% ma sarebbe rimasto sul 120%. Osservazione valida che svela però quanto errata e scellerata sia la politica economica Monti-Pd ove, come in altri paesi, di fronte ad una crescente austerità il debito non cala. Nell'intervista a Die Welt Monti aveva dichiarato che senza l'Europa il suo governo non ce l'avrebbe fatta e che il fallimento avrebbe spaccato l'Europa in senso antitedesco. A Der Spiegel Monti comunica che il fallimento è prossimo ed è anche colpa dell'Europa. In Italia, concludo, la responsabilità politica della scellerata austerità e della spaccatura europea ricade interamente sul Pd che ha bloccato qualsiasi opposizione sociale ed ha irresponsabilmente votato il pareggio di bilancio nella Costituzione.
Il cemento si riprende le coste - Costantino Cossu
CAGLIARI - Il 23 luglio il consiglio regionale della Sardegna ha approvato a maggioranza le «Linee guida alla modifica del Piano paesaggistico regionale» presentate dalla giunta di centro destra guidata da Ugo Cappellacci. È il primo passo verso lo smantellamento della legislazione di tutela delle coste che l'isola si è data durante l'amministrazione Soru (dal 2004 al 2008). Il Piano, approvato nel 2006, considera le coste bene ambientale da preservare, sulla traccia del Codice Urbani e dell'articolo 9 della Costituzione. L'intera fascia costiera viene messa al riparo dalle logiche speculative e/o di pura e semplice profittabilità economica, che, in Sardegna come nel resto d'Italia, hanno portato, in aree vastissime, a uno spaventoso dissesto del territorio. Tutti i comuni sono sollecitati ad approvare Piani urbanistici che limitino le cubature disponibili per le nuove costruzioni e puntino invece al recupero e al restauro del patrimonio immobiliare esistente. Su questo progetto la giunta Soru, e in particolare il suo presidente, avevano puntato molto. Era un elemento centrale del programma di governo. Il Piano paesaggistico regionale (Ppr) è uno dei risultati positivi di un'amministrazione che contro la devastazione delle coste, mossa dagli interessi di una potente lobby di costruttori e di speculatori, si è schierata sin dall'inizio con coerenza e determinazione; e che questa scelta, alla fine, ha finito per pagare a caro prezzo. Bisogna ricordare, infatti, che la giunta Soru cadde con quasi un anno di anticipo rispetto al termine della legislatura perché il suo presidente dovette prendere atto, con le dimissioni anticipate, della resistenza di una parte cospicua della sua stessa maggioranza ad estendere - come il Codice Urbani prevede - le norme di tutela paesaggistica dalle coste all'intero territorio dell'isola. Nel tardo autunno del 2008 Soru si dimise contando di poter imporre ai suoi alleati il rispetto del programma di governo attraverso una riconferma del mandato che gli elettori gli avevano conferito quattro anni prima. Le cose, però, non andarono così. Durante la campagna elettorale Silvio Berlusconi in persona venne a più riprese in Sardegna per sostenere un candidato, Cappellacci, che dello smantellamento del Piano paesaggistico regionale aveva fatto un punto cardine della futura di agenda di governo. Agitando l'argomento propagandistico secondo il quale il Ppr, bloccando l'edilizia (una delle principali attività economiche di una regione che ha un apparato industriale debolissimo e per buona parte in via di smantellamento), avrebbe causato la perdita di migliaia di posti di lavoro, il candidato del centro destra riuscì ad intercettare una fascia ampia di opinione pubblica. A urne chiuse, nel febbraio del 2009, Cappellacci riuscì a prevalere, anche se di poco, su Soru. Da quel momento la pressione della lobby dei costruttori edili che avevano sostenuto la candidatura del pupillo sardo del Cavaliere, cominciò ad esercitarsi con forza. La cambiale doveva essere pagata, e a meno di due anni dalle elezioni regionali non si può più aspettare. Cappellacci non ha agito subito perché smantellare il Ppr non è facile. Intanto c'è la resistenza politica dei gruppi ambientalisti e della minoranza di centrosinistra schierata (con sfumature e gradi di convinzione diversi) con un Soru che si muove attraverso la sua associazione, Sardegna democratica, per fermare i cementificatori. E poi il Piano è uno strumento di rigorosa attuazione non solo del dettato costituzionale, ma anche della legislazione nazionale (in primis il Codice Urbani) di tutela del paesaggio. Non ha caso esso ha resistito a diversi ricorsi presentati in sede amministrativa, con il Tar che è sempre intervenuto a respingere i tentativi di invalidarlo in tutto o in arte. Smontarlo significa esporsi ad azioni legali già annunciate da Italia nostra e da Legambiente e anche all'azione di controllo che lo Stato, e in particolare le Sovrintendenze e il ministero dei Beni culturali e ambientali, sono chiamati a svolgere nell'ambito delle loro competenze istituzionali. È per questo che le «Linee guida» presentate da Cappellacci e approvate dal Consiglio regionale puntano non alla cancellazione del Ppr ma a un suo snaturamento per vie indirette. Un solo esempio. Si legge a pagina 20: «Più che la norma vincolistica che assume efficacia solo nei confronti della conservazione, dovranno emergere maggiormente le prescrizioni e gli indirizzi». Ebbene, questa impostazione in Italia è purtroppo molto diffusa, con esiti nefasti. Si pensi soltanto al «Documento di indirizzo» ideato dalla ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, in sostituzione del Piano regolatore generale del capoluogo lombardo, non a caso prontamente sospeso dalla giunta Pisapia. Indirizzi e non regole certe. La giunta regionale sarda questo vuole: sostituire alle regole certe stabilite dal Ppr indirizzi generali fissati con una delibera della giunta Cappellacci. Maglie larghe che consentirebbero ai costruttori di riprendere a cementificare le coste seguendo la bizzarra definizione di «sviluppo sostenibile» contenuta alla pagina 15 nelle Linee guida: «Sviluppo sostenibile, ovvero un equilibrio tra esigenze di tutela ambientale e sviluppo economico che consenta da una parte di soddisfare i bisogni delle persone senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i loro bisogni, dall'altra di generare reddito anche nell'immediato. In un quadro che garantisca la mediazione tra la tutela delle risorse primarie del territorio e dell'ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità». «A chi parla di mediazioni tra elementi diversi - commenta Edoardo Salzano, l'urbanista veneziano che ha guidato il gruppo di lavoro che a suo tempo ha redatto il Ppr - bisogna ricordare sempre che il risultato della mediazione dipende dalla diversa forza e consistenza dei due elementi, in questo caso profitti e ambiente, tra cui si vuole mediare. E certamente nella Sardegna e nel mondo di oggi, e in particolare nella compagine di cui Cappellacci è espressione, la forza degli interessi economici basati sull'appropriazione d'ogni bene riducibile a merce e suscettibile di arricchirne il possessore è una forza ben maggiore di quella degli interessi volti a riconoscere e a tutelare il valore delle qualità che natura e storia hanno costruito, che è espressa dal paesaggio: quelle qualità che sono la base di ogni possibile domani migliore.
Così «l'incubo del contabile» finirà per devastare l'isola - Costantino Cossu
CAGLIARI - Archeologo e storico dell'arte di prestigio internazionale, accademico dei Lincei, direttore sino al 2010 della Scuola Superiore Normale di Pisa, Salvatore Settis da anni si batte per la tutela del paesaggio e dei beni culturali. Pochi giorni fa è stato in Sardegna per partecipare a una tavola rotonda dal titolo «Il valore della Terra», organizzata da Sardegna Democratica, l'associazione che fa capo a Renato Soru. Professor Settis, qual è la sua valutazione del progetto della giunta Cappellacci di modifica del Piano paesaggistico della Sardegna? Con incredulità e con dolore, vedo nel nuovo progetto l'intento di devastare la Sardegna, e lo strumento per renderlo possibile. Questa la mia valutazione, ma vorrei specificare, pensando alla Sardegna ma pensando anche all'Italia. Pianificare il paesaggio è un tema importantissimo, delicatissimo in tutto il mondo, e in Italia lo è ancor di più, per due ragioni: la straordinaria stratificazione di bellezza e di storia del nostro paesaggio, ma anche la tradizione altissima di civiltà e di cultura che è alla base della normativa italiana di merito. Basti ricordare che la prima legge sul paesaggio è dovuta a un ministro della Pubblica istruzione che si chiamava Benedetto Croce (1920). La legge Croce fu poi riscritta e ampliata in una delle due leggi Bottai nel 1939: leggi di un governo fascista che nulla ebbero di fascista, tanto è vero che nell'Assemblea costituente di una Repubblica nata contro il fascismo nacque l'articolo 9 della Costituzione, che contiene (lo ha scritto Sabino Cassese) la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai». Prima al mondo, l'Italia poneva la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato. Da questa lunga linea di continuità nasce anche il Codice dei Beni culturali e del paesaggio (2004), che contiene l'attuale normativa. Ora il fatto è che la Sardegna è stata, con la giunta Soru, la regione italiana che ha interpretato questa tradizione con la massima intelligenza e fedeltà alla legge e alla Costituzione, e nel massimo rispetto della storia della Sardegna, ma soprattutto del suo futuro. Quel piano paesaggistico è un modello insuperato in Italia e, data la rilevanza dei paesaggi sardi, ha importanza europea e globale. Buttando via quel Piano, la Sardegna commetterebbe un doppio suicidio: danneggiando irreversibilmente i propri paesaggi unici al mondo, ma anche perdendo l'occasione storica di essere la Regione-modello per tutta Italia. La crisi globale spinge a una ridefinizione delle coordinate su cui basare economia e finanza. Ambiente e beni culturali possono svolgere un ruolo? Abbiamo in Italia, pronto per l'uso, un manifesto da mettere in pratica: la Costituzione. Essa ha al centro l'idea di bene comune, il progetto di costruire una società libera e democratica sulla base dei diritti dei cittadini. Il grande movimento mondiale contro la cieca dominanza dei mercati potrebbe e dovrebbe trovare in Italia un punto di forza. Vorrei dirlo con le parole di un grandissimo economista, Keynes. Egli esortava a liberarsi dell'«incubo del contabile», e cioè del pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta immediati frutti economici. «Invece di utilizzare l'immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, creiamo ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché fruttano, mentre - nell'imbecille linguaggio economicistico - la città delle meraviglie potrebbe ipotecare il futuro». E Keynes continua: «Questa regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo». Ecco: devastare il paesaggio in Sardegna sarebbe come fermare il sole e le stelle.
La Grecia lancia la caccia al migrante - Marina Forti
Il colpo d'occhio fa impressione: gruppi di decine di persone circondate da poliziotti in assetto da «lavoro», caschi e armi in pugno, mentre altri agenti controllano loro documenti e averi. Uomini e ragazzi, facce disperate e umiliate, vengono caricati sui cellulari e portati in qualche commissariato. Sono scene fotografate nel centro di Atene durante il fine settimana: è l'operazione denominata «Zeus Xenios», grazie a cui la polizia greca afferma di aver arrestato 6.000 stranieri illegali. Molti di loro sono stati poi rilasciati, ma circa 1.600, che non avevano documentazione regolare, saranno caricati su qualche aereo ed espulsi. Un'operazione così massiccia ha suscitato forti critiche di Syriza, la coalizione della sinistra (che l'ha definita un «pogrom»). L'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati si allarma: tra i fermati ci sono potenziali rifugiati, o comunque persone che se rimandate in patria rischiano la vita (L'Acnur chiede tra l'altro di sospendere le espulsioni verso la Siria). Si allarma anche l'Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim): la retata indiscriminata mette in pericolo il programma di rimpatri volontari che il governo greco aveva avviato con il sostegno dell'agenzia dell'Onu e dell'unione europea. Ma l'operazione retata è stata difesa con forza dal ministro per l'ordine pubblico Nikos Dendias in una intervista trasmessa dal canale televisivo Skaï lunedì sera. Il ministro ha detto che la Grecia deve difendersi da una «invasione» che «rischia di portare il paese al collasso». Ha insistito molto su questo concetto: la Grecia non vedeva un'invasione di queste proporzioni «da quella dei dori 3.000 anni fa ». E ha insistito sul fatto che il paese oggi non può permettersi questa massa di immigranti: sono «una bomba contro i fondamenti della nostra società e dello stato», ha affermato Dendias - ed è arrivato a dichiarare che «il problema dell'immigrazione oggi è perfino più grave di quello finanziario». Quelle facce disperate dunque sono una minaccia alla democrazia greca, più del debito, dei diktat della Banca centrale europea e dell'evasione fiscale: così almeno dice il ministro dell'ordine pubblico, e molti greci ne sembrano proprio convinti. L'immigrazione illegale e la criminalità dovuta ai «clandestini», o il degrado di certi quartieri del centro di Atene e di altre città greche, sono temi ampiamente sfruttati durante le campagne elettorali di maggio e giugno: e non solo dall'estrema destra come Alba dorata, il partito dai toni nazisti (che ha conquistato il 7% dei voti, 18 seggi parlamentari), ma dallo stesso partito conservatore «per bene», Nuova Democrazia del premier Antonis Samaras, che ha promesso di frenare l'immigrazione illegale. Non era chiaro ieri se e quante espulsioni sono state già eseguite. Un gruppo di 88 pakistani è stato messo su un aereo e rimpatriati domenica (ma forse fanno parte di una retata precedente); altre espulsioni sono attese nei prossimi giorni, dice un ufficiale di polizia in modo anonimo al New York Times. L'immigrazione è forse il fenomeno peggio gestito dai governi che si sono susseguiti in Grecia nell'ultimo decennio, faceva notare un rapporto di Human Rights Watch lo scorso luglio (Hate on the Streets, 10 luglio 2012). Perché è vero che la Grecia ha una popolazione straniera notevole: gli immigrati regolari si avvicinano al milione, su un totale di 10 milioni di abitanti , e secondo cifre ufficiali ce ne sono almeno altri 350mila irregolari (ma molti sono convinti che siano ben di più e nell'aprile scorso funzionari governativi parlavano di un milione di «clandestini»: cifra aleatoria, che però rafforza l'idea di un'invasione). La Grecia ha vissuto in tempi accelerati la parabola immigratoria comune all'Italia o alla Spagna. E' successo tutto in meno di vent'anni: negli anni '90 l'afflusso più ampio è arrivato dai Balcani, in particolare dall'Albania, e si calcola che la popolazione immigrata sia triplicata tra il 1991 e il 2001, fino a diventare il 7,3% dei greci). Poi dai primi anni '2000, la Grecia è diventata una delle principali vie d'accesso all'Unione europea per migranti e potenziali richiedenti asilo dall'Asia e dall'Africa, per via della sua lunga frontiera con la Turchia. Persone in fuga da crisi e conflitti, o da cataclismi e povertà: secondo Frontex, l'agenzia dell'Unione europea per controllare le frontiere, alla fine del 2010 la Grecia contava per il 90% degli ingressi irregolari nell'Unione. Tutto questo però è stato gestito nel peggiore dei modi. Da un lato, il tentativo di blindare le frontiere (anche perché entrando nel sistema Schengen la Grecia è diventata una «frontiera esterna»): controlli draconiani, centri di detenzione per i malcapitati colti in flagrante. Insieme, la mancanza di una politica precisa verso i richiedenti asilo. Gran parte di coloro che arrivano in Grecia si sentono in transito, sperano di andare altrove in Europa. In ogni caso chiedere lo status di rifugiato ai sensi delle Convenzioni Onu è quasi impossibile in Grecia; nonostante una riforma avviata nel 2010 le procedure restano lentissime, alla fine del 2011 c'era un arretrato di 38mila domande. E il tasso di domande accolte è il più basso d'Europa: meno dell'uno per cento, cioè poche decine ogni anno. Soprattutto, alla politica delle frontiere blindate non si è accompagnata nessuna misura per gestire la presenza di un'immigrazione ormai inevitabile: nessuna porta chiusa ferma davvero chi ha motivi impellenti per fuggire, che siano conflitti o «motivi economici». Tanto più se c'è un mercato del lavoro pronto a sfruttare le loro braccia, meglio ancora se irregolari, da pagare poco e far lavorare tanto: dal bracciantato agricolo all'edilizia, al servizio domestico o nei bar e ristoranti. Così un'ampia popolazione straniera vive in quartieri poveri e degradati delle città greche, o popola zone rurali altrimenti abbandonate. Ad Atene, intere zone del centro storico più degradato sono state poco a poco occupate da migranti in povertà estrema. Gli abitanti originari hanno visto le loro strade cambiare aspetto, e certo la crisi economica che si è abbattuta su di loro non li spinge a guardare con solidarietà i nuovi arrivati. «Nell'ultimo decennio la Grecia è diventata decisamente inospitale verso gli stranieri migranti», notava Human Rights Watch nel suo rapporto, impressionante elenco di aggressioni razziste. Sono comparsi gruppi di cittadini «vigilanti», manifesti anti-immigrati. Ci sono stati raid di picchiatori. Ora, con l'operazione «Zeus Xenios», il governo greco sembra voler compiacere tutto questo.
«Qualcuno si è arricchito sfruttando i migranti» - Marina Forti
Bel paradosso: la notizia dell'operazione «Zeus Xenios» è stata ripresa molto più dai corrispondenti stranieri che dai media greci. Salvo poche eccezioni: come il quotidiano moderato-liberal «Kathimerini», che ieri aveva un editoriale decisamente critico (nell'edizione in inglese). Vale la pena di citarlo. «Una delle ragioni per cui l'immigrazione è di nuovo in cima all'ordine del giorno è politico: che il partito al potere sa che una buona fetta della crescita economica degli anni passati è dovuta al lavoro clandestino e sottopagato fornito dalla popolazione immigrata nel paese. Perfino molti dei progetti per i «miracolosi» giochi del 2004 (...) sono stati realizzati in tempo grazie a lavoro migrante», scrive. «Alcuni hanno raccolto i profitti del lavoro a buon mercato e hanno fatto scalate sociali, ignorando gli appelli a pagare tasse e oneri sociali. E coloro che hanno profittato - siano i grandi proprietari terrieri, appaltatori \, allevatori e imprenditori agricoli o tour operator - sono anche parte dello status quo, il sistema dello stato clientelare». Ma del resto, «chi si occuperà dei nostri genitori che invecchiano? chi porta nuova vita nei villaggi morenti? chi sostiene la nostra demografia, chi sostiene il sistema di sicurezza sociale? Tutti conosciamo la risposta ma la nascondiamo. (...) Piuttosto parliamo di criminalità». Kathimerini conclude: «Quale mente malata ha tirato fuori Xenios Zeus come nome in codice per un'operazione di pulizia dei migranti?». Già, Zeus Xenios era il dio che proteggeva gli stranieri.
l'Unità - 8.8.12
Bersani: serve un'alleanza larga dei progressisti - Maria Zegarelli
E pensare che solo qualche ora prima Pier Luigi Bersani aveva detto che di elezioni anticipate non se ne parlava e che l'agenda del suo partito per costruire il campo progressista procedeva come previsto: ieri l'incontro con il segretario socialista Riccardo Nencini, le lettere inviate ad associazioni e movimenti (oltre mille) con allegata la Carta d'intenti e gli appuntamenti già fissati per fine agosto. Poi, quell'intervista a Mario Monti sul Wall Street Journal e la frase sullo spread a 1200 se fosse rimasto Berlusconi, la bufera in Parlamento con il Pdl che minaccia di staccare la spina. Un altro giorno da brivido per la «strana maggioranza» appesa a umori e malumori del Pdl. E allora sarà anche per questo che il segretario Pd non perde tempo, che continua a chiedere di stringere i tempi sulla legge elettorale perché, come ha spiegato anche ieri, non sarà certo il suo partito a provocare il voto anticipato, ma non può garantire per gli altri, quindi è meglio essere pronti. Intanto Bersani incassa un altro ok, quello dei socialisti, alla Carta d'intenti. «L'incontro con Nencini è andato molto bene - dice - del resto stanno andando bene tutti gli incontri che stiamo avendo. L'obiettivo è un'alleanza larga dello schieramento progressista. Nei nostri incontri dico no al politicismo e mi preoccupo dei dati economici che anche oggi segnalano un'Italia in recessione e sono convinto che questa recessione avrà effetti anche sull'Europa». Positive, per il leader Pd, anche le parole di Pier Ferdinando Casini che sul Corriere della sera di ieri ha spiegato: «Nessuno ci può togliere dalla testa che uno sforzo di risanamento non può essere efficace senza il coinvolgimento attivo di quella metà del Paese che ha un grande insediamento nella società e nel mondo del lavoro». È vero che il leader centrista ha ribadito la necessità di una grande coalizione per governare la crisi che anche dopo Monti continuerà, ma Bersani guarda al bicchiere mezzo pieno: «Lui è europeista e noi abbiamo bisogno di una linea europeista. Poi, non sempre siamo d'accordo con quel che fa questo governo, ma sull'asse fondamentale di salvare l'Italia, c'è accordo». D'altra parte, continua, «io organizzo il campo dei progressisti. Non sto facendo un'alleanza io, Vendola e Casini. Non intendo che i progressisti, che possono vincerle queste elezioni, si chiudano nell'autosufficienza, voglio che stiano aperti e non facciano regali a posizione pericolose, a chi dice "torniamo alla lira" senza sapere che sta dicendo, o a chi dice non paghiamo i debiti». E ogni riferimento a Berlusconi e Grillo è voluto. E se con Casini il lavoro continua, mentre con Vendola «il discorso è positivo, abbiamo avvicinato le posizioni» su temi concreti dal lavoro ai diritti civili, all'impegno a ricomporre eventuali dissensi secondo la regola del voto di maggioranza nei gruppi parlamentari, con Antonio Di Pietro margini non ce ne sono. «Ha scelto un'altra strada, non è che posso tirarlo... D'altra parte è lui che mi ha descritto come uno zombie», ricorda Bersani. A chi gli chiede cosa farebbe se Monti alla fine della legislatura si schierasse con il centrosinistra dice che ammazzerebbe il vitello grasso. Se poi fosse Corrado Passera a fare outing? «Io di vitelli ne ho più di uno...». Ed è l'unica battuta ironica di questa giornata agostana, perché per il resto c'è poco da stare allegri. Le notizie sul Pil, la crisi Italia-Germania per la frase del premier sull'autonomia dei governi rispetto ai Parlamenti sulle politiche Ue, l'incidente diplomatico Monti-Berlusconi... «I dati di oggi sono molto preoccupanti per lo stato dell'economia reale - dice riferendosi a quel meno 2,5% di Pil - credo che balleremo ad agosto e anche a settembre», e comunque fino a quando in Europa non si compiranno passi certi che fermino la speculazione in corso ai danni dell'euro. Ma anche in Italia servono politiche di risanamento, la stessa spending review, che pure il Pd ha votato, ha cose che non vanno, che «dovranno essere riviste, e proporremo a Monti di intervenire già in autunno con la legge di stabilità». A chi ribadisce che l'agenda di Monti dovrà essere riproposta tal quale dal prossimo governo il segretario democratico sembra rispondere indirettamente: «La piattaforma dei progressisti vuole affrontare in modo diverso la crisi». Parole che sembrano dirette anche a Enrico Letta, secondo cui l'agenda Monti dovrà essere cemento del programma di progressisti e moderati. Quanto all'irritazione bipartisan provocata in Germania da quella frase sui parlamenti detta da Monti nel corso dell'intervista allo Spiegel, Bersani taglia corto: «Quella frase forse poteva essere detta meglio, ma sospetto che tutta questa indignazione in realtà nasconda un piccolo imbarazzo perché Monti ricorda che la Germania a noi non ha dato un euro, che il fatto che gli spread per noi siano così alti per la Germania è un bel vantaggio e che noi, per solidarietà a Irlanda, Grecia e Portogallo, in proporzione al Pil, abbiamo dato più di qualsiasi altro».
L'Spd vuole cambiare la Costituzione tedesca - Paolo Soldini
Un'assemblea costituente per cambiare la Costituzione della Repubblica federale e poi un referendum popolare per sancire i mutamenti. È la strada che il presidente della Spd Sigmar Gabriel indica per realizzare in Germania quello che quasi tutti dicono di volere e quasi nessuno sa come fare: contribuire alla costruzione di un'Unione europea politica. I mutamenti della Grundgesetz, la legge fondamentale della Repubblica, sarebbero necessari proprio per superare il grosso problema rappresentato dalla impossibilità attuale di decretare i cedimenti di sovranità che la costruzione dell'Unione politica comporterebbe. Gabriel ritiene, come una parte consistente e in crescita dell'establishment tedesco, che la costruzione dell'unità politica dell'Europa sia l'unica strada per uscire dalla crisi dell'euro. Solo essa, infatti, renderebbe accettabile per la Germania e i Paesi "virtuosi" in materia di bilancio suoi alleati forme di comunitarizzazione del debito pubblico: nell'ambito di una vera unione politica, infatti, le decisioni verrebbero prese insieme e non si porrebbe problemi di controlli esterni sui bilanci nazionali, di trojke, memorandum o simili. L'itinerario politico-istituzionale proposto da Gabriel rappresenta, in qualche modo, il "coté tedesco" di un progetto più generale di costruzione dell'Europa politica anch'esso basato su un'assemblea costituente eletta direttamente dai cittadini europei, secondo le linee tracciate il 3 agosto nell'articolo scritto per la Frankfurter Allgemeine Zeitung dai filosofi Jürgen Habermas e Julian Nida-Rümelin e dall'economista Peter Bofinger. I più ottimisti ritengono che all'assemblea costituente, oppure a una convenzione formata insieme da rappresentanti eletti direttamente dai cittadini europei e da rappresentanti dei parlamenti nazionali, si potrebbe arrivare già nella prossima legislatura del Parlamento europeo, che comincerà con le elezioni del 2014. Resta ora da vedere se lo "schema-Gabriel" è condiviso da tutto il suo partito. Le ipotesi di comunitarizzazione del debito, evocate dal presidente con un esplicito riferimento agli eurobond, sono oggetto di discussione all'interno della Spd e anche al suo vertice. All'indomani della riunione del consiglio della Bce che vide lo scontro tra Mario Draghi e il capo della Bundesbank Jens Weidmann, il capogruppo al Bundestag Franz-Walter Steinmeier si era espresso con una certa durezza contro l'ipotesi di acquisto di titoli dei Paesi in difficoltà da parte dell'istituto di Francoforte. È anche possibile pensare che la mossa del presidente sia in qualche modo ancorata al processo decisionale che deve portare, nei prossimi mesi, alla scelta del candidato socialdemocratico alla cancelleria per le elezioni dell'autunno dell'anno prossimo. Attualmente i possibili candidati sono gli stessi Gabriel e Steinmeier più l'ex ministro delle Finanze nella grosse Koalition Peer Steinbrück. Qualche osservatore non esclude una candidatura alternativa nella figura di Hannelore Kraft, la trionfatrice delle elezioni in Renania-Westfalia che ha indici di popolarità ancora più alti di quelli di Angela Merkel. Comunque sia, l'iniziativa di Gabriel, rivolta per ora alla Cdu e ai Verdi, ha suscitato in Germania l'interesse di molti economisti e anche di diversi esponenti politici. Contrario si è detto Volker Kauder, capogruppo cristiano-democratico al Bundestag. Favorevoli, invece, gli ambienti del federalismo europeo. Per Virgilio Dastoli, presidente europeo del movimento, quello di Gabriel è «un passo avanti, che potrebbe essere un prezioso stimolo per quanti si battono per il progresso verso l'unione politica dell'Europa nel segno della democrazia e della partecipazione dei cittadini».
Europa - 8.8.12
Spesa pubblica, tagliare si può - Pier Paolo Baretta
Il primo atto della spending review si è concluso. Ma non l'intera opera. La revisione della spesa pubblica, infatti, non finisce qui. Il provvedimento approvato ieri dalla camera era già il terzo (dopo la nomina del commissario e le dismissioni) e sono in cantiere altri importanti capitoli: agevolazioni fiscali; contributi pubblici; politica e associazioni. La efficacia di questo iter dipenderà dalla disponibilità reciproca di governo e parlamento a collaborare preventivamente e non solo a decreti varati. Ma la sua bontà, che segnerà il vero successo o l'insuccesso di questa stagione politica, dipenderà dalla capacità di tutti di rendere chiaro il disegno complessivo e gli obiettivi che si intendono raggiungere. Tagliare gli sprechi, infatti, è giusto. I cittadini, che stanno facendo pesanti sacrifici, chiedono - ed hanno diritto di farlo - che arrivino loro messaggi espliciti che si fa sul serio. E, finalmente, il governo ha cominciato. Contenere e razionalizzare la spesa pubblica non è solo giusto, ma assolutamente necessario. La crisi economica è grave, ed è urgente la necessità di recuperare risorse per abbassare il nostro debito pubblico, ma anche per attenuare l'impatto sociale. Vedi il caso degli esodati che, nonostante i positivi passi in avanti, non è ancora risolto! E, per favorire la crescita e gli investimenti è importante, in tal senso, la introduzione delle agevolazioni fiscali per la ricostruzione nelle aree terremotate. Servono, dunque, nuove ed ingenti risorse. Ma, la strada di agire sulle entrate è esaurita. Non si può più imporre agli italiani, almeno a quelli che le pagano, ulteriori tasse. La pressione fiscale è sin troppo alta e, semmai, è arrivato il momento di pensare alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro e l'impresa. Ecco, dunque, l'importanza di una buona revisione della spesa. In quest'ottica è significativa la scelta fatta di sostituire l'aumento dell'Iva con i tagli di spesa. La revisione e la razionalizzazione della spesa pubblica è, infatti, un obiettivo ambizioso, che interferisce con la diffusa rete di servizi pubblici che assicurano la risposta a bisogni essenziali della popolazione. Per questo non va assolutamente praticata la strada dei tagli lineari. Soprattutto quando parliamo di sanità e di patto per la salute, che rappresenta un pezzo forte della spending review. La spesa sanitaria è cresciuta molto in questi anni, ma, complessivamente, abbiamo una sanità che assicura standard internazionalmente invidiabili ed invidiati. Si proceda, dunque, al risanamento, ma si dimostri di essere capaci di distinguere, "rigorosamente", tra sprechi e servizi, tra virtuosi e viziosi. L'accordo con le regioni, chiamate alle loro responsabilità dalla produzione di dati certi e dettagliati, non è un limite alla decisione, ma una condizione di praticabilità dell'obiettivo. O, quando parliamo di enti locali, a cominciare dai comuni, così tartassati in questi anni ed intrappolati in un patto di stabilità che impedisce ai migliori di operare e deresponsabilizza i peggiori. In questo provvedimento si è operato un intervento calmieratore, ma sono le regole che non vanno. È arrivato il momento di modificare il patto. Molto delicata è anche la questione dell'università e della ricerca. Non servono molte parole a chiarire il concetto. Ieri, su Marte è sbarcata un po' di tecnologia italiana e una immagine di Leonardo. Pochi giorni fa le cronache, non solo scientifiche, si sono occupate del contributo italiano alla scoperta del bosone di Higgs. Ebbene, il tema è semplice: quale progetto abbiamo per il futuro del nostro paese. A quale livello competitivo lo vogliamo collocare nel mondo? E, di conseguenza, quanto intendiamo investire per la nostra scuola, per la educazione dei nostri giovani, per la loro specializzazione universitaria? Insomma, per il loro futuro? Negli anni la spesa pubblica è aumentata in quasi tutte le voci, salvo che nell'istruzione... Dovremo, anche nel campo della revisione della spesa, saper scegliere le nostre priorità... Abbiamo espresso, dunque, un voto favorevole, sincero ed onesto. Siamo convinti della importanza e della ineludibilità della strada da percorrere; della linea generale che il governo Monti porta avanti; ma, siamo anche in grado di affrontare lucidamente i problemi, rimuovere gli ostacoli ed apportare correzioni nella rotta da seguire. Da protagonisti e non da spettatori di questa importante fase di cambiamento e di riforme.
Un solo messaggio: discontinuità - Stefano Menichini
Poi arriva sempre la correzione, la specificazione, ieri anche la telefonata di rammarico. Nessuno però può dubitare che ci sia una linea precisa nella politica comunicativa di Mario Monti fuori dall'Italia. Non sarebbe scandaloso se ci fosse anche la malizia di colui che è riconosciuto come il leader europeo del momento e aspira magari a consolidare il ruolo per il futuro. L'importante è che i messaggi di Monti aiutino lo sforzo del paese. Per capirci (visto che si parla di Berlusconi): che facciano l'opposto dei danni catastrofici che la sbrindellata comunicazione berlusconiana causava fino al novembre scorso, e continua a causare. Fuori dall'Italia non sono tenuti a decifrare le convulsioni del Pdl. Per loro Berlusconi ha dichiarato di volersi ricandidare e dispone di un elettorato vasto: quando i suoi seguaci straparlano di uscita dall'euro, a Londra a New York e a Francoforte possono anche pensare che questa sia gente in grado di riprendersi il potere a Roma. Questa è, oltre confine, «l'incognita Italia» per il 2013. Il discorso di Monti è sempre teso a presentare un'Italia che rompe coi vizi del passato. Le parole - accompagnate dai fatti di otto mesi, quantificabili nell'avanzo primario più consistente dell'eurozona - si sforzano di ricostruire la fiducia internazionale verso di noi. Inevitabile che il messaggio finisca per contenere un giudizio negativo sull'ultimo governo: letto sul WSJ, è semplicemente la conferma della solida opinione che la business community ha maturato su Berlusconi. E a sinistra dovrebbero capire che se un colpo arriva anche dall'altra parte (contro i guasti del consociativismo), Monti sta solo completando il messaggio sulla necessaria discontinuità. Un messaggio che dovrebbe essere fatto proprio da coloro che hanno l'ambizione di governare e riformare dopo di lui. A parte il fatto che il consociativismo era stato pienamente assorbito dalla prassi berlusconiana, diventando solo ideologicamente selettivo nei partecipanti al tavolo. E c'è anche questo, in quei 1200 teorici punti di spread. Solo teorici per fortuna, ma non per caso.
Repubblica - 8.8.12
Caso Mancino-Quirinale, la Severino: "Non faremo una legge ad hoc" - Liana Milella
ROMA - Niente leggina ad hoc sul caso Palermo. Il Guardasigilli Severino non farà "concorrenza" alla Consulta cercando di trovare prima la soluzione per chiudere la querelle sulle intercettazioni Mancino-Napolitano. Il ministro della Giustizia non intende "scavalcare" la Corte. Toccherà agli alti giudici, già dal 19 settembre, esaminare il ricorso presentato dall'Avvocatura dello Stato a nome del Colle, pronunciarsi subito sulla sua ammissibilità e poi stabilire se, come dice il Guardasigilli, "quelle intercettazioni vanno immediatamente distrutte" oppure se "la normativa dev'essere integrata". Ma fino a quel momento - e con i tempi della Corte parliamo di mesi, fine 2012-inizio 2013 - di certo Paola Severino non proporrà un suo "lodo". Per certo il ministro si occuperà comunque di intercettazioni, tema caldissimo che il Pdl è intenzionato a riproporre a settembre. Nell'ultimo faccia a faccia con Severino il segretario del Pdl Alfano e l'avvocato Ghedini hanno posto un aut aut, o nuovo ddl della stessa Severino o il vecchio testo Alfano. Il nodo è la pubblicabilità degli ascolti. E c'è da credere che il Pdl sfrutterà, per insistere sulla necessità di una legge, anche sugli ultimi dati dell'Eurispes che ha rielaborato statistiche di via Arenula. Non ci sono grandi sorprese. Al 2010 risultano 181 milioni le utenze telefoniche sotto controllo, il 22,6% in più del 2006. Per prevenire il solito slogan della destra, tanto vale precisare subito che non si tratta di altrettante persone intercettate, ma di singole schede che possono appartenere, anche in numero cospicuo come avviene nel mondo criminale, alla stessa persona. Tra i dati Eurispes da segnalare quello dei costi, 284 milioni nel 2010 rispetto ai 266 di quattro anni fa. E qui bisogna ricordarsi che nella spending review c'è un taglio di 5 milioni proprio per le intercettazioni. Il distretto in cui si ascolta di più è Napoli, mentre Milano arretra, ma è la città dove si spende di più (oltre 39 milioni nel 2010). In media gli ascolti durano 50 giorni e per il 90% del totale riguardano i telefoni, residuale il dato delle ambientali (8,4%) e delle telematiche (1,6%). I dati rivelano anche che a Palermo le registrazioni sono in calo, mentre la procura è seconda per la spesa con i suoi quasi 35 milioni di euro. Un dato che non mancherà di essere messo in rilievo da chi contesta l'eccessivo ricorso agli ascolti, imprescindibile, peraltro, in una zona ad altissima densità mafiosa. E dove, per la seconda volta in pochi giorni dopo il caso del Pg di Caltanissetta Roberto Scarpinato, scoppia la polemica per via di una nuova iniziativa disciplinare del procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani, che sta verificando, attraverso il suo sostituto Mario Fresa, se il pm Nino Di Matteo è da punire per aver rilasciato un'intervista a Repubblica in cui parlava dell'inchiesta sulla trattativa. E con lui finisce nel mirino della Suprema corte anche il procuratore Francesco Messineo, che risponde dell'eventuale via libera all'intervista, reso obbligatorio dalla legge sull'ordinamento giudiziario. Dai due pm nessun commento. In compenso Di Matteo ha respinto la richiesta dei legali dell'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza, di stralcio della sua posizione. A Palermo la notizia dell'accertamento disciplinare è stata fortemente criticata. Il procuratore aggiunto e segretario dell'Anm Vittorio Teresi si dice "scandalizzato", definisce l'iniziativa "senza precedenti, un unicum assoluto, una vicenda inquietante e sinistra". La giunta palermitana del sindacato dei giudici sta pienamente dalla parte di Messineo e Di Matteo.
Strage nel tempio sikh. I mille volti del killer - Paolo Gallori
Wade Michael Page era un militare, espulso dall'esercito per ubriachezza, e un musicista hardcore ispirato dal suprematismo bianco. L'equazione è quasi obbligata, immediata la deduzione investigativa che riconduce all'odio razzista l'irruzione di domenica scorsa 1, pistola alla mano, di quel 40enne rasato e tatuato nel tempio sikh di Oak Creek, periferia di Milwaukee, Wisconsin. Gli spari, sei persone uccise in nome della razza, prima che la polizia fermi Page uccidendolo. L'affresco sembra completo, eppure gli inquirenti non sono convinti al punto di chiudere il caso fissando quel movente nella storia criminale degli Usa. Incertezza perfettamente sintetizzata dal locale capo della polizia, John Edwards: "Le ragioni di un simile gesto potrebbero anche non emergere mai con certezza. Abbiamo tante informazioni da decifrare e da ordinare, prima di poter sciogliere le nostre riserve e dire perché è accaduto tutto questo. Ammesso che ci riusciamo". Il profilo dello sparatore al momento è un puzzle. La visione d'insieme sembra rivelare un'immagine piuttosto chiara, ma le tessere mancanti potrebbero celare dettagli in grado di confermare o ribaltare quel quadro. Nessuna testimonianza avvalora l'idea che Page fosse un fanatico esaltato. Manca una rivendicazione, un manifesto, una chiara dichiarazione d'intenti. E durante la sparatoria, Page non ha proferito parola. Chi lo conosceva, descrive Wade Michael Page come una persona calma, tranquilla. "Non sembrava il tipo che alza la voce", dichiara oggi Kurt Weins, che ha affittato a Page l'appartamento dove viveva a Cudahy, cittadina alle porte di Milwaukee, a 5,4 miglia dal tempio sikh. "Stava tutto il giorno in camera e declinava ogni invito a guardare assieme al tv". A Denver, una donna piange disperatamente Page. E' la matrigna, Laura, 67 anni, che sposò Jesse Page quando Wade aveva 10 anni e divorziò da suo padre nel 2001. "Era un caro ragazzino. Ed è a quel piccolo tesoro che il mio pensiero torna di continuo". Sebbene Page fosse un assiduo frequentatore dei forum neonazi, gli inquirenti non hanno rilevato nei suoi post toni carichi di quell'odio con cui si vorrebbe spiegare la sparatoria di Oak Creek. Dai suoi scritti e dalle interviste rilasciate in veste di musicista, si rileva che l'uomo era certamente un suprematista bianco, che descriveva se stesso come membro della "Hammerskins Nation", gruppo oltranzista radicato in Texas, con ramificazioni in Australia e Canada. I suoi interventi in Rete erano soprattutto esortazioni all'azione in nome dei valori in cui credeva. Non a caso, la band harcore da lui formata nel 2005 si chiamava End Apathy, fine dell'apatia. Una band mai esplosa, eppure apprezzata nell'ambiente hardcore, nel curriculum i 7'' pubblicati per l'etichetta Label 56 (smarcatasi dalla vicenda con un comunicato) 3, canzoni dai titoli tipicamente "forti" come Self Destruct, un profilo su MySpace scomparso solo 48 ore dopo la strage del tempio. Un power trio di cui Page era cantante, chitarrista, autore e leader, veste in cui nel 2010 rilasciò un'intervista che conferma la sensazione di un uomo fortemente motivato ma anche lucido e riflessivo. "Il progetto è totalmente mio - raccontava -. Ispirato dalla frustrazione derivante dal sapere che abbiamo il potenziale per ottenere molto di più, come individui e come società". Sui temi affrontati nelle canzoni, Page spiegava: "Variano, da quelli sociologici a quelli religiosi. Soprattutto, su quanto il valore della vita umana sia degradato dalla sottomissione alla tirannia e all'ipocrisia a cui siamo stati soggiogati". Del suo coinvolgimento nel "white power", Page raccontava: "Sono originario del Colorado e sono sempre stato un uomo indipendente. Ma nel 2000 sentii il desiderio di farmi coinvolgere, di partire. Così, vendetti tutto tranne la mia moto e quanto potevo stipare in uno zaino. E attraversai il Paese, visitando amici e andando ai festival e ai concerti. All'Hammerfest in Georgia, poi in North Carolina, su in Ohio, poi giù in West Virginia, fino in California, dove mi unii agli Youngland (la sua prima band, ndr)". Chi si attendeva di trovare invettive xenofobe e parole di fuoco sarà rimasto deluso. Ma se il metro di giudizio fosse la pura esaltazione, quante band coi dischi marchiati dal "parental advisory" andrebbero indagate dal Fbi? Forse bisogna leggere tra le righe, tra l'idea di "azione", di "miglioramento individuale e sociale", per cercare uno spiraglio da cui guardare nella mente di Page. La saggezza popolare rassicura sul cane che abbaia senza mordere, mentre invita a diffidare dei fiumi troppo tranquilli. Ma la messa a fuoco continua a non essere delle migliori. Si passa allora all'altro tratto sostanziale della vita di Page, la carriera militare. Ventenne, Wade entrò nell'esercito a Milwaukee nel 1992. Inizialmente come riparatore del sistema missilistico Hawk, in seguito specialista della guerra psicologica, assegnato a un battaglione di Fort Bragg, North Carolina. A Page fu insegnato come tenere incontri pubblici tra le forze americane e le popolazioni locali, come fare volantinaggio nelle zone di conflitto, come usare gli altoparlanti per comunicare con i nemici. Ma non fu mai impiegato in missioni all'estero, spiega il portavoce dell'esercito George Wright. Fonti anonime sono più generose di dettagli. Page, raccontano, fu congedato nel 1998, senza possibilità di reintegro, dopo essere stato trovato ubriaco mentre era in servizio e per essersi assentato senza licenza. Per punizione, Page dovette scontare giorni di rigore e pagare una multa. E' da quel momento che la vita di Page cambia, nel giro di due anni il soldato specialista si trasforma in un musicista "white power" in giro per la provincia Usa con la mappa dei concerti e dei raduni. Prima di domenica scorsa, la polizia della periferia di Milwaukee non aveva mai avuto a che fare con Page, nessun precedente nei suoi registri, nessuna indicazione di quanto fuoco stesse covando sotto la cenere. Negli altri Stati, invece, Page ha lasciato qualche traccia, piccoli precedenti per rissa a El Paso, Texas, nel 1994, guida in stato di ubriachezza nel 1999 in Colorado, ancora un arresto nel 2010 per sospetta guida sotto effetto di alcol in North Carolina, con tanto di uscita di strada. Finché, domenica 5 agosto 2012, Page esce di casa con una pistola calibro 9, detenuta legalmente, e attacca il tempio sikh di Oak Creek. Tra i mille tatuaggi che ornano il suo corpo, i testimoni ne individuano uno in particolare: "9/11", l'11 settembre dell'attacco all'America. E il cerchio sembra chiudersi. Scambiati per musulmani o arabi per via dei loro turbanti, dal 2001 gli indiani della comunità sikh negli Usa sono stati più volte al centro di episodi di intolleranza anti-islamica. Almeno 700 gli incidenti registrati dalla Sikh Coalition, con sede a New York. La statistica sa essere molto persuasiva e corrobora l'inchiesta dei federali su una vicenda di "terrorismo domestico". Ma anche la forza dei numeri non offre loro risposta certa alla domanda ultima: perché?
Corsera - 8.8.12
Il lusso dei parlamentari, un mese di ferie - Antonio Castaldo
Secondo le stime di Federalberghi, quest'anno sei italiani su dieci non faranno vacanze. Non va così per i deputati, che vanno in ferie oggi (7 agosto) e, salvo sorprese, ci resteranno fino a mercoledì 5 settembre. Va ancora meglio ai senatori, che potranno godersi il riposo fino al 6. Un intero mese di ferie, per molti «comuni mortali» in tempo di crisi è un lusso. IN PREALLERTA - I presidenti di Camera e Senato pretendono però la «reperibilità» dfi deputati e senatori , che dovranno essere pronti a rientrare in caso di emergenza. «La Camera potrà riunirsi, se necessario, anche nel mese di agosto - ha spiegato Fini - per l'esame di questioni urgenti o per la presentazione di decreti legge, specie per quanto riguarda le questioni legate alla crisi economica e finanziaria». Anche Renato Schifani, per quanto riguarda il Senato, ha tenuto a precisare che l'aula «potrà essere convocata in qualsiasi momento per i provvedimenti che rivestono particolare carattere d'urgenza, specie in relazione alla situazione economica». LE COMMISSIONI - Il lavoro delle commissioni dovrebbe ricominciare lunedì 3 settembre. L'aula invece riaprirà due giorni dopo con il question time. Stesso discorso anche per il Senato, che ha già concluso l'attività e che resterà chiuso fino al 4 settembre, giorno in cui torneranno a riunirsi le commissioni, salvo alcune eccezioni. L'aula, invece, è convocata per giovedì 6 settembre, ma solo per interrogazioni e interpellanze; la prima seduta reale, quindi, sarà soltanto martedì 11 settembre.
Legge antisprechi, punto per punto
Tagli alla spesa pubblica che toccano, tra l'altro, ospedali, statali e province. Con il via libera definitivo da parte della Camera diventa legge la 'cura dimagrante' dello Stato che consentirà di evitare l'aumento dell'Iva ad ottobre, ma anche di ampliare le tutele ad altri 55.000 esodati, e di aiutare i comuni colpiti dal sisma dell'Emilia. Un intervento non solo di tagli, ma anche di aggravi fiscali, dall'Irpef di 8 regioni con i conti in rosso per la sanità alle università. Ecco le misure principali. STOP AUMENTO IVA - Il temuto aumento dal prossimo ottobre di un punto delle due aliquote dell'10% e del 21% slitta a luglio 2013. Costa 3,28 miliardi nel 2012. ESODATI - Altri 55.000 privi sia di lavoro che di pensione potranno accdere a questa con le vecchie regole. SISMA EMILIA - Arrivano risorse per 6 miliardi per le zonec colpite dal sisma nell'Emilia. Possibilità per i comuni e per il commissariato regionale di fare assunzioni a tempo determinato per affrontare le emergenze. Risorse anche per l'Abruzzo (23 milioni) per la raccolta dei rifiuti. PROVINCE - Saranno «riordinate» in modo da averne solo con almeno 350.000 abitanti e un territorio di 2.500 chilometri quadrati. Avranno per il 2012 un contributo di 100 milioni per la riduzione del debito. ORGANICI P.A. - riduzione del 20% dei dirigenti pubblici, -10% del personale non dirigente. Buono pasto non oltre 7 euro. OSPEDALI - Entro novembre le Regioni dovranno tagliare circa 7mila posti letto arrivando a 3,7 ogni 1000 abitanti (oggi è 4). Tagli anche alle remunerazioni che ricevono i convenzionati. ADDIZIONALE IRPEF - Le 8 regioni in disavanzo sanitario (Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) potranno anticipare al 2013 la maggiorazione dell'addizionale regionale Irpef, dallo 0,5% all'1,1%. TASSE UNIVERSITARIE - Aumentano quelle per gli studenti fuori corso: +25% per redditi sotto 90.000 euro, +100% oltre 150.000 euro. Stop aumenti per chi è in regola e sotto i 40.000 euro. MINISTERI - Risparmi di 1,7 mld nel 2013,1,5 nel 2014 e 2015. REGIONI - sforbiciata ai trasferimenti: -700 milioni nel 2012; - un miliardo i successivi due anni. TAGLI ACQUISTI P.A - Le amministrazioni centrali dovranno ridurre dall'anno in corso le spese per acquisti di beni e servizi. Tra i tagli, 5 milioni in meno per le intercettazioni. PREFETTURE - Risparmi dagli uffici statali sul territorio. Accorpati nelle Prefetture. AUTO BLU - tutte le amministrazioni, compresa Bankitalia, taglieranno la spesa del 50%. SCUOLA - Dal prossimo anno le iscrizioni alle scuole statali avverranno solo on line; pagelle, registri e comunicazioni alle famiglie e agli alunni saranno in formato elettronico. ENTI SOPPRESSI - Prima tagliati, poi salvati: tra loro il Centro sperimentale di cinematografia e la Cineteca nazionale. 800 MLN A COMUNI - Arrivano attraverso le Regioni. Le risorse verranno prese da quelle destinate ai Comuni virtuosi (300 mln) e ai rimborsi fiscali (500). VIA FARMACI GRIFFATI - Nella ricetta dopo la prima diagnosi va indicato il principio attivo del farmaco. Il medico può indicare anche la marca, accompagnata da spiegazione, che diventa vincolante per i farmacisti. FARMACIE - Gli sconti a carico delle farmacie vengono fissati al 2,25, mentre quelli a carico delle aziende al 4,1% per l'anno in corso. Dal 2013 arriverà il nuovo «sistema di remunerazione della filiera». STIPENDI MANAGER - Tetto di 300.000 euro per la retribuzione a manager e dipendenti delle aziende partecipate dallo Stato, non quotate, Rai compresa. Ma dal prossimo contratto. CITTÀ METROPOLITANE - Arriva una Conferenza in ciascuna delle dieci province trasformate in Città metropolitane. SOCIETÀ IN HOUSE - Saranno chiuse ma non automaticamente. Regioni, Province e Comuni non saranno obbligate a sopprimere o accorpare i propri enti ed agenzie, a patto che realizzino un risparmio del 20% per la loro gestione. CARABINIERI E GDF - Dal primo gennaio 2013 sono rideterminati gli organici degli ufficiali di ciascuna forza armata ed è ridotto il numero delle promozioni, esclusi Carabinieri, Gdf, Capitanerie di porto e Polizia penitenziaria. MINISTERI INTERNI E ESTERI - Sei mesi in più per la riduzione dei dirigenti e del personale sia per il personale dell'amministrazione civile dell'Interno sia per i diplomatici in servizio all'estero del ministero degli Affari esteri. AFFITTI UFFICI PA - Slitta di due anni l'obbligo del taglio del 15% degli affitti per immobili in uso alle amministrazioni. CASE ENTI- Gli inquilini che vogliono comprare la casa dell'ente previdenziale in cui abitano hanno un tempo che non può essere inferiore a 120 giorni dal ricevimento dell'offerta. PENSIONI PROF - Gli insegnanti che entro il 31 agosto di quest'anno matureranno i requisiti per andare in pensione dal 1 settembre 2013 vanno in pensione con regole pre-Fornero. INDENNITÀ PROFESSORI UNIVERSITARI - Stop al trascinamento di indennità per i professori universitari che, dopo un incarico in un ente o in una istituzione, tornano ad insegnare. MULTE SCIOPERI SERVIZI PUBBLICI - Raddoppiano, nel passaggio dalle vecchie lire all'euro, le sanzioni comminate dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. CONSIP - Le amministrazioni pubbliche potranno fare i loro approvvigionamenti di energia, gas, carburanti e telefonia anche al di fuori delle convenzioni Consip a condizione che siano previsti corrispettivi inferiori a quelli indicati.
La Stampa - 8.8.12
Il professore parla ai mercati non ai politici - Marcello Sorgi
All'inizio dell'agosto più temuto degli ultimi anni, per i frequenti rovesci dell'Italia sui mercati, un caso politico come quello che s'è aperto ieri tra Monti e il centrodestra non era proprio da augurarsi. L'intervista in cui il premier ha detto tra l'altro che, senza il passaggio di discontinuità tra il suo governo e quello precedente, lo spread sarebbe arrivato a quota 1200, ha provocato reazioni di protesta del Pdl, che al Senato ha fatto mancare il suo appoggio. E ha reso necessaria una telefonata di chiarimento tra lo stesso premier e Berlusconi, preceduta da una nota in cui Palazzo Chigi spiegava che non c'era alcuna intenzione di attaccare il Cavaliere. Ma al di là del nervosismo, sempre presente, nella base parlamentare e in parte del gruppo dirigente del Pdl nei confronti del Professore, un interrogativo ieri è rimasto a lungo sospeso. Nel clima rarefatto della conclusione dei lavori parlamentari e nell'attesa di una pausa feriale che praticamente non ci sarà, la domanda è cosa ha spinto Monti, nel giro di pochi giorni, a rendere più accidentato del solito il cammino del suo governo con due interviste consecutive come quelle a «Der Spiegel» e al «Wall Street Journal». Interviste importanti e piene di cose, perché Monti ha un suo personale codice di comunicazione, e se sceglie di parlare raramente si occupa di questioni contingenti. Ma che tuttavia, seppure in parte contro la sua volontà, hanno determinato reazioni pesanti, costringendo il presidente del Consiglio a correre ai ripari. Ieri appunto nei corridoi parlamentari, dove fioriscono spesso fantasiosi retroscena, c'era chi attribuiva quelli che a molti occhi politici consumati sono apparsi come infortuni alla stanchezza del premier e alle fatiche che ha dovuto affrontare negli ultimi tempi, tra inevitabili scadenze parlamentari indispensabili per tradurre in realtà la strategia anti-crisi del governo, road-show europei e internazionali per spiegare ad osservatori qualificati il senso del suo lavoro e delusioni per i risultati avari ottenuti finora sul fronte dei mercati, su cui l'Italia da quasi un anno sta combattendo la sua battaglia. È una spiegazione diffusa ma poco convincente, che tende ad assimilare Monti a tutti i governi che lo hanno preceduto e dei quali, con lo stesso cinismo, con la stessa approssimazione, a un certo punto s'è cominciato a dire che erano «cotti». La verità è che il premier ha detto quel che ha detto nelle sue interviste per ragioni esattamente opposte. Per capirlo bisogna considerare che Monti, sia quando parla alla Camera e al Senato, sia quando si trova all'estero, ha davanti a sé lo stesso orizzonte. Un orizzonte non solo nazionale, ma europeo e in qualche modo globale, dato che non gli sfuggono, ed anzi gli sono costantemente presenti, le dimensioni e i risvolti della crisi economica mondiale. E all'interno del quale, a dispetto di quel che appare, l'Italia da qualche mese grazie ai suoi sforzi è guardata con rispetto e considerazione che non si vedevano da tempo. È a questo nuovo atteggiamento - meno esplicito, meno emergente spesso dell'immagine negativa che il Paese si porta dietro che Monti guarda, cercando di corrispondervi. È questo il motivo per cui insiste sul necessario «cambio di mentalità» degli italiani. Se ne ricava che quando parla a un giornale o a una tv, stranieri o italiani, Monti segue un suo filo di ragionamento e non si preoccupa delle conseguenze che le sue affermazioni possono provocare ai margini del sistema politico. Vale per la Germania, nel senso che non lo hanno preoccupato i toni elettorali anti-italiani di alcuni politici tedeschi, mentre ha accolto con soddisfazione il gradimento della Merkel alle sue parole su «Der Spiegel». E vale anche per l'Italia. Non solo perché era evidente che i destinatari dell'intervista al «WSJ» non erano i senatori del centrodestra, ma i lettori più attenti dell'autorevole giornale finanziario americano (che non a caso ha presentato l'articolo con l'aggiunta di una serie di analisi e di pareri sul nuovo corso italiano). Piuttosto perché nessuno, a cominciare dagli esponenti del Pdl che lo hanno attaccato, può seriamente dubitare che Monti, per risultare più credibile, debba ricorrere all'antiberlusconismo. Argomenti del genere, semplicemente, non gli appartengono e neppure lo interessano. Li lascia volentieri ai politici che li usano tutti i giorni nella loro campagna elettorale. Ma se ritiene di dover dire che senza il cambio di governo lo spread sarebbe peggiorato, lo dice e basta. Perché pensa, e vuol far capire in tutte le occasioni possibili, che accanto all'Italia che non vuol fare il proprio dovere e ha nostalgia di un passato irripetibile, ce n'è un'altra che a furia di sacrifici sta venendo fuori. La sua Italia, l'Italia di Monti.
Spending review, a settembre parte la fase due - Rosaria Talarico
ROMA - La spending review non va in vacanza. Anzi, diventata legge con il passaggio di ieri alla Camera, la pausa estiva servirà solo a riorganizzare le idee in attesa della ripresa. Idee che già venerdì nel prossimo consiglio dei ministri potrebbero trovare, almeno dal punto di vista della discussione, una forma più definita. Non è un caso, infatti, che per quella riunione i titolari dei diversi dicasteri potrebbero presentarsi con sotto braccio i faldoni con i nuovi tagli, così come richiesto dal premier Mario Monti. Archiviata, infatti, la la prima fase della spending review, a settembre si partirà con la seconda revisione di spesa che prevede, tra l'altro, l'abbattimento dei costi per tre grandi centri di spesa: le province, gli organici della pubblica amministrazione e la centralizzazione degli acquisti pubblici. E proprio sul fronte del pubblico impiego si consumerà, infatti, una prima battaglia che si preannuncia aspra con i sindacati. Cgil e Uil hanno già in agenda uno sciopero per il 28 settembre. I tagli previsti riguarderanno almeno 24 mila dipendenti pubblici (tra amministrazione statale ed enti territoriali). È prevista inoltre una riduzione del 20% dei dirigenti pubblici e del 10% del personale non dirigente. Mentre il tetto massimo per i buoni pasto è fissato a 7 euro. Il taglio dei dipendenti avrà luogo non prima del prossimo 31 ottobre, quando la presidenza del consiglio predisporrà gli appositi decreti. Uniche eccezioni (ma solo a livello di tempi, che saranno più lunghi) per il ministero degli Interni, della Difesa e degli Esteri. Per quanto riguarda la sanità, entro novembre le Regioni dovranno tagliare circa 7mila posti letto arrivando a 3,7 ogni 1000 abitanti (oggi siamo a 4). E ci saranno tagli anche alle remunerazioni che ricevono i convenzionati. Tra le misure di contenimento della spesa, la riduzione delle province è uno dei provvedimenti che più ha fatto discutere. Saranno «riordinate» e potranno continuare ad esistere solo quelle che risponderanno a queste caratteristiche: almeno 350.000 abitanti e un territorio di 2.500 chilometri quadrati. Per la riduzione del debito, avranno quest'anno un contributo di 100 milioni di euro. Altra consistente sforbiciata riguarderà i trasferimenti alle regioni: meno 700 milioni durante il 2012, che diventeranno un miliardo i successivi due anni. Le amministrazioni centrali dovranno inoltre ridurre dall'anno in corso le spese per acquisti di beni e servizi. E per questo dovrà partire la piattaforma Consip che permette la centralizzazione degli acquisti. E, come si augura Enrico Bondi, commissario straordinario per la spesa pubblica, dovranno essere definiti i costi standard. Secondo i calcoli, i risparmi attesi a regime saranno nell'ordine dei 10 miliardi di euro. Tra i tagli, ci saranno anche 5 milioni in meno per le intercettazioni telefoniche. Il nodo più complicato da sciogliere resta quello del taglio dei dipendenti pubblici, nonostante il ministro per la Semplificazione, Filippo Patroni Griffi abbia puntato sugli effetti positivi della misura: «da una parte, una diminuzione della spesa e, dall'altra, consentirà nuove assunzioni mirate sui giovani e per le carriere direttive». Per il governo insomma l'agenda per il rientro del 25 agosto (quando finirà la pausa estiva dell'esecutivo) è già fitta di impegni. Con un obiettivo primo fra tutti: la riduzione del debito pubblico. Un progetto che potrebbe incrociarsi su due percorsi: i tagli affidati al lavoro di Giavazzi e quelli dell'ex premier Amato, ma anche e soprattutto con la dimissione del patrimonio immobiliare pubblico. Di questo parlerà Monti anche con il segretario del Pdl Alfano e su questo convergono le ipotesi di cessione alla Cassa depositi e presti di alcuni gioielli di Stato.
Chi ha cambiato pelle riesce a battere anche i cinesi - Marco Alfieri
MILANO - «Chiampo Valley», dove prima c'era il classico distretto. Ricerca applicata per dare continuità all'intuizione dell'imprenditore, filiera «green» dietro alla battistrada Fiamm che ha sviluppato le innovative batterie al sale, un progetto di banda ultralarga per tutta la vallata, piani di finanziamento d'impresa con fondi di private equity e riqualificazione geo-ambientale. Nell'estate calda dello spread e del profondo rosso industriale, bisogna attaccarsi ai segnali deboli per vedere un po' di luce in fondo al tunnel. Arzignano da quarant'anni è il polo mondiale della concia per calzature e arredamento. Un territorio stretto nei 20 chilometri che separano Montebello da Chiampo punteggiato di concerie grandi e piccole, botteghe artigiane e indotto diffuso, che vale ancora il 35% della produzione europea di pellame ma che il crollo della domanda di arredamento imbottito di fascia media sta costringendo a reinventarsi. «Per decenni - spiegano dalla Cgil locale - questa è stata una specie di valle dell'oro: stipendi generosi per tutti e profitti per gli imprenditori. La ricchezza era palpabile. La potevi vedere nelle case, nelle ville, nel territorio». Un eldorado piegato dalla concorrenza asiatica, dalla crisi mondiale e da frodi fiscali e scandali scoperchiati negli ultimi anni. Un «vizietto» incubato fin dagli anni Sessanta, quando Arzignano era ancora zona depressa: prima dell'esplosione di concerie (primi anni Ottanta) e della corsa degli operai ad uscire dalle aziende più grandi per farsi a loro volta padroncini, con lo zelo tipico della cultura contadina. Sabati e domeniche in fabbrica: niente turni, esistono solo straordinari. Il «nero» nasce così, dal fuori busta che diventa la «droga» per stare dietro alla produzione. Il Bengodi continua fino all'introduzione dell'euro. Senza più svalutazioni competitive, le aziende sono costrette ad abbassare i costi: alcune usano il trucco di «inventarsi» risorse, fino alla deriva ultima delle «cartiere», costruite da professionisti delle false fatturazioni. Un danno d'immagine tremendo. Per tutti i primi anni duemila, la produzione ad Arzignano continua a crescere insieme ai fatturati. Quel che cala sono gli utili. «Il 2003-2004 è stato l'anno di maggior produzione - ammette un grosso industriale della zona - ma dal punto di vista dei risultati è stato uno dei peggiori. Sottopelle le aziende continuavano ad indebitarsi per gli effetti di una scarsa capitalizzazione». Il tallone d'Achille del nostro capitalismo. La crisi insomma è già incorporata in un distretto che vive una concorrenza interna fortissima sul prezzo. Si cerca di offrire la merce ad un centesimo meno del tuo vicino, scatenando cannibalismi. A quel punto arriva la recessione mondiale: crollano fatturati (-35%), chiudono imprese (-200), duemila appartamenti vengono messi in vendita o passano a banche e finanziarie per mutui protestati e molti immigrati (il 20% della popolazione di Arzignano è extracomunitaria) sono costretti a rimandare a casa le proprie famiglie e tornare a vivere sotto uno stesso tetto in 4-5, come all'inizio. Eppure dietro allo sboom e agli scandali il distretto piano piano si diversifica: la chimica e la metalmeccanica si affiancano alla concia, preponderante ma oggi "solo" il 35% del comparto Arzignano-Montecchio; la platea industriale dimagrisce ma si densifica attorno ai grandi gruppi del territorio; Dani, Rino Mastrotto Group e Conceria Montebello avviano le certificazioni ambientali Epd per la produzione di pelle «green»; e si investe in tecnologia, depurazione delle acque e degli scarichi aeriformi, formazione tecnico-professionale e nuovi mercati come quello indiano. In questo modo Arzignano riesce a tenere le stesse quote di mercato del 2005 nonostante 3.500 addetti e 200 imprese in meno, segno che è in corso una razionalizzazione virtuosa. Nel 2011 torna a soffiare anche l'export (1,7 miliardi di euro, +14,4% rispetto al 2010). Nel primo trimestre 2012 la crescita rallenta, causa frenata della domanda di beni intermedi nei paesi Brics, ma il riposizionamento sta gradualmente avvenendo. Arzignano indica così la rotta per la nostra manifattura al tempo dello spread, se si vuol competere sui mercati globali. E, soprattutto, tornare a crescere.
Specie aliene, un flagello mondiale: danni ovunque per miliardi di dollari
Lorenzo Cairoli
Il governo americano ha calcolato che, tra il 1906 e il 1991, 79 specie non indigene - tra cui la falena gitana europea e il moscerino della frutta mediterraneo - hanno causato danni alla nazione per 97 miliardi di dollari, ossia circa un miliardo di dollari l'anno. Recentemente un rapporto redatto da un gruppo di ricercatori della Cornell University ha alzato la stima a ben 138 miliardi di dollari. Qualche esempio. La formica rossa sudamericana costa al solo Texas mezzo miliardo di dollari l'anno, danni compresi e costi di prevenzione e di controllo. Cinque miliardi di dollari all'anno se ne vanno per bonificare e controllare la dreissena, un mollusco europeo delle dimensioni di un'arachide, che tappezza il fondale dei Grandi Laghi e che adesso regna sovrano anche nel Mississippi, dove fa strage di plancton necessario alla sopravvivenza delle altre specie acquatiche. L'afide russo del grano costa agli americani 173 milioni di dollari l'anno. 10 milioni di dollari invece la lampreda di mare, anche lei, come la dreissena, arroccatasi nei Grandi Laghi. Malattie introdotte che colpiscono tappeti erbosi, giardini e prati da golf, 2 miliardi di dollari. Bivalvi che danneggiano le navi, 200 milioni di dollari. Controllo e ricerche sul serpente arboreo bruno di Guam che oggi infesta Honolulu e le Hawaii, sei milioni di dollari. La natura sta entrando in una nuova era - l'Homogecene, in cui la maggior minaccia alla diversità biologica non è più costituita da bulldozer e pesticidi, ma, in un certo senso, dalla natura stessa. Scrive Alan Burdick in "Out of eden", edito in Italia dalla torinese Codice : "Una strisciante omogeneizzazione ci minaccia e si consolida man mano che le specie introdotte si insinuano nella struttura darwiniana e gradualmente, quasi impercettibilmente, la soppiantano. gli invasori arrivano sotto forma di semi, spore, larve: ungulati a quattro zampe che si aggirano a piede libero. Essi arrivano dentro o sopra gabbie, nei container trasportati dai cargo e all'interno dell'acqua che le navi trasportano come zavorra per controbilanciare il peso del carico. I pesci si sono diffusi tramite l'apertura dei canali, le piante lungo le massicciate dei binari, le spugne sulla parte sommersa delle navi. Decine di migliaia di specie - la maggior parte delle quali appartenenti alla fauna, escludendo gli insetti - possono essere e sono legalmente importate via posta negli Stati Uniti". Le carpe asiatiche giganti, introdotte negli Anni Settanta per contrastare la proliferazione delle alghe, saltano furtivamente sui pescherecci lungo il corso del Mississippi. E se pensate sia la solita bufala ambientalista, bèh, avete preso una cantonata colossale. E lo dimostra il fatto che Obama, nonostante la sconfitta in Massachusetts, in uno dei momenti più drammatici della sua presidenza, abbia convocato un vertice coi Governatori dei Grandi Laghi. L'invasione delle carpe giganti rischiava di devastare irreparabilmente l'industria della pesca e l'ecosistema della regione. E i genieri dell'esercito americano non sapevano più come arginarne la loro infestazione. New York è multietnica anche nella flora e nella fauna. Qui davvero si trova di tutto. Adesso hanno scoperto di avere in casa persino lo scarabeo lungo-cornuto asiatico: addetti della protezione dell'ambiente lo stanno monitorando, dopo i disastri che ha causato nell'area di Brooklyn con conseguente abbattimento di un gran numero di aceri. Dopo i primi casi di infestazione a Central Park, i ricercatori stanno sperimentando l'uso di un macchinario simile a uno stetoscopio che permette di percepire il suono della masticazione delle larve di scarabeo all'interno delle piante. Nella Florida del sud, epicentro del commercio nazionale degli animali, l'addetto locale alla cattura degli animali è protagonista, ogni mattina, di avvincenti safari metropolitani a caccia ora di nandù, di puma, di leoni, e una volta persino di un bisonte sulla superstrada. Sul suo biglietto da visita, campeggia una foto in cui è ritratto con tre amici che srotolano un pitone indonesiano di sette metri la cui tana era sotto una casa e un asilo alla periferia di Miami. Gli invasori sono un esercito: gli animali domestici fuggono, pesci d'acquario e piante di serra dilagano con conseguenze devastanti, gli insetti arrivano nascosti tra le foglie di piante in vaso esotiche. Lo xenopo liscio, un anfibio molto adattabile e onnivoro, venne importato a cavallo tra gli Anni Quaranta e Cinquanta per essere utilizzato come test di gravidanza - infatti quando vi viene iniettata l'urina di una donna incinta la rana inizia a produrre le sue uova, che è un chiaro segno rivelatore. Tuttavia, le abitudini riproduttive dell'anfibio non furono attentamente monitorate, e nel 1969 si scoprì che avevano creato un'enorme colonia selvatica in California voracissima predatrice di giovani trote. Ma guai a pensare che il fenomeno sia circoscritto alla sola America. Chi naviga in rete non farà fatica ad approdare in siti come Global Invasive Species Database o Aliens, che a tutti i suoi abbonati mette a disposizione aggiornatissime newsletter sui corvi indiani a Zanzibar, sulle formiche argentine in Nuova Zelanda, sulla stella marina del Pacifico settentrionale in Tasmania. L'Australia, dopo le devastazioni terrestri di conigli, cani, gatti, cammelli e serpenti velenosi introdotti sul suo territorio, deve fare i conti con una nuova nemesi, il granchio verde europeo, un crostaceo predatore che sta mettendo in ginocchio la nascente industria nazionale dei molluschi e che è inoltre ospite di un plancton unicellulare tossico che, una volta ingerito dagli uomini che si sono nutriti di crostacei, provoca sgradevoli crisi respiratorie, in alcuni casi addirittura fatali. L'Italia è in guerra col proliferare dello scoiattolo grigio americano che ha rimpiazzato quello rosso autoctono e col voracissimo pesce pilota che nelle acque del Po ha fatto tabula rasa degli altri pesci come il testa di serpente nei fiumi e nei laghi americani. Persino i fringuelli di Darwin sono a rischio. Recentemente uno staff di scienziati ha scoperto che i loro nidi nelle Galàpagos sono infestati dalle larve di una mosca parassita esotica. Di notte le larve emergono e, come dei vampiri, succhiano il sangue della nidiata, arrivando a uccidere un pulcino su sei. Qui in Colombia l'incubo è il pesce leone che ha invaso il Caribe Colombiano peggio di una pandilla, gettando tutti gli albergatori nel panico. Avvistamenti di banchi di pesce leone si segnalano su tutta la costa, da Cartagena alla Guajira. Io stesso, facendo snorkeling, vicino a Barù, ne ho visti tre fluttuare vicinissimi alla riva. In Cile, non molto lontano dall'Isla Grande de Chiloé, sull'Isola di Navarino e nella Tierra del Fuego, da anni è in atto un'invasione che ha messo in ginocchio l'industria locale di legname e l'ecosistema del territorio. Tutto ebbe inizio negli Anni 40, quando il governo militare argentino ebbe la sciagurata idea di importare 25 coppie di castori dal Canada e di trapiantarle nella Tierra del Fuego. I militari speravano che i castori, moltiplicandosi, avrebbero garantito alla gente del posto una redditizia produzione di pellicce. I castori tennero fede alle aspettative, si moltiplicarono, anche perchè non trovarono sulla loro strada predatori naturali e parassiti che li contrastassero, ma il business dei berretti di castoro non decollò mai. Rimasero invenduti nei magazzini, a pile. I castori, no, si sono moltiplicati, e oggi se ne contano circa 250.000 e siccome credono sempre di doversi difendere da predatori che invece continuano a esistere solo nella loro immaginazione, insistono ad abbattere alberi e a costruire, coi tronchi, dighe a scopo difensivo. In ogni loro bacino, i tronchi utilizzati si contano a centinaia. Questo ha messo in ginocchio la comunità locale di boscaioli che, giorno dopo giorno, si è vista sottrarre dai castori il legname di qualità che è il suo mezzo di sussistenza. Oltre al danno economico, le dighe dei castori possono provocare inondazioni, allagare le strade, senza dimenticare il rischio della giardiasi; i castori potrebbero contaminare le risorse idriche e in questo caso diventare una minaccia concreta per la salute umana. Si ripete dunque, in un'altra parte del mondo, una storia che un po' somiglia a quella dei conigli australiani. E tutto per 25 coppie di castori che qualche "genio" di generale argentino, un bel mattino ebbe la bella idea di importare dal Canadà....