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Politica Italiana


 

Manifesto - 7.8.12

 

«Se chiude Taranto, stop anche a Genova e Novi» - L.L.

ROMA - L'immagine che offre è quella di una sorta di domino industriale in cui, caduta la prima pedina, tutte le altre seguono a ruota. Se domani il tribunale del Riesame dovesse confermare il sequestro degli impianti di Taranto allora dovranno chiudere anche gli altri stabilimenti dell'Ilva, quelli di Genova, Novi e Racconigi. Non è una minaccia quella che il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante agita davanti alla commissione Ecomafie. Anche se un po' lo sembra, al punto che il presidente della commissione, Gaetano Pecorella, alla fine definirà le parole di Ferrante come «un ultimatum inaccettabile». Eppure l'ex prefetto di Milano ribadisce il concetto: «Possiamo solo chiudere, non abbiamo altra scelta» ripete perché, spiega, gli stabilimenti liguri «vivono su quanto Taranto produce». Era una audizione attesa quella tenuta ieri da Ferrante davanti alla commissione bicamerale. E il presidente dell'Ilva la usa per mandare quello che sembra essere un messaggio alla politica, ma anche ai giudici del Riesame che dovranno pronunciarsi sull'istanza di sequestro delle aree calde e sugli arresti di otto dirigenti disposti dal gip Patrizia Todisco. «Quella della procura di Taranto è un'iniziativa meritoria, perché ha richiamato sull'Ilva l'attenzione delle autorità e ha svegliato le coscienze», spiega Ferrante che però giudica «un gesto pesante» la scelta di arresto nei confronti dei manager. Ma è sul futuro dell'azienda che insiste, un futuro che oggi a suo parere appare messo fortemente a rischio a causa di una decisione presa dai giudici «senza che l'Ilva approntasse una difesa». «Ora questa documentazione c'è, sono sicuro che il tribunale ne terrà conto». Chiunque abbia seguito le vicende dell'Ilva sa che quello prospettato da Ferrante è uno scenario più che realistico. L'eventuale chiusura dello stabilimento tarantino interromperebbe tutta la filiera della produzione di acciaio. E' da quegli altoforni che escono gli enormi rotoli di acciaio che vengono spediti negli stabilimenti liguri per essere stagnati o zincati a seconda delle necessità. E' chiaro quindi che se lì c'è un blocco, si ferma tutto ovunque. E infatti a Genova le parole di Ferrante non sono affatto suonate come nuove. «E' chiaro che siamo preoccupati», spiega Francesco Grondana, segretario generale Fiom di Genova. «Quelle dette da Ferrante sono cose ovvie per chi lavora all'Ilva. Adesso bisogna vedere cosa succede mercoledì con la decisione del Riesame, e poi cosa decide l'azienda». Nei giorni scorsi nei tre stabilimenti liguri gli operai hanno fatto otto ore di sciopero con cortei a cui ha partecipato anche il sindaco della città, Marco Doria. Come a Taranto, anche qui la preoccupazione è forte per i quasi 3.000 posti di lavoro (1.760 a Genova, 700 a Novi e 150 a Racconigi) a rischio in caso di chiusura dello stabilimento pugliese. «Sarebbe stupido affermare che non esiste un problema ambientale - prosegue Grondana - ma non si può pensare di risolverlo con un blitz chiudendo la fabbrica. Possiamo solo sperare che il Riesame prenda una decisione che consenta di risolvere il problema nel tempo». Parlando alla commissione Ecomafie Ferrante ha insistito sulla volontà della famiglia Riva di non lasciare Taranto, ma ha anche chiesto di poter accedere a finanziamenti pubblici da investire in nuove tecnologie a difesa dell'ambiente, oltre ai 336 milioni di euro già stanziati dal governo. «Ci potrebbero essere - ha detto Ferrante - nuovi finanziamenti per le tecnologie che l'impresa volesse applicare sugli impianti».

 

Quella lettera del 2000: «Il quartiere è inquinato» - Gianmario Leone

TARANTO - Lo tsunami che ha travolto l'Ilva di Taranto e che a breve rischia di spazzar via un'intera classe dirigente per via del fascicolo di oltre mille pagine di intercettazioni al vaglio del Riesame non è arrivato improvviso. Per decenni si è ignorata l'evidenza di un problema che oggi è esplosa tra le mani di chi avrebbe potuto evitare tutto questo, se solo avesse interpretato al meglio il suo ruolo. Basti pensare al dramma delle polveri che dal '64 invadono ogni giorno il rione Tamburi, le cui prime abitazioni sorgono a soli 200 metri dai confini del mostro d'acciaio. Oggi, tutti sostengono che fu un errore tecnico quello di voler posizionare le cokerie e i parchi minerali a ridosso del quartiere. Che presenta la più alta incidenza di malattie e decessi. E pensare che la prima sentenza della procura di Taranto sul problema polveri arrivò il 14 luglio del 1982. Poi, in Cassazione, i giudici dettero ragione all'allora Italsider. Nel tempo però, la polvere rossa dei parchi ha invaso ogni cosa, compreso il cimitero di San Brunone, oggi caratteristico con le sue cappelle e tombe rossastre. La procura di Taranto ci riprovò nel 2000, quando in una lettera indirizzata a governo, prefetto, Regione Puglia, presidente della Provincia e sindaco di Taranto, avvertiva che le polveri minerali rilevate nel quartiere Tamburi «risultano maggiori di quelle rilevate all'interno di una zona industriale quale quella del parco materiali del cementificio Cementir». Aggiungendo come dalle inchieste in corso emergeva «una grave situazione di inquinamento atmosferico in città e nei territori limitrofi». In pratica un intero quartiere risultava più inquinato del cementificio che sorge ad est del siderurgico. La lettera in questione, inedita, è tra le carte depositate dalla procura nelle due udienze svolte al Riesame lo scorso week end. Il testo della missiva si concludeva con un monito che già allora avrebbe dovuto far riflettere e agire di conseguenza le istituzioni. «L'esigenza di tutelare posti di lavoro in una terra che vive ancora drammaticamente fenomeni di sottoccupazione e disoccupazione è ben nota a chi scrive che se ne fa anche carico, tanto da valutare con la massima attenzione le modalità dei propri interventi, ma nel bilanciamento degli interessi, che trovano adeguata tutela nella Carta costituzionale, gli organi politico-amministrativi non possono privilegiarne alcuni a discapito di altri: la tutela dei posti di lavoro - concludeva la lettera - non può prescindere dal rispetto della salute degli operai e degli abitanti della città di Taranto e dei comuni limitrofi e dell'ambiente». Una lettera rimasta morta. A dimostrazione di come il problema sia ancora lo stesso ci sono le rivelazioni delle due centraline di via Machiavelli e via Archimede del rione Tamburi, che nei giorni scorsi (30-31 luglio e 1 agosto) hanno nuovamente registrato valori di Pm 10 sopra il limite di legge (50 µg/m3). I giorni di superamento del limite nel corso dell'anno finora sono 28 per via Machiavelli e 20 per via Archimede: il numero di superamenti annuali consentiti dalla legge è di 35. Limite sempre superato negli ultimi tre anni (2009/10/11). Così come quello del valore obiettivo di concentrazione del benzo(a)pirene.

 

Cgil, autonomia cercasi - Loris Campetti

Come sta la Cgil? Lo stato di salute del maggior sindacato italiano risente sicuramente delle conseguenze di una crisi politica, economica e sociale senza precedenti. La politica ha abdicato al suo ruolo consegnandosi mani e piedi ai cosiddetti tecnici, prigioniera di un doppio condizionamento interno ed esterno. La crisi economica e le ricette liberiste dettate dalla cupola finanziaria europea e mondiale, la stessa che ha prodotto la crisi, sta provocando un vero dissesto sociale. L'occupazione crolla ma non è questa la priorità del governo Monti e della politica che lo sostiene, né lo è un piano di riconversione, investimenti e ricerca per costruire le condizioni di un nuovo sviluppo, socialmente ed ecologicamente compatibile: l'obiettivo è piuttosto il pareggio di bilancio, l'abbattimento del debito costi quel che costi. E sta costando moltissimo in termini di impoverimento delle fasce più esposte, giovani, precari, lavoratori dipendenti e pensionati. Ma le crisi, da che mondo è mondo, sono un'occasione colta dal capitalismo per rifondarsi e modificare a suo favore i rapporti di forza tra le classi (e qui sta il suo carattere rivoluzionario di cui parlava Gramsci). Così si spiega l'aggressione in atto ai diritti individuali e collettivi in nome dell'emergenza e della competitività. La Cgil patisce questa situazione. Sul versante politico la tematica del lavoro è stata persa per strada dalle forze di centrosinistra, d'opposizione al governo Berlusconi prima e oggi pilastro principale - per affidabilità - di Monti. I lavoratori e le fasce più deboli non hanno più da tempo una rappresentanza politica, questo la Cgil di Susanna Camusso lo sa bene. Eppure la sua autonomia dal centrosinistra, meglio dire dal Partito democratico, si riduce progressivamente pur non essendo chiaro, o essendolo forse troppo, l'orizzonte politico di Bersani. È passata senza una vera protesta sociale la peggior riforma delle pensioni degli ultimi decenni, salvo poi scoprire, Cgil Cisl e Uil insieme, che è ingiusta e sbagliata perché l'allungamento dell'età lavorativa in una fase di espulsione dal lavoro di centinaia di migliaia di persone non può che provocare uno shock nello shock. È passata una riforma del mercato del lavoro pessima, che non interviene sulla precarietà anzi ne conferma le forme peggiori, e si prepara un taglio negli ammortizzatori sociali che trasformerà i cassintegrati in disoccupati. Infine, i tre milioni di cittadini chiamati in correo dalla Cgil di Cofferati che avevano impedito dieci anni fa la cancellazione dell'art.18 voluta da Berlusconi, sono stati lasciati a casa e Monti è riuscito là dove le destre peggiori avevano fallito. L'unica vera levata di scudi della Cgil riguarda la sorte degli esodati. La priorità, per la Cgil di Camusso, è la ricostruzione dell'unità con Cisl e Uil. È un obiettivo difficilmente contestabile: in tutt'Europa i sindacati marciano uniti contro le politiche liberiste, tranne che nel nostro paese. Ma l'unità, distrutta non per volere della Cgil, bensì da dieci anni almeno di politiche subalterne ai governi di Cisl e Uil, non si ricostruisce a tavolino, né in un confronto tra i vertici sindacali. La pratica, favorita dai governi Berlusconi, degli accordi e dei contratti separati ha lasciato il segno nella carne dei cinque milioni di iscritti alla Cgil. Non è un problema che riguardi soltanto i ribelli della Fiom ma l'intero corpo confederale, e senza la capacità di rimuovere concretamente le cause che hanno provocato la rottura e senza una legge certa sulla rappresentanza e la democrazia che da tempo chiede la Fiom, nessuna buona volontà, da sola, potrà riportare indietro, o meglio avanti, le lancette della storia. Così è andata dopo la rottura dell'unità sindacale negli anni Cinquanta, quando ci vollero un duro lavoro di ricostruzione di una decina l'anni e infine la rottura del biennio '68-'69 per riconquistare una nuova unità. La crisi di autonomia della Cgil rischia di lasciar procedere indisturbato il manovratore che sta riscrivendo l'intero sistema di regole nelle relazioni sociali e sindacali. Il modello Marchionne che consente al padronato di scegliersi gli interlocutori e cancella il contratto nazionale è diventato modello generale. L'assoluta libertà dei capitali sta trasformando il lavoro in pura variabile dipendente dei mercati e dei profitti. Così capita che nel pieno dell'attacco all'occupazione e alla sua qualità mentre le grandi, piccole e medie aziende languiscono in cassa integrazione, se non sono direttamente in chiusura, si firmino accordi sindacali che aumentano l'orario di lavoro, intensificano la produzione e addirittura sanciscono la fine dell'aureo principio «a parità di prestazione parità di trattamento». È avvenuto con il contratto dei ferrovieri che prevede, insieme all'aumento dell'orario di lavoro, un diverso trattamento tra vecchi e nuovi assunti. Di tutto questo si discute, forse troppo poco e non nelle sedi istituzionali della Cgil. Susanna Camusso dispone di una maggioranza nettissima, di cui per altro fa parte con qualche mal di pancia anche quella che una volta si chiamava sinistra sindacale, «Lavoro e società». All'opposizione soltanto l'area programmatica «La Cgil che vogliamo», nettamente maggioritaria tra i metalmeccanici della Fiom. A questa minoranza non è riconosciuta una presenza negli organi di governo della Cgil, e questa è una novità certamente negativa. Le decisioni che contano vengono prese in segreteria, invece che negli organismi preposti come il Direttivo nazionale, chiamato a giochi fatti a ratificare con voti sostanzialmente di fiducia alla segretaria generale decisioni già prese e annunciate alla stampa. Così è andata con la riforma del mercato del lavoro, con annesso omicidio dell'art.18. La messa fuori gioco della minoranza non basta a rassicurare il vertice della Cgil che pretende obbedienza assoluta, a discapito del dibattito interno. Nella maggioranza è in atto un regolamento di conti, con spostamenti di uomini, ricambi, «ringiovanimenti», modifiche dei gruppi dirigenti prima della scadenza naturale, o mancati ricambi al termine dei mandati. Può essere sufficiente una critica alla mancanza di ascolto di posizioni diverse, oppure il dubbio sulle politiche salariali, o peggio ancora sulla disponibilità ad aumentare gli orari di lavoro, a compromettere i rapporti tra un segretario di categoria e la segretaria generale: è il caso di Alberto Morselli, segretario generale della Filctem che intervistiamo in questa pagina. C'è chi pensa che le grandi manovre in atto nella Cgil siano propedeutiche al congresso nazionale della confederazione che partirà in autunno e si concluderà dopo le elezioni di primavera, quando (in corso d'Italia si spera che) a Palazzo Chigi potrebbe esserci un governo, verrebbe da dire, amico. Ammesso e non concesso che per chi rappresenta i lavoratori possa esistere un governo amico, a prescindere dalle politiche messe in campo. A Susanna Camusso serve un'organizzazione che si muova come un sol uomo, o più correttamente come una sola donna. I dubbi e le posizioni critiche che qua e là affiorano, la voglia di maggior autonomia che si respira in settori, come si diceva una volta, fedeli nei secoli come i pensionati dello Spi, oppure nel sindacato della conoscenza, oppure in regionali importanti come l'Emilia Romagna o in camere del lavoro di peso come Torino, rischiano di rappresentare, per la maggioranza, più un problema che una risorsa. Autonomia sindacale, politiche contrattuali, art.18, mercato del lavoro sono i titoli politici del confronto che si aprirà in sede congressuale. E sullo sfondo pesano una pesante crisi finanziaria dell'organizzazione e il rischio che saltino le forme di rapporto istituzionale che hanno garantito finora ai sindacati una vita economica serena. La riduzione dei distacchi sindacali fa parte di questo scenario.

 

Ma Camusso non è Re Sole - Loris Campetti

Alberto Morselli è, per ora, segretario generale della Filctem, il nuovo sindacato della Cgil nato dall'accorpamento di tre categorie: chimici, elettrici e tessili. Avrebbe tutte le carte in regola per partecipare al nuovo corso firmato Camusso: riformista modenese, fa parte della maggioranza della Cgil, nel direttivo nazionale vota i documenti della segreteria, è persino iscritto al Pd. Eppure, non basta. Nonostante il suo mandato non sia a termine, ha ricevuto dalla segretaria confederale l'invito inemendabile a dimettersi per consentire l'avvio di un «rinnovamento» dei gruppi dirigenti. Il fatto è che per cambiare un segretario è necessario che il direttivo della categoria esprima un voto di sfiducia a scrutinio segreto, voto che non c'è mai stato e dunque Morselli non ha alcuna intenzione di gettare la spugna. Morselli, ci spieghi cosa sta succedendo? In un direttivo categoriale in cui non si è mai espresso un forte dissenso, improvvisamente mi viene comunicato da Susanna Camusso che una lettera, riservata e accompagnata da 105 firme segrete su 240 membri, chiede che io mi faccia da parte. Quella lettera non mi è stata neppure consegnata ma è stata utilizzata dalla segretaria generale per chiedere le mie dimissioni, nel corso di un direttivo di categoria che ha votato a maggioranza un documento in cui si chiede un rinnovamento del gruppo dirigente. Ma in Cgil esistono delle regole, e io pretendo che vengano rispettate. Al momento dell'accorpamento dei chimici con i tessili - quello con gli elettrici c'era già stato nel 2010 - mi avevano chiesto di introdurre la figura di una vicesegretaria nella persona di Valeria Fedeli, con un mandato palesemente politico. Mi viene il sospetto che l'obiettivo fosse il fallimento dell'accorpamento sindacale di tre importanti categorie. Cosa c'è dietro il tuo voluto siluramento? È un passaggio del processo di normalizzazione della Cgil? Se fosse stata una questione organizzativa si sarebbe potuta risolvere diversamente, senza strappi. Ma il problema evidentemente è politico e riguarda le politiche contrattuali, su cui c'è un orientamento non coincidente, e la preparazione del prossimo congresso. Da un anno si discute di politica contrattuale: io lavoro per una piattaforma contrattuale unitaria già in partenza, sulla base di un aumento salariale tra il 7 e il 9%, legato all'inflazione Ue. Sull'orario di lavoro sono, siamo come categorie, contrari al suo allungamento. Dobbiamo evitare di far nostra la cultura della crisi, e aggiungo che non condivido il sistema dei doppi regimi, come affiorano in qualche contratto, tra nuovi e vecchi assunti. Sono portato a pensare che sia in atto un processo di normalizzazione della Cgil, il cui gruppo dirigente sembra non sopportare il confronto aperto delle idee. Eppure non hai avuto nulla da ridire su molti provvedimenti, accordi e modifiche legislative che introducono per esempio la deroga ai contratti nazionali, svuotandoli di fatto. Così come non ti sei scalmanato in difesa dell'art.18. Io sono sempre impegnato a salvare il contratto collettivo, e il fatto che esista la deroga nel contratto dei chimici non è in contraddizione, perché la deroga non è applicabile sul salario e l'orario, mentre sulle altre voci comporta un investimento economico da parte delle imprese. E infatti di deroghe la controparte ha deciso di non richiederne. Più che il singolo aspetto o un richiamo generico alla democrazia, però, mi preoccupa il metodo: la segreteria decide e poi convoca il direttivo. E pensa che della standing review si discuterà solo nel direttivo di settembre. Non sarà che il problema della Cgil si chiama autonomia? Direi almeno che manca un progetto per il futuro. Io ritengo giuste le analisi della Fiom ma non le sue ricette, troppo rivolte al passato e alle figure tradizioni del lavoro, con scarsa attenzione alle nuove figure professionali non operaie. Serve un'idea generale che parli a tutti. Di queste cose si discuterà al congresso, e a questo scopo la segreteria deve aver valutato che il controllo dei segretari generali dev'essere completo. Come spieghi che nell'Slc - telecomunicazioni, ndr - nonostante il mandato del segretario sia scaduto nessuno si preoccupi di eleggerne un altro? Le regole sono interpretate in modo molto elastico e il meccanismo della deroga è frequente. Speriamo di non tornare a Re Sole. Resta il problema dell'autonomia della Cgil dalle forze politiche e dal governo. Abbiamo sbagliato ad abbandonare il protagonismo politico dentro i processi di trasformazione della sinistra. Una sinistra che non ha voglia di confrontarsi con la rappresentanza vera. Le battaglie sul lavoro erano difficili nel Pci, ma almeno si facevano, oggi sul lavoro si scarica la mannaia della crisi. A chi ci vuole lasciar fuori dovremmo reagire entrando, lo dico da iscritto al Pd. Dunque non accetterai la richiesta di Susanna Camusso di rinunciare al tuo mandato da segretario della Filctem per andare a fare il «capoarea della contrattazione» in Cgil? Non l'accetto perché pretendo il rispetto delle regole, cioè un voto di sfiducia. Aggiungo che prima del direttivo in cui è comparsa la lettera riservata con le firme segrete, con la Camusso avevo raggiunto un accordo, una mediazione che poi lei non ha voluto sostenere. Inoltre, che ci vado a fare in contrattazione, dovendo confrontarmi con una categoria che mi ha cacciato su richiesta dall'alto e con la Fiom che non mi ama?

 

Non morire montisti - Marco Revelli

Forse ce la faremo a portare a casa la pelle in questo agosto complicato. O forse no. Può darsi che l'asse Monti-Draghi, con l'appoggio esterno di Hollande e l'alleanza «interna» con la Confindustria tedesca, riescano ad arginare la voglia dell'alleanza del Nord di spaccare l'Eurozona e di sganciare la zavorra mediterranea dal treno mitteleuropeo. O è possibile che i falchi della Bundesbank riescano ad accelerare ancora la marcia verso un'Armageddon finanziaria, quando si decidano una volta per tutte i sommersi e i salvati, magari nella convinzione che un euro limitato all'area dei paesi optimo iure - dei virtuosi finalmente liberi dalla cicale del sud - sia più adatto ad affrontare il prossimo big one, quando esploderà la grana dell'immenso debito americano. Comunque vada, è chiaro che i giochi per noi verranno fatti fuori dai nostri confini. I compiti - sempre più impegnativi, sempre più estremi - verranno stabiliti a Berlino, o a Francoforte, non certo «a casa». Per chi crede che la costituzione materiale europea sia scritta una volta per tutte sulle tavole di pietra del dogma neoliberista, e che sia per sua natura immodificabile (lo credono tutte le principali forze politiche italiane, lo crede Monti, lo credono Bersani e Casini, lo crede - forse - Alfano...), la strada per restare nell'euro è segnata. E si fa sempre più ripida. Sia che si debba sottostare esplicitamente all'accettazione del famigerato Memorandum, o che a ogni riunione dell'Eurogruppo si sia obbligati a portare sul tavolo una nuova offerta sacrificale, è certo che le linee guida nel campo delle politiche sociali nel prossimo quinquennio resteranno quelle seguite dal governo Monti in questo primo squarcio di 2012, con un ulteriore incrudelimento dettato da un'emergenza permanente. D'altra parte c'è già chi, in Europa, dice che la riforma del mercato del lavoro non basta ancora, che la flessibilità in uscita, pur dopo il taglio dell'art. 18, è insufficiente, che le remunerazioni pubbliche e private sono ancora eccessive (anche se stanno al fondo della graduatoria Ocse), che l'occupazione nel pubblico impiego è pletorica. I mercati e i banchieri centrali teutonici ce l'anno ormai insegnato, che «non gli basta mai». Che su questa strada, dentro questo quadro rigido e immodificabile di compatibilità, i compiti, come gli esami, «non finiscono mai». Ora è evidente che, se inserite in questo contesto, e se limitate alle attuali forze in campo, le prossime elezioni politiche appaiono in larga misura già segnate. Per certi versi potremmo dire «inutili». Chiunque vinca, tra gli attuali «insiders» - centro-destra o centro-sinistra - si troverà l'agenda già scritta. Qualunque governo scaturisca nell'attuale sistema dei partiti, dovrà seguire una road map che permette pochissimi scarti, e nessuna «svolta» rispetto alla linea seguita finora. Dopo Monti, sembra chiaro, non può che esserci Monti, o la sostanza del «montismo» probabilmente ulteriormente incrudelita, sia che l'ex presidente della Bocconi ascenda al Quirinale, o che rimanga alla guida del governo per un nuovo accordo bipatisan da stipulare prima o più probabilmente dopo le elezioni o, ancora, che conservi un qualche ruolo di garante grazie a un qualche nuovo espediente istituzionale a cui siamo ormai abituati. E d'altra parte - se la politica volesse davvero «fare un passo avanti» oltre il governo dei tecnici - ve lo immaginate voi un governo di centro-sinistra con Bersani in giro per il mondo - come ha fatto il «professore» in questi mesi - a tranquillizzare i guru di Wall Street o gli scettici finlandesi o i tecnocrati della Buba con il suo linguaggio da Crozza e un partito diviso su tutto? O, nel caso improbabile di una vittoria del centro-destra, un nuovo governo Berlusconi con lo spread a 2500 fin dalla prima settimana? È per tutte queste ragioni che mi è apparsa del tutto dissennata, e in fondo suicida, la decisione di Nichi Vendola di riunirsi a coorte con il Pd. E di legare le proprie sorti ai risultati di consultazioni primarie in cui, bene che vada, potrà contendere il secondo posto a un qualche Renzi, e dopo le quali si troverà vincolato al programma del vincitore: lo stesso che ha approvato la riforma Fornero con art. 18 incluso (su cui non mi pare che Vendola fosse d'accordo), la riorganizzazione del sistema pensionistico con esodati annessi, la modifica dell'art. 81 della Costituzione, con la messa fuori legge delle politiche keynesiane, la spending review... ecc. ecc. E che per questa ragione non potrà che farsi garante della continuità con quelle politiche. Questo è lo scenario, se ci si ferma al «mondo sparito» (come lo chiama Ilvo Diamanti) su cui ragiona la politica ufficiale: se si continuano a consultare «le vecchie mappe» di un'Italia che non c'è più. Se però solo si sposta un po' più in là lo sguardo, sul mondo reale che viene avanti, il quadro cambia radicalmente. I partiti su cui sono incentrate tutte le ipotesi di governo del dopo-elezioni tutti insieme, Pdl e Udc, Pd e Sel, non superano il 60% dei potenziali elettori (elettori, non «aventi diritto al voto»). Cioè, supposto che non subiscano ancora ulteriori emorragie, stanno poco al di sopra della metà di quel meno di due terzi di cittadini ancora disposti a votare. Fuori dal loro cerchio magico c'è un popolo esteso, in potenziale espansione, che in quelle sigle, in quelle facce, in quei linguaggi non ci crede più. E che probabilmente non ci sta a rassegnarsi all'alternativa tra morire subito di default o entrare in una lunga agonia sociale in cui la fine del tunnel non solo non si vede ma viene via via allontanata dalle misure di «risanamento» subìte. Intuisce che occorre un'alternativa di modello allo stato di cose presente: uno scarto, o uno scatto d'immaginazione e di progettazione, che ci porti fuori dall'impasse. In parte si posteggia nelle liste del Movimento 5 stelle. Segna, urlando, la propria demarcazione rispetto al «mondo sparito» in cui non crede più. In parte cerca conforto in ipotetiche liste civiche, nei Sindaci che hanno dato segnali di diversità, nelle pieghe del «locale» dove la fiducia negli uomini tenta di compensare la sfiducia negli apparati. Ma è e resta «in attesa». A loro bisognerà dare una risposta in avanti. Pensando in grande: a un'altra Europa, in primo luogo. Un'altra politica estera che ipotizzi la strutturazione di un'area mediterranea in grado di negoziare da posizioni di parità con il centro berlinese e l'area dei «virtuosi» e di contrastarne i dogmi falliti. E poi un'altra politica sociale, che metta al centro i diritti del lavoro, e il lavoro in quanto tale, come entità reale, contro la virtualità del «finanz-capitalismo» e dei suoi circuiti astratti. Un'altra politica economica, fondata su quei processi di riorganizzazione capillare del sistema produttivo intorno a una generale messa in sicurezza delle nostre vite e del nostro ambiente di cui ha scritto su questo giornale Guido Viale. Un altro stile di «far politica», che restituisca dignità e parola ai cittadini e ai territori. C'è uno spazio immenso, per una galassia che sappia riconoscersi e condensarsi intorno a pochi, semplici punti da non negoziare, senza gli esercizi bizantini del vecchio Arcobaleno, senza bilancini e intergruppi, senza estenuanti mediazioni. Semplicemente per un atto di riconoscimento del «reale». Può sembrare banale. Ma «se non ora, quando»?

 

Se la crisi fa rinascere il nazionalismo tedesco - Marco Bascetta

Non è una novità che dal dopoguerra ad oggi serpeggino in Europa sentimenti antitedeschi, segnatamente in Francia e in Italia, ma non solo. Altrettanto evidente è che si è trattato e si tratta prevalentemente di un brontolio, accompagnato da una profonda deferenza e certamente dalla radicata convinzione che la Germania sia stata vaccinata per sempre da ogni aggressività politico-militare nei confronti dei suoi vicini e del mondo intero. A rispecchiare l'«antigermanesimo» popolare valevano più le sconclusionate Sturmtruppen di Bonvi con il loro buffo linguaggio che non una reale ostilità. I governi tedeschi ne sono sempre stati ben consapevoli e non se ne sono mai seriamente preoccupati, sempre meno con il passare degli anni. Molto di più hanno sofferto gli americani, che, da sempre e senza interruzioni, si sono sentiti di incarnare «l'impero del bene», dell'ostilità incontrata a più riprese in varie contrade del pianeta e nell'opinione pubblica mondiale. Cosicché l'allarme lanciato da Mario Monti in una intervista al settimanale Der Spiegel sul rischio di un acuirsi del sentimento antitedesco in Italia, nell'opinione pubblica e nel parlamento, non spaventerà di certo il governo di Berlino inducendolo a «concedere più flessibilità» e a contrastare la «dissoluzione psicologica dell'Europa». Ai tedeschi andrebbe posta invece un'altra serissima domanda. Ha continuato a esistere nel dopoguerra ed esiste ancora oggi un nazionalismo germanico? E in quale forma? Senza, beninteso, cadere nei ridicoli richiami al terzo Reich con cui si diletta la stampa-spazzatura della destra nostrana. La risposta, a mio parere, è affermativa, anche se l'inclinazione nazionalista non riguarda l'intera società tedesca, è bandita come ideologia conclamata dalle principali forze politiche e tenuta a freno (ma niente affatto annientata) dai governi che si sono succeduti a Bonn e poi a Berlino. Fino al 1989 il nazionalismo tedesco era incanalato verso quella tensione alla riunificazione che tuttavia comprendeva anche componenti democratiche e progressiste. La sua cifra essenziale era un anticomunismo gonfio di risentimento antisovietico. Tuttavia, l'esito della seconda guerra mondiale e il fatto che la Bundesrepublik si trovasse in prima linea sul fronte della guerra fredda mascherava nello zelantissimo atlantismo e nell'occidentalismo a tutto tondo di Bonn le pulsioni nazionaliste tedesche. Gli alleati, per parte loro, avevano chiuso più di un occhio sul marcio che dopo il '45 era transitato nella classe politica tedesca e che fu uno dei principali bersagli della rivolta del '68. Una benevolenza che avrebbe accelerato la pretesa tedesca di liberarsi del fardello prodotto tra il '33 e il '45. Una volta riunificata la Germania e trasformato l'«impero del male» in un appetibile mercato, la destra tedesca si trovò orfana dei suoi stendardi più amati: l'anticomunismo e il recupero delle terre perdute. È a questo punto che il nazionalismo tedesco, ossia il pensiero e l'azione politica della destra, comincia a rivendicare più peso di chiunque altro in Europa. Il «noi e gli altri» cominciava a farsi spazio. Nell'unico modo possibile. Visto che l'unione politica dell'Europa stentava a procedere e intaccava assai poco le sovranità nazionali gelosamente difese dagli uni e dagli altri, si trattava di riuscire a imporre le regole economiche dell'Unione secondo i propri principi, i propri interessi e le proprie ossessioni. Giocando in Europa non sulla base di quel progetto di integrazione su cui tutti giurano e spergiurano, ma sulla base dei rapporti di forza esistenti. Ragion per cui la Bundesbank può dichiarare, priva di qualsiasi tatto, che, essendo più potente della altre banche centrali, deve contare e decidere di più, mettendo in imbarazzo lo stesso governo di Berlino, che pure, come tutti gli altri, deve simulare una relativa indipendenza della politica dai rapporti di potere finanziari. La crisi dei debiti sovrani mette infine nelle mani della destra nazionalista tedesca la bandiera in grado di sostituire quella perduta dell'anticomunismo e cioè l'antimeridionalismo, con argomenti eurofobi e uno stile di propaganda del tutto simile a quello della nostra Lega. Non a caso la crociata contro le cicale mediterranee ha il suo cuore nella regione più ammirata e invidiata dal Carroccio: la ricca, cattolica e reazionaria Baviera. Da qui partono gli strali del segretario del partito cristiano-sociale (Csu) Alexander Dobrindt e del ministro delle finanze bavarese Markus Soeder, che invocano la cacciata della Grecia dall'euro e accusano addirittura Monti di attentare non solo alle tasche dei contribuenti tedeschi, ma alla stessa democrazia nella Repubblica federale, essendo quella nel nostro paese data, con un certo sollievo, per perduta. I toni nazionalisti vengono ormai completamente allo scoperto, amplificati dalla tradizionale stampa anticomunista che fu l'impero di Axel Springer. Gonfi di rozzo populismo e indifferenti agli effetti che i diktat tedeschi avranno a lungo termine sulla stessa economia della Germania. Dobrindt sembra ricalcare le orme del più carismatico e reazionario esponente della Csu, quel Franz Josef Strauss che quando Willy Brandt avviò la Ostpolitik, la prudente politica di distensione con l'Est, strepitava che ormai i bolscevichi sedevano a Bonn. La Germania sopra a tutto. Sopra la distensione allora, sopra l'Europa oggi. Questa destra nazionalista, bigotta e tradizionalista, trova oggi una solida sponda negli interessi della rendita e del capitale finanziario che specula allegramente nel bordello europeo e guarda con la massima soddisfazione allo smantellamento del welfare e dei diritti nei paesi-cicala dell'Europa meridionale. Ma non è detto che poi non tocchi anche alle formiche. Il problema allora non è agitare lo spaventapasseri dei sentimenti antitedeschi in Italia, ma mettere in guardia i tedeschi, e la sinistra tedesca, se è ancora capace di uscire dalla subalternità e pensare una Europolitik di segno diverso, dalla ripresa di un nazionalismo che finirà, quantomeno, con l'affossare il processo di integrazione europea. Non si tratta di «falchi» e «colombe», come pure la stampa di sinistra italiana vorrebbe far intendere. E cioè di maggiore o minore rigidità entro una dottrina da tutti condivisa, ma di ottiche e punti di vista alternativi e opposti. Nel mondo del liberismo e della rendita finanziaria esistono solo i falchi. Una colomba non sopravviverebbe un minuto.

 

No Tav il terzo fronte - Mauro Ravarino

VALLE SCRIVIA - In alta Val Lemme gli alberi si fanno fitti e non c'è spazio per i rumori della pianura, come quelli che si orchestrano stonati attorno al mega outlet di Serravalle Scrivia. Qui, il Piemonte diventa quasi Liguria, ma prima di scollinare si arrampica sulla ripida cresta degli Appennini. Tra queste rocce vogliono farci passare il Terzo Valico dei Giovi, 53 chilometri di linea ferroviaria ad alta velocità e alta capacità (per ora un ibrido senza precisa destinazione), 39 dei quali in galleria, da Genova a Tortona, anzi a Rivalta Scrivia, parte del corridoio 24, tra il porto della Lanterna e quello di Rotterdam. Sono 115 milioni di euro al chilometro per una spropositata cifra totale di 6,2 miliardi di euro, quanto il taglio alle pensioni del governo Monti, che come il precedente esecutivo Berlusconi, sostiene l'opera considerata strategica (seppur non giustificata dal punto di vista della domanda del trasporto). Per non parlar dei problemi relativi all'amianto e alle falde acquifere. Del Terzo Valico se ne discute da oltre 20 anni, un progetto capostipite risaliva addirittura al 1988 (linea veloce Genova-Milano), ma è nel 1991 che prende - seppur mutevole - un'astratta forma. L'anno in cui nasce il general contractor che dovrebbe realizzare la grande opera e dividersi la torta: il Cociv. Il consorzio, guidato da Impregilo (tra gli azionisti, Gavio, che a Tortona ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo) con Tecnimont, Condotte d'Acqua e Civ, ha redatto il progetto per conto della Tav spa di Rfi. E, ora, dopo alti e bassi, "fori pilota" bloccati dalla magistratura nel 1998, legge obiettivo (che nel 2001 la inserì nelle infrastrutture ferroviarie strategiche), delibera Cipe (2006) e primi due lotti finanziati, siamo arrivati - senza ancora nessun progetto esecutivo - agli espropri, più precisamente agli iter di immissione in possesso che ne sono il preludio, in vista dell'adeguamento della viabilità propedeutica ai lavori di scavo (primo lotto, Berlusconi: 500 mila euro). Così, per far posto a gallerie, rotonde, strade - in un contesto naturalistico scomposto e sventrato - viene tolto spazio a campi, giardini, garage e case. Niente deve essere d'intralcio in Val Lemme come in Valle Scrivia, nell'alessandrino, o in Valpolcevera, sull'altro versante genovese. Le lettere ai proprietari sono arrivate a fine giugno. Il movimento contro il Terzo Valico, forte della manifestazione che il 26 maggio ha portato 2500 persone ad Arquata Scrivia, non si è fatto trovare impreparato. E da Libarna, già città romana lungo la via Postumia, in su, le strade si sono riempite di bandiere No Tav, quelle bianche e rosse della Val di Susa. Anche Pasquale, che vive a Crenna, nel comune di Serravalle Scrivia, in una casetta ex cantoniera poco prima della galleria, l'ha appesa alla finestra. Gli hanno proposto 60 euro per l'esproprio di 40 metri quadrati e 40 euro annui per l'occupazione provvisoria di altri 317 metri che comprendono la sua abitazione in pietra, acquistata e ristrutturata con fatica e non senza beghe legali con l'ex proprietario. «Quando mi è arrivata la lettera, temevo una multa per eccesso di velocità. Aperta, scopro invece che mi vogliono portare via la casa». In cambio di cento euro. Pasquale lo racconta con una tranquillità, piena di stupore. Potrebbe riavere le sue pareti dopo (minimo) dieci mesi ma con uno stradone in mezzo al giardino e un finale senza happy end che ricorda un film francese Home (di Ursula Meier, 2008), dove la quiete di una famiglia, che vive in campagna ai margini di un'autostrada mai completata, viene interrotta dall'inaugurazione improvvisa del tratto, isolandola così dal resto del pianeta. «Vado in Comune - continua Pasquale - chiedo delucidazioni, ma non ottengo risposte. Allora, decido di rivolgermi ai comitati. Ed è stato un bene». Il movimento No Tav - Terzo Valico resuscitato nell'inverno, dopo il sì del governo Monti al rifinanziamento del secondo lotto (un milione e cento mila euro), in queste settimane ha organizzato, per evitare gli espropri, blocchi e presidi nei paesi delle valli. «Il Cociv - racconta Claudio Sanita, comitato Arquata Scrivia - si è presentato scortato a Trasta e Borgo Fornari in Valpolcevera e a Serravalle Scrivia. Ma ha girato i tacchi. Siamo in tanti, la gente è partecipe e solidale». E pensare che a gennaio «eravamo solo io e Luca a volantinare per Arquata, ora siamo in centinaia tra i vari comitati». A Trasta, la Digos ha identificato una quarantina di manifestanti, per loro scatterà una denuncia per interruzione di pubblico servizio. I legali dei No Tav hanno, invece, provato a chiedere una sospensiva delle procedure al Tar. Ricorso bocciato a fine luglio: «Leggendo nel merito la sentenza - spiega Sanita - si dice che il Terzo valico è una grande opera pubblica, mentre i cittadini difendono i loro cortili. La realtà diversa: il Cociv è l'interesse privato, la battaglia dei cittadini è di interesse pubblico. In difesa delle falde acquifere, della salute e della nostra terra». E chi ha paura è Arquata Scrivia. Teme di rimanere senz'acqua e che le fonti della frazione di Rigoroso, sotto il monte Zuccaro, restino irrimediabilmente compromesse dai lavori per il tunnel. «I danni sarebbero gravi per tutto il territorio. La delibera Cipe prevede che nel caso in cui i lavori intercettassero la falda e il paese rimanesse senz'acqua verrebbe fornito un servizio con autobotti e verrebbe successivamente realizzato un acquedotto alternativo. Significa rimanere per almeno tre anni senz'acqua. Non è ammissibile. Per questo chiediamo una seria analisi idrogeologica» sottolinea il sindaco Paolo Spineto, a capo di una maggioranza di centrodestra. Il rischio è un altro Mugello, che dopo diciassette anni di lavori per l'alta velocità si sono trovate sorgenti prosciugate e acquedotti fuori uso. Spineto è l'unico primo cittadino schierato apertamente contro il Terzo Valico, il Pd alessandrino sul tema è stato spesso silente, ora invoca un Osservatorio e il presidente della provincia, Paolo Filippi, darebbe l'ok solo se scongiurato il rischio amianto. Ma il partito di Bersani paga il doppio filo con cui è legato al potentissimo Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit già presidente della provincia, in quota Margherita, presidente poi, per poche settimane, di Impregilo in quota Gavio, che, dopo aver per anni controllato il gruppo con Ligresti e Benetton, è diventato azionista principale, ma si è visto recentemente soffiare il giocattolo dal romano Salini. Tanti sono gli interessi attorno all'opera, nonostante le controindicazioni sollevate dai comitati. Come l'impatto paesaggistico e ambientale e i rischi connessi all'amianto, che potrebbe finire nei detriti portati nelle cave di pianura. I sostenitori rassicurano. «Ma queste sono rocce serpentinitiche» racconta Mario Bavastro (Legambiente, memoria storica della lotta contro l'ecomostro) indicando una parete vicino a Voltaggio, antico borgo nel cuore della Val Lemme. Qui, e a Franconalto, stampati indelebilmente nella montagna, ci sono da quindici anni quei fori pilota che rappresentano una storia esemplare quanto grottesca: «Il 9 dicembre del 1996 - continua Bavastro - il Cociv scrive al comune di Fraconalto chiedendo di dichiarare l'ubicazione del foro di proprio gradimento, il sindaco risponde subito di sì. I lavori partono, ma dal sondaggio geodiagnostico come doveva essere, gli scavi diventano quelli per una galleria di servizio. Parte, allora, l'esposto di Wwf Liguria. Nel febbraio del '98 il ministro Edo Ronchi ferma i lavori, mai ripresi. Scatta parallelamente l'indagine della magistratura per truffa aggravata ai danni dello Stato, il processo verrà, però, poi trasferito da Milano a Genova e il reato ipotizzato ridotto a truffa ai danni dello Stato. Gli inquisiti di allora verranno prescritti, grazie alla legge ex Cirielli, e tuttora, vedi il senatore Luigi Grillo (Pdl), continuano a essere i maggiori sponsor del progetto». Per la gente delle valli, il Terzo Valico assume le forme di un serpente. Sguscia e scompare per anni, poi rispunta mutevole. La linea è per passeggeri? Forse. Per merci? Forse. È per entrambi, seppur difficilmente possano coesistere. Voleva addirittura infilarsi in una scuola elementare, Villa Sanguineti a Trasta, e piazzarci lì gli uffici del Cociv. Pericolo scampato. «Ma rimane una brutta grana» dicono in coro nei presidi, dove tra le balle di fieno si condividono pasti, sorrisi e indignazione. Ci vengono in tanti, giovani e vecchi. In pianura, dove il tratto vedrebbe per la prima volta la luce, preoccupa l'intasamento su Ca' del Sole (Serravalle Scrivia): «La galleria della Crenna verrà chiusa per minimo dieci mesi per adeguare la viabilità - racconta Gianfranco Marchesotti, sindacalista storico, che conosce bene il tessuto socioeconomico della zona - e tutto il traffico si riverserà sulle strade del Rastellino e della Lomellina. Risultato? Inquinamento atmosferico e acustico centuplicato sulle colline coltivate a vigneti doc. Ed è solo uno dei tanti danni di quest'opera inutile». Alla sera, Gianfranco si ritrova nel circolo Lavoro e Libertà di via Berthoud per la riunione del Comitato serravallese. Presenti anche Elio Pollero, che a capo della lista di sinistra Serravalle Futura ha strappato nelle recenti amministrative un incoraggiante 27,5%, e molti "espropriati". Come Jole Perassolo, Sandra Cumo, Adriano Rossi e Martina Accorsi: «Vivendoli direttamente - raccontano - abbiamo capito quanti problemi in comune abbiamo con la Val di Susa. Ci vogliono imporre un'opera assurda con la forza. Non possiamo accettarlo. Dobbiamo stargli addosso come le mosche». Qui si dice, a saià düa!

 

Morsi: caccia ai jihadi nel Sinai - Michele Giorgio

Il presidente egiziano Mohammed Morsy ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale e dato ordine di individuare subito i miliziani del gruppo «Majles al Shoura al Mujahedin», responsabile dell'attacco avvenuto domenica nel Sinai, dove 16 guardie di frontiera egiziane sono state uccise e un mezzo blindato è sconfinato in territorio israeliano. Il presidente ieri ha visitato il luogo dell'attentato insieme al capo del Consiglio delle Forze Armate e ministro della difesa, Hussein Tantawi: «I martiri e i feriti saranno onorati come quelli della rivoluzione \», ha proclamato Morsy che, poche settimane dopo la sua elezione a capo dello stato, deve affrontare una crisi difficile: lui, esponente di primo piano dei Fratelli musulmani, deve usare il pugno di ferro contro altri islamisti e deve rispondere all'intimazione che viene da Israele di riportare il Sinai sotto controllo. Un anno fa, proprio in questo mese, dopo l'uccisione di guardie di frontiera egiziane da parte di Israele divampò la crisi diplomatica più violenta tra il Cairo e Tel Aviv dalla caduta dell'ex raìs Hosni Mubarak, seguita poche settimane dopo dall'assalto all'ambasciata israeliana in Egitto. Ieri erano almeno una quarantina i mezzi blindati e corazzati che circondavano la parte egiziana di Rafah, dove è avvenuto l'attacco al posto della polizia di frontiera. Le forze armate egiziane inoltre hanno bloccato i tunnel sotterranei di accesso a Gaza per impedire la fuga nella Striscia dei membri superstiti del commando. Otto jihadisti sono stati uccisi dall'aviazione israeliana, che ha colpito e distrutto uno dei due mezzi blindati catturati dal commando durante l'assalto di domenica. In totale, sostengono le autorità del Cairo, i miliziani erano 35 e l'esercito non vuole farseli scappare. «Ci sono linee rosse invalicabili, ci vendicheremo», dicono i comandi delle forze armare egiziane su Facebook. Tutto è cominciato dopo un raid aereo israeliano a sud di Gaza, in cui è rimasto ucciso Ahmad Ismail, un palestinese presunto membro di un gruppo salafita, che, secondo Israele, stava preparando un attentato. Non è chiaro se l'incursione sia stata il fattore scatenante; certo è che qualche ora dopo il commando jihadista ha ucciso i 16 poliziotti egiziani e catturato due blindati; uno di questi ha poi sconfinato in territorio israeliano dirigendosi verso il villaggio di Kerem Shalom, ma è stato centrato e distrutto da un missile sganciato da un aereo. L'altro è esploso prima di entrare nel territorio dello Stato ebraico. Dall'Egitto però arriva un'accusa indiretta al governo di Hamas a Gaza. Il commando, dicono i militari, sarebbe stato sostenuto da «elementi di Gaza che hanno lanciato colpi di mortaio verso la zona del passaggio di Karm Abu Salem» (Kerem Shalom). «E' stato un attentato terrorista significativo perchè rivela i pericoli e le minacce che deve affrontare il Sinai e impone a tutti di esercitare la massima vigilanza verso complotti di cui l'Egitto è vittima», hanno spiegato i militari. Parole che, secondo commenti israeliani, farebbero capire che anche l'Egitto ritiene probabile un «coinvolgimento esterno», cioè dell'Iran, per tenere sotto tensione la frontiera israelo-egiziana. Più probabilmente i militari egiziani hanno voluto dire che spetta a Hamas fare «pulizia» dei gruppi salafiti, con simpatie jihadiste, da Gaza. Il movimento islamico palestinese - che solo qualche giorno fa ha scarcerato lo sceicco al Maqdisi, esponente di primo piano del salafismo armato e teorico del gruppo responsabile del rapimento e assassinio di Vittorio Arrigoni - si trova in posizione delicata. Da un lato non ama usare il pugno di ferro con i gruppi salafiti con i quali, pur con differenze ideologiche, condivide l'opposizione a Israele. Dall'altro non può non ascoltare i Fratelli musulmani egiziani, con cui cerca una stretta alleanza, che chiedono ora azioni contro gli estremisti che agiscono in stretto coordinamento tra Gaza e Sinai. Ieri Hamas per dare un segnale forte ha fatto chiudere i tunnel sotterranei con l'Egitto ed effettuato numerosi arresti a Gaza. Il suo ministro dell'interno, Ehab Al-Ghsain, ha però avanzato la tesi di un attacco compiuto da «collaborazionisti di Israele» infiltrati tra i jihadisti nel Sinai. Tesi sposata dai Fratelli egiziani, che dietro l'attentato alla frontiera vedono il Mossad, il servizio segreto israeliano, per fare fallire la rivoluzione egiziana.

 

Espulsione di massa, 1.600 deportati. La linea dura di Atene contro l'immigrazione

Un'espulsione di massa: la polizia greca si appresta a deportare 1.600 persone, immigranti irregolari, arrestati negli ultimi giorni ad Atene durante un'operazione in grande stile di controllo della popolazione straniera. il ministro dell'ordine pubblico Nikos Dendias ha giustificato l'operazione dicendo che la Grecia nella presente situazione economica non si può permettere un'invasione di immigrati - anzi, «la più grande invasione dal tempo dei Dori 3.000 anni fa». Fattostà che nel fine settimana la polizia ateniese ha compiuto una gigantesca retata, fermando per strada africani e asiatici per controllare i documenti. Denominata incongruamente «Zeus Xenios» (il dio dell'ospitalità), l'operazione ha portato al fermo di 6.000 persone in due giorni, di cui molti rilasciati e 1.600 destinati all'espulsione. I partiti della sinistra hanno protestato contro l'operazione anti-immigrati, e anche l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati si è detto allarmato perché migranti da regioni in guerra rischiano di non poter neppure chiedere asilo. Ma il ministro Dendias ha insistito: le retate anti-clandestini continueranno, ha detto, perché un'immigrazione senza controllo «ha portato la Grecia sull'orlo del collasso». In attesa di espulsione gli arrestati saranno trattenuti in edifici dismessi della polizia, nel nord del paese e ad Atene, che hanno capienza di 10mila posti, ha aggiunto. Negli ultimi anni un partito di estrema destra, Alba Dorata, ha raccolto consensi usando una aggressiva retorica anti-immigrati: a quanto pare il governo ha deciso di cavalcare la stessa ondata. Secondo le stime ufficiali circa 100mila immigranti entrano in Grecia ogni anno illegalmente, soprattutto dalla frontiera turca o dal mare.

 

Defezioni eccellenti, via il premier

Un altro colpo, anche se più che altro simbolico, al regine del presidente Bachar al Assad in Siria. Questa volta si tratta delle defezione del suo primo ministro, Riyad Farid Hijab, l'esponente politico più alto in grado ad aver abbandonato il presidente finora, dopo numerosi ambasciatori e ancor più numerosi ufficiali dell'esercito. «Annuncio che da oggi sono un soldato di questa benedetta rivoluzione», ha dichiarato lo stesso Hijab ieri, dalla Giordania dove è arrivato a quanto pare insieme ad altri due ministri di cui per ora non si conosce il nome, e con una decina di familiari. Il suo annuncio ha messo fine a una serie di annunci contradditori: ieri mattina infatti i media di stato siriani avevano annunciato che il presidente Assad aveva destituito il primo ministro, mentre i ribelli proclamavano che si era unito a loro. Ora non restano dubbi. Dal punto di vista della struttura del potere, la fuga di Hijab è poco più che un colpo di immagine: il primo ministro non è una carica di rilievo, dove il potere è accentrato nelle mani del presidente. Ma resta un segnale: Hijab era stato nominato premier solo in giugno, dopo elezioni parlamentari ampiamente boicottate. Sunnita, Hijab è originario di Deir al-Zour, uno dei punti caldi della rivolta. Un portavoce dell'ex premier ha precisato che la sua fuga è stata coordinata con l'Esercito siriano libero, che ormai raccoglie il grosso dell'opposizione armata, dei due mesi da quando era stato nominato capo del governo. Secondo la Casa Bianca, la defezione del premier dimostra che Assad «sta perdendo la sua presa sul potere», e che il regime «sta crollando dall'interno». Resta incerta intanto la sorte dei 48 pellegrini iraniani rapiti sabato sulla strada tra l'aeroporto di Damasco e un santuario sciita a cui erano diretti. La «brigata Baraa» dell'Esercito siriano libero ha rivendicato il rapimento e afferma che non sono pellegrini ma Guardie della rivoluzione in missione. E ieri i ribelli hanno detto che tre degli iraniani sono stati uccisi da un bombardamento governativo in cui è crollata la casa in cui sono in custodia: minacciavano di uccidere gli altri se il bombardamento fosse continuato. Domenica il ministro degli esteri di Tehran, Akbar Ali Salehi, ha chiesto a Turchia e Siria di collaborare per assicurare il rilascio dei suoi cittadini.

 

La Stampa - 7.8.12

 

Spending review, sì con la fiducia - Francesca Schianchi

ROMA - Risparmi su ministeri e fondo sanitario, tasse più alte agli universitari fuori corso, addizionale Irpef più salata per otto regioni. In cambio, «salvezza» per 55 mila esodati, fondi alle zone terremotate e aumento dell'Iva rinviato. Oggi Montecitorio licenzia l'ultimo provvedimento prima della pausa estiva: la conversione del decreto sulla spending review, già approvato in Senato. E lo fa, come altre 33 volte in soli nove mesi, apponendo la questione di fiducia: sarà la 34esima, appunto, tra le proteste dell'Idv e della Lega («livelli di compressione della democrazia mai avvenuti in quest'Aula», sbotta il deputato Volpi). Un via libera che dovrà arrivare oggi, con l'obiettivo di recuperare circa 4 miliardi di risparmi quest'anno, 10 nel 2013 e 11 nel 2014, dopo che ieri il Ministero dell'Economia ha comunicato i dati relativi alle entrate dello Stato per il primo semestre del 2012. Crescono le entrate tributarie erariali del 4,3% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso (191,180 miliardi di euro), aumentano le imposte dirette del 5,1% e quelle indirette del 3,5%, cresce pure l'incasso da lotta all'evasione (+ 4,5%, 146 milioni). Ma cala il gettito Iva (-1,4%, cioè 705 milioni in meno) a causa «della stagnazione della domanda interna», come scrive il Mef. Per il futuro, la spending review deve essere «l'inizio di un processo che durerà nel tempo», promette il sottosegretario Gianfranco Polillo, che ammette «tagli troppo generici» perché «la fretta ci ha obbligati a non andare tanto per il sottile». Quello che criticano in molti: i sindacati del pubblico impiego hanno proclamato lo sciopero per il 28 settembre. Per i lavoratori della pubblica amministrazione sono varie le novità: dal buono pasto portato a un massimo di 7 euro al divieto di monetizzare le ferie. Fino all'intervento più consistente: la riduzione del 20% di dirigenti e 10% di altri dipendenti, grazie a prepensionamenti, derogando alla riforma Fornero, e alla mobilità. Previste sforbiciate nella dotazione dei ministeri (circa 4,6 miliardi in meno dal 2013 al 2015), nelle spese per acquisto di beni e servizi (come i tagli del 50% alle auto blu rispetto al 2011), nei trasferimenti a Regioni ed enti locali (ma, novità introdotta nell'esame parlamentare, i comuni vedono arrivare 800 milioni). Le Province verranno «riordinate» secondo criteri di numero di abitanti (almeno 350 mila) e ampiezza del territorio (2.500 chilometri quadrati), mentre dieci di loro, le più grandi, da Roma a Milano a Torino, diventano città metropolitane. Capitolo a parte la sanità: tagli al fondo sanitario nazionale (900 milioni in meno quest'anno, 1,8 miliardi nel 2013, due miliardi nel 2014) e Regioni obbligate a tagliare i posti letto in ospedale da quattro a 3,7 ogni mille abitanti. E poi vengono alzati gli sconti obbligatori delle farmacie al Servizio sanitario nazionale (dall'1,82 al 2,25%), mentre per quelli a carico delle aziende il rialzo è molto più impegnativo (dall'1,83% al 4,1), ma solo per il 2012. Possibilità per il medico di indicare in ricetta, oltre al principio attivo, una particolare marca di farmaco, ma accompagnata da spiegazione (e diventa vincolante per il farmacista). Inoltre, novità introdotta dal Senato, è possibile per le otto regioni in deficit sanitario (tra cui il Piemonte), anticipare al 2013 l'aumento dell'addizionale Irpef, dallo 0,5% all'1,1%. Tra le altre novità introdotte nel passaggio parlamentare, l'aumento delle tasse universitarie agli studenti fuori corso (mentre le rette saranno bloccate fino al 2016 per studenti in regola con reddito basso) e il tetto di 300 mila euro per manager di aziende partecipate dello Stato non quotate.

 

I due SuperMario: il dibattito a Berlino si spacca sugli italiani - Tonia Mastrobuoni

TORINO - La discussione politica in Germania è ormai totalmente monopolizzata dai due "Super Mario" italiani. Ma mentre dal governo tedesco è arrivato ieri un appoggio esplicito e pieno alle ultime decisioni della Bce, Mario Monti ha dovuto far fronte ad una vera e propria levata di scudi bipartisan contro una frase della sua intervista allo Spiegel. «Se i governi si facessero condizionare dalle decisioni dei loro parlamenti, senza mantenere margini di manovra, la disintegrazione dell'Europa sarebbe più probabile dell'integrazione»: queste le parole del presidente del Consiglio che sono riuscite a ricompattare destra e sinistra tedesca in un'unanime reazione indignata. In Germania, il paese che ha partorito con il nazismo l'esempio più devastante dell'antiparlamentarismo di tutti i tempi, il fatto che ogni decisione europea passi per il Parlamento non è mai percepita come una sclerosi. È un fatto sacro. Tanto che addirittura il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, fu rimproverato mesi fa dal ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, perché si era permesso di suggerire al Bundestag di votare per una delle innumerevoli decisioni prese a Bruxelles. Se l'autonomia della banca centrale tedesca è intoccabile, lo è altrettanto quella del Parlamento, lo rimbrottò Schäuble. Non meraviglia, dunque, la durezza delle reazioni registrate ieri a Berlino, a cominciare da quella del portavoce di Angela Merkel, Georg Streiter:«È convinzione della cancelliera che la Germania funzioni abbastanza bene con l'appoggio del Parlamento». E le indicazioni più recenti della Corte costituzionale, ha aggiunto, «ci fanno pensare, anzi, che il Parlamento sarebbe da coinvolgere di più e non di meno». Un ragionamento cui ha fatto eco quello del ministro degli Esteri Westerwelle e, con toni ancora più duri, il presidente del Bundestag, Norbert Lammert: «è vero il contrario» di quanto affermato da Monti. Il capo della Csu, dell'ala destra dei cristianodemocratici, Alexander Dobrindt, ha sparato come al solito ad alzo zero parlando di un «attentato alla democrazia» ed ha detto che «l'avidità di Monti lo spinge verso lidi antidemocratici». Ma la novità è che contro l'italiano si è fatta sentire anche l'opposizione socialdemocratica. Per il vice capogruppo della Spd, Joachim Poss, «l'accettazione dell'euro e del suo salvataggio vengono rafforzati e non indeboliti dai passaggi parlamentari». Evidentemente, ha aggiunto velenoso, «gli orrendi anni del berlusconismo hanno fatto un po' smarrire il senso dell'importanza del parlamento». Questa convergenza sulla linea anti-Monti ha fatto dimenticare per un momento che le critiche scomposte alla decisione di Mario Draghi di giovedì scorso erano venute invece solamente dalla Csu e dalla Fdp, il partito dei liberali che dal 2009 ha perso due terzi del suo elettorato. Entrambi hanno già scelto l'euroscetticismo come cifra della campagna elettorale per le politiche del 2013 e lo fanno sentire ad ogni piè sospinto. Ma è un connubio che non rappresenta certo la Germania, né tantomeno il governo di Angela Merkel. Nella sonnecchiante Berlino prevacanziera gli sparuti commenti anti-Draghi hanno fatto, tuttavia, rumore. Così, nelle stesse fila di questa destra governativa qualcuno ha cominciato a distinguersi: il ministro degli Esteri Guido Westerwelle ha invitato la Csu ad usare toni meno violenti: «Il tono della discussione è molto pericoloso - ha detto il politico liberale -. Dobbiamo stare attenti a non distruggere l'Europa a parole». Aggiungendo che «se si vuole fare qualcosa, bisogna farlo senza toni aggressivi». Qualche minuto prima l'esponente della Csu Michelbach aveva chiesto a Draghi trasparenza totale sui bilanci, di dichiarare cioè di che paesi sono i bond depositati a Francoforte. Ma dal portavoce della cancelliera è arrivato un endorsement forte e chiaro a Draghi: «il governo tedesco non ha alcun dubbio che tutto ciò che la Bce fa, è nel rispetto del suo mandato».

 

Crollo dell'euro. Le banche Usa si preparano - Sandra Riccio

TORINO - Mentre i mercati sembrano rivedere un po' di luce in fondo al tunnel della crisi europea, le banche di Wall Street e i grandi gruppi dell'industria non condividono le stesse speranze e si attrezzano per il peggio. L'ipotesi che mettono in conto è quella di una potenziale uscita di uno dei Paese, se non addirittura quella del collasso dell'intera Unione monetaria. Le manovre, neanche tanto celate, sono da fine del mondo. In prima fila ci sono le banche, grandi colossi americani del calibro di Goldman Sachs o Bank of America. Alcuni di questi istituti stanno chiedendo alle controparti e ai creditori di rivedere i contratti oppure trovare un'altra banca con cui fare affari. È quanto riportato ieri dal Financial Times , che ha sottolineato come gli istituti in questione, ricorrendo a strategie di copertura, come i credit default swap, stanno di fatto riducendo la loro esposizione netta nei Paesi in difficoltà. Una tendenza a coprirsi e riorientare il portafoglio che non risparmia l'Italia, con i big della finanza internazionale che corrono ai ripari, acquistando cds per proteggersi dal default dei titoli italiani. Non solo: le grandi banche di Wall Street sono anche impegnate ad assicurarsi che se un Paese lasciasse l'area euro non si troverebbero a ricevere pagamenti in valute come le meno attraenti dracma o peseta. «Ci stiamo preparando a un totale collasso dell'euro che avverrà nei prossimi 18-24 mesi», ha dichiarato un banchiere americano al quotidiano della City. Di fatto JPMorgan, Bank of America, Citigroup, Morgan Stanley e Goldman Sachs hanno ridotto la loro esposizione all'area. Tuttavia non c'è accordo tra le banche Usa su quanto grave sia la situazione in Europa. Lo dimostra la distribuzione dei rispettivi investimenti. Se da una parte, Morgan Stanley si ferma a un'esposizione di «appena» 5 miliardi di dollari sui cinque Paesi più a rischio: Grecia, Spagna, Italia, Irlanda, Portogallo. Dall'altra c'è JP Morgan che invece arriva a superare i 20 miliardi. Per quanto riguarda l'Italia, in base ai dati pubblicati da Handseblatt , alcuni big internazionali avrebbero rafforzato le loro tutele contro il rischio Italia. JpMorgan avrebbe aumentato la percentuale di bond italiani assicurati con cds dal 52% al 61%. Per Ubs la percentuale è salita dal 69% al 90%. Le banche non sono le sole a cercare rifugio. Cresce il numero dei grandi gruppi internazionali che decidono di ritirare la propria liquidità dalla zona euro. «La nostra propensione al rischio di credito in Europa è cambiata» ha detto senza mezzi termini al Times di Londra, Simon Henry, il responsabile delle finanze del colosso angloolandese Shell. Il gigante del petrolio, che tra l'altro per fatturato e capitalizzazione è il più grande gruppo in europeo, starebbe sistematicamente spostando la sua liquidità sui conti Usa, o, in alternativa, sui titoli di Stato americani. A metà giugno la liquidità del gruppo era di 17,5 miliardi di dollari. Il gruppo avrebbe iniziato già due anni fa a trasferire i capitali. Quello di Shell non è un caso isolato. Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung , nella lista dei «fuggitivi» ci sarebbero anche il gruppo Vodafone e il colosso farmaceutico GlaxoSmithKline. In particolare, secondo quanto riportato dalla Faz , Vodafone preleverebbe ogni sera dai conti correnti in Grecia tutte le somme in eccedenza. Anche GlaxSmithKline a fine serata trasferirebbe diverse centinaia di milioni di euro dai Paesi dell'euro per metterli sui conti inglesi. Wpp, colosso britannico della pubblicità, invece preferisce convertire tutte le entrate dell'area euro subito in dollari.

 

Si sfalda la macchina della repressione Assad come Gheddafi - Domenico Quirico

È lo scenario libico: il tiranno ogni giorno si guarda attorno e scopre di essere sempre più solo. Il potere, ovvero le sue possibilità di controllare uomini e cose, di dare ordini, si raggrinzisce, lo costringe a complicati contorsionismi per non cadere nel vuoto che è già proprietà degli Altri, dei nemici, dei «terroristi». Nel palazzo di Damasco, dove si intendono esplosioni e spari, si fanno discorsi da notte di Amleto vicino alla tomba di Yorick. Bashar grida, bestemmia, inveisce, minaccia, Come Gheddafi nella caserma di Tripoli. Ma le stanze si fanno ogni giorno più vuote: non rispondono gli ambasciatori che, pure, per anni hanno tessuto gli epicedi del regime e officiato i suoi sudici maneggi diplomatici e commerciali; si proclamano democratici seppure della venticinquesima ora; i militari, prima i quadri medi poi i generali, fanno la questua per avere i gradi, ma nell'Armata siriana libera, invocando «il dovere di non sparare sul popolo». Che fino al giorno prima hanno allegramente massacrato. Ora è la volta dei ministri, baciavano la bandiera del Ba'ath, li ha folgorati, improvvisa, la necessità della terza via, del negoziato e del dialogo, denunciano «il genocidio» come se non fosse iniziato ventimila, sì ventimila esseri umani fa. Una umanità, questa dei convertiti, dei defezionanti, greve, disfatta, accigliata, che cerca un altro domani confortevole, con il rancore del potere e dell' autorità. Dopo più di 500 giorni di rivolta e di guerra, il Giano di Damasco dalle mani insanguinate ripercorre, orma su orma, il cammino del Colonnello. Resterà (ma quanto? Quanti morti saranno ancora necessari?) con il suo clan alawita che gli deve una solidarietà di sangue, con gli shabiha, le brigate nere macchiatesi di tali delitti che per loro non c'è possibile remissione. All'ultimo forse anche costoro gli mancheranno, sarà solo con i suoi alleati Hezbollah libanesi che hanno messo a sua disposizione, sciaguratamente, un'arte bellica che ha tenuto testa a Israele; e forse i pasdaran degli ayatollah iraniani. Sarà travestito con le loro divise che tenterà la fuga finale. Ma nascosto dietro lo scudo del veto e delle armi russe e cinesi e del denaro iraniano ha ancora un esercito da lanciare contro il suo popolo: è quanto sta facendo ad Aleppo, in queste ore. Attenzione a immaginare scorci distrattamente azzardati: il regime può ancora uccidere massacrare nuocere. Ci vorrà tempo. Sono già più di ventimila i quadri che sono fuggiti, funzionari civili, quadri medi e superiori, militari. L'apparato dello Stato cigola nei suoi meccanismi, rischia di incepparsi perché troppe rotelle sono fuori uso o sono state strappate via. La Siria, come tutti i regimi arabi che le rivoluzioni stanno tentando di smontare, è costruita attorno all'apparato della Sicurezza: spionaggio interno, repressione, terrore, sono le uniche voci dell'attività statale cui si presta attenzione. Ma ora persino la repressione si fa difficile. Ad Aleppo mancano i sergenti, gli ufficiali sperimentati per guidare i rinforzi all'assalto dei quartieri in mano ai ribelli: hanno disertato. Le defezioni come quelle di ieri ormai hanno raggiunto i livelli più elevati, facilitate, finanziate dalla Cia, dagli altri servizi occidentali e dai Paesi arabi, Arabia Saudita e Qatar, con i forzieri sempre aperti. Come in Libia, questi uomini hanno spesso le mani sudice di 40 anni di regime, le tasche gonfie di denaro guadagnato con i borseggi e le ruberie che Bashar aveva ribattezzato «liberalizzazione economica». Ma sono per il presidente il segnale di una china tutta infocata dal sempre più veloce ingranaggio dell'angoscia. Perché nelle dittature la linea di non ritorno si frange quando i satrapi, i gerarchi, i pescecani che hanno gavazzato per decenni nel Potere giudicano il proprio interesse improvvisamente separato da quello del Capo, del Padrone. Allora l'esercito può essere ancora possente, i boia ancora disponibili, gli avversari come noi Occidente tiepidi e vili, ma nulla potrà essere fatto per rimediare. Ogni giorno, d'ora in avanti, Assad il giovane, che credevamo un fatuo Baby doc o un complessato Somoza junior e invece si è dimostrato di sangue fanatico e irato, convinto di potere aggiustare i conti della Storia col filo della spada, constaterà l'inizio della fine. In fondo Bashar è anche lui un prigioniero del sistema, anzi ne è l'Arciprigioniero,fra lui e il sistema esiste una identità assoluta cui non può sfuggire senza smarrirsi. L'intellettuale egiziano Saad Eddin Ibrahim ha inventato un neologismo per descrivere alcuni regimi arabi: «Jumlakia». L'inizio della parola repubblica, la fine della parola monarchia. L'inizio di un mandato. La fine di un regno. Il re-presidente è nudo. Si è svelato nel massacro. Il suo Paese lo ha abbandonato.

 

L'infinita roulette russa delle miniere sudamericane - Lorenzo Cairoli

Il Cile ha celebrato in questi giorni il secondo anniversario della liberazione dei 33 minatori che per sessantanove giorni sopravvissero intrappolati in una miniera nel deserto di Atacama, a ottocento metri di profondità. Il presidente Sebastián Piñera ha scelto come luogo della commemorazione la cittadina di Copiapó che avrebbe dovuto essere la tomba dei 33 se le operazioni di soccorso non fossero andate a buon fine. Aldilà dei discorsi enfatici del presidente e delle testimonianze dei minatori miracolati, la bella notizia è che il Cile - o così almeno sembra - ha fatto tesoro della tragedia. Secondo un dossier del Ministerio de Minería gli incidenti nelle 8.500 miniere del paese sono diminuiti sensibilmente - si parla del 40% e solo in un anno del 36%. Peccato non si possa dire altrettanto per gli altri paesi dell'America Latina, come Colombia o Perù, dove il lavoro in miniera è una roulette russa che si ripete quotidianamente. In Cile è Codelco a detenere il monopolio delle miniere di rame, cioè lo Stato. In Perù, da circa 90 anni, le estrazioni minerarie sono in mano a privati. Quando avvenne l'incidente nella miniera di San José lo stato cileno intervenne immediatamente. Quando avviene un incidente in una miniera peruviana i responsabili delle miniere devono chiedere aiuto ad imprese esterne come Buenaventura. Con perdite di tempo che possono risultare fatali e con costi onerosi che spesso frenano le operazioni di soccorso. Del miracolo di San José sono stato testimone qui in Colombia. Quando liberarono Florencio Avalos dalle viscere della terra, io ero a una festa di compleanno in un barrio che, tu pensa che coincidenza, si chiama Chile. Mi ricordava molto le borgate romane raccontate da Pasolini. Strade di terra, la gente tutta fuori dalle case, a giocare a carte, a guardare la tivù, a ballare, perchè nelle abitazioni piccolissime e dai soffitti bassi bastava pensare alla parola calore per sudare come in un bagno turco. Due bande si scontravano lanciandosi addosso petardi assordanti, quasi fossero bottiglie molotov. Feline lolite nere, nere come i semi delle papaye, sculettavano e ancheggiavano per la strada eccitando una combriccola di mototaxisti mezzi ubriachi, mentre la più bella del quartiere si sporgeva dal finestrino di una Mercedes targata Medellin, lanciando occhiate sardoniche a chi invano aveva provato a corteggiarla. Poi, una volta rientrato a casa, ho visto risalire in superficie il secondo minatore, Mario Sepulveda, che ha celebrato il suo ritorno alla vita con un happening alla Benigni che ha divertito e commosso il mondo intero.

 

Corsera - 7.8.12

 

Esodati, il giallo del messaggio Inps - Enrico Marro

ROMA - La circolare «scomparsa», la chiama Giancarlo Santorsola, lavoratore esodato del settore bancario attualmente a carico del Fondo di solidarietà del credito, che ha scritto alle segreterie dei ministri del Lavoro e del Tesoro, oltre che ai leader sindacali e ai parlamentari Giuliano Cazzola del Pdl e Cesare Damiano del Pd. È successo che il 3 agosto scorso sul sito dell'Inps è apparso il messaggio numero 13.052 che per qualche ora ha rovinato la giornata del signor Santorsola. Il quale è uno dei 120 mila esodati finora salvaguardati attraverso due decreti del governo (il primo per 65 mila lavoratori e il secondo per altri 55 mila). Gli esodati sono quei lavoratori che rischiano di restare senza stipendio e senza pensione perché usciti più o meno volontariamente da aziende in crisi, con l'aspettativa di andare di lì a poco in pensione e invece si sono ritrovati improvvisamente con lo scenario cambiato dalla riforma della previdenza dello scorso dicembre, che ha inasprito fortemente i requisiti (età e contributi) necessari per lasciare il lavoro. Quanti siano questi lavoratori a rischio di rimanere senza reddito per periodi più o meno lunghi nessuno lo sa. La questione è stata e ancora è al centro di un duro scontro fra governo e sindacati, governo e Inps, governo e forze politiche. Alla fine lo stesso ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha ammesso che gli esodati potrebbero essere più dei 120 mila salvaguardati finora, ma che il problema, nel caso, si presenterà nei prossimi anni. Intanto quelli salvaguardati possono dormire sonni tranquilli, perché potranno andare in pensione con le vecchie regole (quelle prima della riforma Fornero) non appena le raggiungeranno. I 120 mila sono stati individuati in una serie di categorie (lavoratori in mobilità, ammessi a contribuzione volontaria, usciti con accordi individuali, assistiti dai fondi di solidarietà, eccetera) a patto che abbiano determinati requisiti di età e contribuzione. Il signor Santorsola è uno di questi. È stato lo stesso Inps presieduto da Antonio Mastrapasqua a dargli la buona notizia con una lettera come quella che è stata spedita a tutti gli altri esodati da salvaguardare individuati dall'istituto. Solo che quando il nostro bancario ha letto il messaggio 13.052 dell'Inps è improvvisamente diventato di cattivo umore, perché lì dentro si prevedeva che anche ai cosiddetti «quarantisti» si applicava l'adeguamento alla speranza di vita, cioè i tre mesi in più necessari per raggiungere la pensione a partire dal 2013, già decisi prima della riforma Fornero. I quarantisti sono quelli che con le vecchie regole potevano andare in pensione anticipata (si chiamava pensione di anzianità) con 40 anni di contributi, indipendentemente dall'età. Tra gli esodati salvaguardati ci sono diverse migliaia di lavoratori che come Santorsola potranno andare in quiescenza al raggiungimento dei 40 anni (dopo la riforma Fornero servono invece 42 anni e un mese per gli uomini e 41 anni e un mese per le donne). Ma a costoro si applicano anche i tre mesi in più che scattano dal 2013? In questo caso ci sarebbero circa 1.200 lavoratori a rischio di restare senza reddito per qualche mese. Secondo il bancario che protesta, l'applicazione dei tre mesi ai quarantisti salvaguardati sarebbe «illegittimo». Comunque sia, già la sera del 3 agosto l'Inps ha ritirato dal sito il messaggio. «Sono necessari ulteriori approfondimenti con i ministeri vigilanti» (Lavoro, Economia), spiegano all'Inps. «Del resto - aggiungono - non c'è urgenza perché i tre mesi in più scatterebbero dal prossimo anno». E i tecnici assicurano: «Si troverà una soluzione per salvaguardare anche questi casi, o non applicando l'adeguamento alla speranza di vita o prolungando di qualche mese l'ammortizzatore sociale». Un piccolo caso, che conferma però quante spine riservi ancora la questione degli esodati.

 

Promesse da marinaio all'amianto - Giovanna Corsetti

"Come portavoce dei miei colleghi ho il dovere di conoscere le condizioni di lavoro nelle quali siamo chiamati a svolgere la nostra attività, in merito alla presenza o meno di amianto a bordo, il tutto in rispetto della normativa vigente...e nell'interesse che attiene alla sfera della salute personale di ogni vostro dipendente". Sono alcuni passaggi di una lettera aperta, redatta da alcuni dipendenti e indirizzata, in data 25 giugno 2012, alla società di navigazione Tirrenia e, ad oggi, rimasta senza alcuna risposta. L'eventuale presenza di amianto riguarderebbe una classe di vecchie navi della Tirrenia, indicate come le "Navi Consolari" o "Strade Romane" e in particolare la nave Clodia, Nomentana, Aurelia e Flaminia. LA PRESENZA DELL'AMIANTO - La presenza dell'amianto a bordo di queste navi, a distanza di 20 anni dalla prima legge che nel 1992 ne vietava l'utilizzo e nelle successive integrazioni ne imponeva la dismissione e la bonifica, sarebbe testimoniata anche da alcuni filmati e documenti fotografici diffusi dall'Ona, l'Osservatorio Nazionale sull'Amianto, e realizzate a bordo della nave Aurelia, nei mesi di giugno e luglio 2012. IL MESOTELIOMA - Sempre secondo i dati dell'Ona sarebbero molti i marittimi ad aver contratto il mesotelioma pleurico, malattia da amianto correlata. I dati a disposizione dell'Osservatorio ed in particolare il secondo e il terzo rapporto Renam (Registro Nazionale dei mesoteliomi) indicherebbero il settore marittimo come uno di quelli più a rischio amianto, per la salute dei lavoratori. Il Renam è un rapporto annuo ufficiale, redatto dall'Ispesl (adesso Inail) secondo quanto previsto dalla legge del 1992. Quindi sia i dati del Registro Nazionale dei mesoteliomi che la documentazione medica di alcuni marittimi affetti da mesotelioma attesterebbero un nesso causale tra le forme di mesotelioma e l'attività lavorativa svolta a bordo delle navi. Su questo sono stati presentati esposti, sia dai lavoratori della Tirrenia che dall'Ona, presso la Procura della Repubblica di Latina, Crotone, Civitavecchia e Napoli. Inoltre la Procura della Repubblica di Padova starebbe indagando su alcuni casi di mesotelioma verificatisi tra i lavoratori della Marina Militare. LA CIN - Lo scorso 20 luglio si è concluso il processo di privatizzazione della Tirrenia e la società è stata acquistata dalla Compagnia Italiana di Navigazione. Il nuovo amministratore delegato della Cin, Ettore Morace, da noi interpellato, esclude che a bordo delle navi classe "Strade Romane" possa trovarsi amianto dannoso per i lavoratori in quanto secondo le sue parole, le navi avrebbero tutte le certificazioni necessarie e rilasciate a norma di legge. Sempre secondo Morace, le denunce sull'amianto dei lavoratori ex Tirrenia non troverebbero alcun fondamento e sarebbero solo un: «tentativo per poter andare in pensione prima e prendendo una pensione importante», un tentativo quindi di avvalersi dei diritti previsti dalla legge per i lavoratori esposti ad amianto. L'EX TIRRENIA - Per il Presidente Nazionale dell'Ona, l'avvocato Ezio Bonanni, la società Tirrenia, come compagnia di navigazione statale, ha per anni vissuto una condizione in cui Controllato ed Enti controllori erano di fatto la stessa cosa e questo ha impedito che ci fosse chiarezza. Inoltre il timore dei lavoratori ex Tirrenia, oggi Compagnia Italiana di Navigazione, è che la recente acquisizione della Tirrenia comporti un colpo di spugna su tutto il pregresso.

 

Non è solo una questione di soldi - Ernesto Galli della Loggia

Ormai dovremmo saperlo, ma giova ripeterlo. Abbiamo vissuto per anni indebitandoci allegramente. Per anni l'Italia ha rappresentato un esempio da manuale di colpevole democrazia della spesa non coperta da entrate adeguate; cioè di una classe politica irresponsabile (la stessa, peraltro, che tra poco più di sei mesi ci chiederà il voto), la quale pensava sempre solo al suo consenso e mai al futuro del Paese. E anche un esempio, per favore non dimentichiamolo, di cittadini sempre avidi, ogni volta che ne avevano la forza, di chiedere soldi pubblici e privilegi a carico dell'erario. Di questi fondatissimi dati di fatto si fa forte Stefano Micossi sul Corriere di ieri, e con lui altri cortesi critici del mio editoriale di domenica scorsa, per sottolineare che è vano «stupirsi - come io avrei fatto - se il condominio dell'euro non si fida di noi e ci mette sotto tutela», imponendoci condizioni lesive della nostra sovranità. Insomma, «chi è causa del suo mal» con quel che segue. Sennonché le cose - a me sembra - sono un pò più complicate. Cerco di spiegarmi aiutandomi con un paragone. Quello con il Fondo monetario internazionale, il quale, come si sa, presta aiuto finanziario ai Paesi in difficoltà a patto che questi seguano le indicazioni di politica economica che esso di volta in volta suggerisce loro. Anche qui, dunque, è implicata una cessione di sovranità, ma di essa nessuno si è mai meravigliato. Da che mondo è mondo, infatti, la dura condizione d'inferiorità del debitore obbliga questi a stare ai desiderata del creditore. O fa come vuole lui, o niente. È a tutti evidente, però, la differenza tra questo caso e il nostro attuale. Per due ragioni. La prima - fondamentalissima - è che il fondo monetario non è uno Stato. La seconda sta nel fatto che dal canto suo la Germania (parlo solo della Germania non per spirito antitedesco, ma per comodità discorsiva, in quanto rappresentativa dell'intera area economicamente forte e virtuosa dell'eurozona) non ha né può avere con l'Italia, che le piaccia o meno, un rapporto come quello, a suo modo assai semplice nella sua limpida brutalità, tra chi ha bisogno di soldi e chi ne dispone. La Germania non è il rappresentante autorizzato né dei sottoscrittori stranieri del nostro debito pubblico né del fondo salva Stati (e tra l'altro in questa fase si sta avvantaggiando rispetto agli altri Paesi finanziandosi a tassi negativi). È un Paese che ha con il nostro (e non solo, naturalmente) un assai antico e complesso rapporto di solidarietà politica a tutto campo qual è da decenni quello definito dalla costruzione europea e da una connessa, amplissima, condivisione istituzionale. Entrambe queste ragioni hanno una conseguenza decisiva. Squarciano l'involucro economico del discorso e ne fanno emergere con forza il contenuto politico che alla fine è l'unico che conta, dal momento che - qualunque cosa dicano i vari trattati, anche quelli di natura più tecnica - il senso e la ragione ultima dell'Unione Europea sono per l'appunto un senso e una ragione di natura intrinsecamente politica (anche se questa non è mai riuscita a concretizzarsi in istituzioni adeguate). Ma proprio da un tale punto di vista, proprio se tutto ciò è vero, come si fa allora a non vedere l'immane incidenza politica che nell'ambito di un insieme unitario e paritario di Stati, come finora ha detto di essere la Ue, avrebbe la perdita di sovranità da parte di uno (o più) di essi? Come si fa a non mettere al centro del problema il fatto che alla perdita di sovranità, e dunque di ruolo e di peso politico da parte di uno Stato, corrisponderebbe necessariamente e immediatamente l'accrescimento di ruolo e di peso di un altro (quello della Germania)? E come si fa, infine, a considerare trascurabile l'effetto profondo ma inevitabile che questo spostamento di pesi politici avrebbe sulla natura politica, ma prima di tutto storica, della costruzione europea? Trasformandola definitivamente in un'Unione euro-carolingia a dominazione tedesca, mille miglia lontana da qualunque cosa l'europeismo di qualunque colore abbia mai pensato. È davvero questo che si vuole all'Aia, a Helsinki, e pure a Berlino? Altro che debitori e creditori, «è colpa vostra», «è merito nostro», e chiacchiere simili. Tutte cose vere, per carità, verissime. Ma che non colgono il punto. Il punto vero è che oggi sullo spread e sull'impiego del Fondo salva Stati a favore dei Paesi dell'Europa mediterranea non si gioca un braccio di ferro finanziario: si decide in realtà la questione, integralmente politica, di che cosa sarà in futuro l'Unione Europea e di che cosa saranno i regimi politici di una parte di essa.

P.S.: Cedendo all'antica tentazione nazionale di apparire sempre, di qualunque cosa si tratti, come i primi della classe, molti politici e commentatori tedeschi si sono trasformati nelle ultime ore in accigliati maestrini di democrazia ai danni del nostro presidente del Consiglio. Accusato - nientedimeno! - di aver manifestato in una intervista a Der Spiegel disprezzo verso il controllo parlamentare sui governi, fondamento di ogni regime rappresentativo. Ma è un gioco che mostra la corda. Estrapolando cinque parole si può far dire qualunque cosa a chiunque. Altro discorso però è darlo a credere davvero a chi conosce bene la personalità di Mario Monti. Come la conosce, per l'appunto, la stragrande maggioranza degli italiani: salvo ahimè i pochi politicanti da quattro soldi prestatisi anche questa volta, come spesso capita, a fare da cassa di risonanza alle maldicenze d'Oltralpe.

 

l'Unità - 7.8.12

 

Se l'Europa si rompe - Paolo Soldini

Nella sua ormai famosa intervista al settimanale tedesco "Spiegel" Mario Monti, tra le tante cose, ha detto di essere preoccupato per il clima di ostilità verso la Germania che si starebbe diffondendo in Italia. La cancelliera Merkel, ieri, ha fatto dire al suo portavoce di non vedere questo pericolo. A giudicare da certe reazioni italiane, tuttavia, sembrerebbe di poter dire che fra i due è proprio Mario Monti ad aver ragione e Angela Merkel a sbagliarsi. Si tratta delle reazioni alle pesanti polemiche accese nella Repubblica federale dall'idea del presidente del Consiglio che le decisioni economiche possano essere prese dai governi bypassando i parlamenti nazionali. Un clima antitedesco in Italia c'è, almeno tanto quanto c'è in Germania un forte pregiudizio contro l'Italia e i paesi dell'Europa meridionale più inguaiati con il debito pubblico. Il fatto che un deputato, persona peraltro in genere equilibrata, arrivi al punto di chiedere ritorsioni industriali dopo "la reazione spropositata di una parte della politica tedesca alle dichiarazioni di Monti" dimostra che le cose stanno andando pericolosamente al di là delle normali polemiche che nascono dai conflitti di interessi tra stati. Il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, che pure non è una mammola e non si è risparmiato durezze verso la Grecia e contro le ipotesi di interventi diretti della Bce a favore dei paesi in difficoltà, ieri ha invitato ad abbassare i toni di una guerra di dichiarazioni che sta diventando, anche secondo lui, "pericolosa" per la tenuta dell'Europa. Westerwelle parlava al quotidiano "Die Welt", che da tempo alimenta una pesante campagna contro i paesi che "non rispettano le regole del rigore", contro "l'italiano Mario Draghi" e via infierendo. E ce l'aveva, il ministro, soprattutto con quegli esponenti del suo stesso partito liberale e della Csu che usano le polemiche sui "soldi dei tedeschi che vanno ai paesi della Dolce Vita" per costruirsi un profilo nella campagna elettorale che presto comincerà. Sarebbe molto utile che qualcuno, in Italia, facesse la stessa cosa, stigmatizzando le espressioni di ostilità più preconcette ed evidenti. Hanno ragione a recriminare i tedeschi quando vedono su certi giornali italiani Angela Merkel con le fattezze di Hitler e altre infamie simili e poi non vedono una qualsiasi reazione da parte della politica italiana. Va detto che quando "Der Spiegel" pubblicò la famosa copertina con la pistola su un piatto di spaghetti, le giuste reazioni in Germania non mancarono. Anche al massimo livello. I pregiudizi, la superficialità dei giudizi, l'arroganza, le memoria del passato sono sempre stati ostacoli difficili da rimuovere nei rapporti tra l'Italia e la Germania. Chi scrive ha partecipato per anni ad incontri periodici tra intellettuali, politici e giornalisti italiani e tedeschi vòlti a rimuovere gli stereotipi. A cominciare da quello per cui i tedeschi amerebbero gli italiani senza rispettarli e gli italiani rispetterebbero i tedeschi senza amarli. Era un esercizio difficile, ma c'era chi si impegnava seriamente a compierlo. Mi piacerebbe sapere se gli "incontri di Villa Vigoni" (così si chiamavano) si tengano ancora. So solo che la villa sul lago di Como, simbolo dei buoni rapporti tra i due paesi, è stata sequestrata dalla magistratura italiana in una vertenza giudiziaria sui risarcimenti alle vittime delle stragi naziste. Quando Monti ha detto che un certo spirito antitedesco può disgregare l'Europa aveva ragione. E vale anche il contrario. Aveva ragione più di quando se l'è presa con i parlamenti, in una gaffe che ha fatto male ai rapporti tra Roma e Berlino quanto le controversie sugli spread e sulle politiche anti-crisi. Siamo nel 2012 e abbiamo dietro le spalle 55 anni di comune convivenza e di civilissima collaborazione tra i paesi che fondarono le istituzioni europee. Il Mercato comune, la Comunità europea e infine l'Unione non sono stati costruiti senza contrasti, anche aspri. Ma le ostilità sono state smussate, gli stereotipi abbattuti, il peso della storia sapientemente governato. Siamo cresciuti insieme, e in genere senza insultarci o pensare di essere sfruttati gli uni dagli altri. Nella crisi attuale dell'euro pare che gli interessi contrapposti non trovino più conciliazione. E' un errore grave da correggere, a cominciare dal linguaggio.

 

Un'altra strada è possibile - Michele Prospero

È sempre più evidente che la crisi economica rimane fuori da ogni controllo anzitutto per una ragione politica. C'è un nervo scoperto nel progetto europeo, ed è la mancanza di un centro di decisione comune. Gli investitori e gli speculatori internazionali (il confine tra i due mondi è sempre più sfuggente) hanno ben individuato questa stranezza istituzionale e approfittano con cinica determinazione del palpabile vuoto di potere. Senza alcun scrupolo, gli acquirenti di titoli del debito sovrano giocano pericolosamente sul filo del rasoio. Osano spingersi fino a lambire l'impensabile per ogni attore razionale, cioè sino a coltivare la incredibile vocazione al peggio che spinge un creditore a favorire la morte cruenta del debitore strozzato per insolvenza. Sperare in un operoso rinsavimento degli speculatori, che li induca a preferire giochi meno rischiosi, è un atto sin troppo illusorio. La consapevolezza della possibile rovina comune che potrebbe colpire gli attori del gioco competitivo arriva, ma purtroppo sempre in ritardo. È inutile scommettere in un soprassalto di razionalità che si ripresenta in prossimità del baratro e convince gli speculatori ottusi ad adottare mosse più responsabili. Servono comunque a poco anche le invettive morali contro l'avidità della finanza. E proprio a nulla vale rivendicare con puntiglio che i compiti a casa sono stati eseguiti con diligenza e dunque è giusto adesso elemosinare un trattamento più riguardoso. Il problema è che i manovratori del denaro non si lasciano mai incantare dai gridi di dolore e non si commuovono dinanzi ai sacrifici umani che provocano le loro spavalde gesta egoistiche. Occorre perciò, con estremo realismo, puntare su altro. Una moneta che circola senza il comando di un potere sovrano, e priva della copertura di una Banca centrale con facoltà analoghe a quelle dei governatori dei vecchi Stati nazionali, appare qualcosa di campato in aria. Si tratta di una enorme debolezza di tipo strutturale che autorizza ogni speculatore a coltivare gigantesche aspettative di lucro. Rimediare a questa strabica condizione europea, che costringe ad avere una moneta comune quando però la condotta degli Stati rimane fortemente competitiva nel mercato, è la condizione politica per affrontare di petto la crisi. Il guaio è che questa strada efficace richiede del tempo mentre dinanzi a un impazzito debito pubblico di Stati aggrediti, gli speculatori con insolenza si accaniscono sulla preda e non mollano la presa fino alla completa rovina di un Paese. È possibile uscire da questo orribile circolo vizioso (di debiti onerosi, di sacrifici recessivi per appianarli e di un debito ancor più insostenibile) che mette in ginocchio le nazioni, banalizza il gioco democratico svuotandolo di ogni senso? Dal disastro che incombe si può stare alla larga purché si abbia la forza di costruire un forte movimento europeo capace di cambiare le politiche continentali e di rivedere i meccanismi istituzionali che hanno venerato il dogma della stabilità monetaria affidata a una autoreferenziale Banca centrale. Il fattore di resistenza costituito dalla Germania deve essere sfidato con l'apparizione di un incisivo movimento politico e culturale europeo che mostri come il contagio, che dapprima colpisce un paese marginale e poi passa ad altri paesi più centrali, disegni un paesaggio spettrale per tutti. È difficile che un Paese rinunci spontaneamente ai vantaggi corposi che nel breve termine sono offerti dall'Euro (una autentica protezione dorata, rispetto alla rigidità del vecchio marco, che permette alla Germania di navigare trionfale nelle esportazioni senza più l'insidia di svalutazioni competitive escogitate dalle monete più fragili). Occorrerebbero degli statisti, che anche in Germania difettano, per scrutare oltre il mero tornaconto immediato. E però se la ragione politica è offuscata nel cogliere le tendenze di più lungo corso, anche le prosaiche cifre delle compravendite dovrebbero indurre a una maggiore accortezza. Le ultime statistiche svelano che le esportazioni tedesche in Italia nel primo trimestre del 2012 sono crollate del 18 per cento. Un Paese esportatore, che scommette sul tracollo dei Paesi che dovrebbero acquistare le proprie merci e prodotti ad alta tecnologia, costituisce una completa assurdità politica ed economica. Su questa insenatura deve penetrare la politica prima che sia troppo tardi. La sinistra europea deve essere con sempre maggiore determinazione la protagonista principale di una fuoriuscita dalla crisi che viene sempre più aggravata dalla cecità delle destre tedesche. La politica conta, come è emerso con trasparenza quando la Francia di Hollande ha spezzato l'asse di Parigi con Bonn, incrinando la solidità della dittatura del santo rigore. Al vecchio progetto europeo affidato alla asimmetria di potenza degli Stati (che invocano per i Paesi in difficoltà misure di intervento finanziario in cambio di drammatici impegni pluriennali a sostenere sacrifici che di fatto spingono fino alla terribile eutanasia della democrazia) occorre ormai contrapporre con coerenza il percorso di un'altra integrazione europea che confida nel valore costituente dei grandi partiti continentali. Non gli Stati, con la loro inestirpabile volontà di potenza e di assoggettamento, ma i partiti, con il loro spirito di inclusione, devono essere gli artefici di una nuova Europa politica, capace di omogeneità sociale e fiscale, di decisione sulle grandi emergenze. Solo dalla sinistra e dai progressisti può venire una risposta alla drammatica fine dell'Europa.

 

Europa - 7.8.12

 

Ha solo detto la verità - Stefano Menichini

Rileggiamola, la frase di Mario Monti allo Spiegel che fa indignare giornali e politici tedeschi, ma anche alcuni politici italiani di destra e di sinistra compreso qualcuno del Pd: «Se i governi si facessero vincolare del tutto dalle decisioni dei loro parlamenti, senza mantenere un proprio spazio di manovra, allora una disintegrazione dell'Europa sarebbe più probabile di un'integrazione». Che cosa c'è di sbagliato? Di non vero? Di non rispondente alla realtà dell'antieuropeismo nei parlamenti Ue? E, in particolare, di inesatto o di offensivo a proposito del parlamento italiano, considerando l'esperienza che stiamo facendo sull'affidabilità del centrodestra (Pdl più Lega) tuttora maggioranza alla camera e al senato? Posso capire se a insorgere è un leghista, non stupiscono le reazioni di certi berlusconiani. Ma i democratici? Non sono loro (in particolare quelli più "di sinistra") che denunciano come in parlamento non si possa più combinare nulla di buono, e quanto siano pericolose le tentazioni populiste ed euroscettiche del Pdl? Non ha costruito Bersani proprio su questa denuncia l'intera sua piattaforma elettorale? Monti sostiene che i governi devono mantenere un margine di manovra che non dipenda dagli equilibri fra partiti. E infatti, se lui avesse dovuto aspettare una forte mozione unitaria del parlamento italiano alla vigilia del decisivo consiglio europeo di fine giugno, sarebbe dovuto rimanere fermo: la mozione unitaria non c'è stata. Che aria tiri nel corpo elettorale europeo lo sappiamo bene. Se Merkel seguisse gli umori di Cdu e Spd, per non dire degli altri, sai da quanto tempo avrebbe dovuto mandarci a spasso? Il freddo vento di rancore contro la Ue, e fra paese e paese, dobbiamo accompagnarlo o contrastarlo? E alla fine, le leadership a che cosa servono, se non a guidare processi difficili anche quando non sono immediatamente e totalmente condivisi? Se la politica e i partiti che ambiscono a riprendere centralità hanno il sangue così diluito nell'acqua, non sappiamo se davvero augurare loro di tornare a vincere.

 

Le nostre élite e Berlino - Franco Mosconi

Non è solo questione di spread, così come non è solo questione di alti e bassi della Borsa. Sono questi i dati che dominano le cronache finanziarie e animano il dibattito politico. Ma siamo sicuri che un paese che ha una disoccupazione superiore al 10%, una disoccupazione giovanile (15-24 anni) che supera ampiamente il muro del 30%, un quarto della popolazione a rischio povertà, centinaia e centinaia di imprese in crisi possa mettere i dati che riguardano il benessere della generalità dei suoi cittadini sempre in secondo piano? Posto in altri termini: possiamo permetterci un discorso pubblico dominato da un lato dall'emergenza finanziaria e dall'altro dalla politique politicienne? Ora, della prima c'è per fortuna chi se ne occupa con serietà mentre della seconda si fa fatica a intravedere un cambio di passo. Una sintesi perfetta è rappresentata - a nostro giudizio - dal bell'articolo scritto da Corrado Stajano per il Corriere della sera (2 agosto): «La dignità ritrovata con Monti e i giochini dei vecchi partiti». Quello che sta in mezzo - torniamo così alla nostra domanda - non è poco: riguarda l'economia reale e la società nella sua concretezza; ha dunque eminentemente a che fare con imprese e famiglie. Di più: dovrebbe vedere tutte le classi dirigenti, quelle politiche, quelle economiche, quelle accademiche - insomma, le élite del paese - unite nello sforzo per modernizzare davvero il paese. Ognuno, invece, sembra giocare la propria partita (o, a seconda dei casi, la propria partitella). Ben diversa la situazione della Germania - a cui guardiamo con rispetto - come ci dice un profondo conoscitore di quel paese, Claudio Magris: «Il prestigio e il rilievo dell'odierna Germania derivano in buona parte da quel capitalismo renano: un capitalismo umano anzitutto, per i suoi legami con la realtà concreta, con le cose e non con l'immaterialità della finanza. Questo rapporto con la realtà e non solo con la sua finzione e rappresentazione ha inevitabilmente una carica morale, che è sempre concreta, come l'olio e il vino nelle parabole evangeliche». E pensare che di cose da fare ce ne sono tante, tantissime: chiamiamoli pure, se vogliamo, i «compiti a casa». Alcune «materie» - per restare nella metafora - sono in buone mani: «Se tutto andrà secondo i nostri piani - ha affermato il presidente del consiglio Monti nella recentissima intervista al settimanale tedesco Der Spiegel - resterò in carica fino all'aprile 2013 e spero che per allora avremo scongiurato la rovina finanziaria». Che cosa dire invece delle altre materie? Un rigoroso elenco lo possiamo ancora oggi trovare nel testo della famosissima lettera congiunta a firma Jean-Claude Trichet e Mario Draghi datata Francoforte/ Roma e indirizzata giusto un anno fa - era il 5 agosto 2011 - all'allora presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi. L'Italia, secondo il consiglio direttivo della Bce, doveva «con urgenza - era l'incipit della lettera - rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali»; fortissima l'enfasi sulla necessità - era il punto n. 1 della missiva - di «accrescere il potenziale di crescita». Al riguardo, si indicavano non solo le liberalizzazioni (dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali) e la riforma ulteriore del sistema di contrattazione salariale collettiva, ma anche «un sistema di assicurazione dalla disoccupazione» e un «insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso aziende e verso settori più competitivi». Più di recente, con due interviste rispettivamente al Corriere della sera (8 luglio) e la Repubblica (5 agosto), è stato il neo governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, a indicare alcune vie da percorrere per rimettere l'Italia su un sentiero di crescita, pur nella consapevolezza che la recessione ci accompagnerà anche nel 2013. Il governatore ha diviso lo spread in due componenti: solo la prima «è colpa nostra» (ossia, del nostro debito pubblico e della nostra scarsa competitività), mentre la seconda «rappresenta un premio al rischio che lo stato italiano paga per il timore dei sottoscrittori dei suoi titoli che a un certo punto la moneta unica non ci sia più». La prima componente (Visco si spinge a quantificarla nei due-quinti) deve spingere verso la prosecuzione dello sforzo di risanamento e, a un tempo, di riforme; la seconda (il resto) deve indurre l'Italia a giocare in ambito europeo il ruolo che le compete come paese fondatore per completare il processo di integrazione europea sul versante fiscale e politico dopo ciò che è stato costruito sul versante monetario. Le due strategie (non puoi giocare come paese un ruolo da protagonista in Europa se non hai credibilità) sono intimamente e naturalmente collegate, come negli anni delle convergenza verso l'euro dimostrò il primo governo Prodi e come in questi mesi sta dimostrando il governo Monti. Non sciupiamo tutto con una lunghissima e inconcludente campagna elettorale. Giova ripeterlo: le cose da fare, per un paese che vive all'ombra della montagna indebitata ma che ha saputo conservare una buona base manifatturiera con una spiccata vocazione all'export, sono tantissime. Un debito pubblico pari al 123 per cento del Pil, con tutto ciò che ne consegue, è una caratteristica che ci rende profondamente diversi dalla Germania; una manifattura che non è scomparsa, come invece è accaduto nei paesi anglosassoni, è qualcosa che ci avvicina parzialmente al capitalismo renano (le loro imprese infatti sono mediamente più grandi delle nostre e operano in settori a più elevata tecnologia). Se tuttavia si dà valore a quest'ultima similitudine, non dovrebbe essere impossibile mettere in cantiere - o, a seconda dei casi, completare - un insieme di riforme in sé coerenti che toccano sia il mercato del lavoro e il welfare sia la ricerca e il trasferimento tecnologico. Solo a titolo di esempio: le nostre classi dirigenti predicano ai nostri giovani di abituarsi alla flessibilità perché il lavoro a vita non esiste più, ma non hanno edificato niente che assomigli a un sistema di protezione universalistico contro la disoccupazione e per il momento del bisogno del lavoratore in quanto cittadino. Ancora: da molti scranni si proclamano le radici cristiane del paese, ma molto poco è stato fatto per dare corpo a politiche capaci di aiutare veramente, vuoi con trasferimenti vuoi col fisco, le famiglie numerose. Per non parlare poi - su un altro versante - della vacuità delle politiche italiane per la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico, con una politica industriale (leggi: politica per gli investimenti in conoscenza) frammentata in tanti rivoli regionali e provinciali. Con l'individualismo, nel mondo d'oggi, non si va da nessuna parte. Serve lo spirito di comunità, quello evocato da Magris: cerchiamo almeno di insegnarlo alle nuove generazioni. Non so se vivranno in un paese più alla tedesca e non so, in verità, se questo debba essere l'auspicio. Quel che è certo è che vivrebbero in un paese più moderno, efficiente e solidale.

 




Data notizia07.08.2012

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