Proposta Documento Politico Congresso 2021
UNIONE INQUILINI
XVI CONGRESSO NAZIONALE
24 – 26 SETTEMBRE 2021
UNA CONFEDERAZIONE
PER IL DIRITTO ALLA CASA
E ALL’ABITARE
PROPOSTA DI DOCUMENTO POLITICO
PARTE PRIMA: LA PROPOSTA POLITICA
1. Il cuore della proposta: “Una confederazione per il diritto alla casa”
Serve una proposta strategica per rispondere a questa cruciale domanda: quale fronte di alleanze, innanzitutto sociali, è oggi necessaria per tentare di scalare il picco impervio dell’efficacia della propria azione?
E’ chiaro, almeno a noi dell’Unione Inquilini, che le nostre forze, da sole, sono del tutto inadeguate.
Occorre pertanto avere un progetto di alleanze, anzi molto più di questo: occorre
costruire una coalizione sociale di forze vaste e articolate che si unificano intorno al
progetto di un nuovo intervento pubblico nel settore delle politiche abitative nella
direzione dell’incremento degli alloggi di edilizia residenziale pubblica a canone sociale e in quello della calmierazione dei canoni privati.
La nostra è, quindi, una proposta unitaria ma in termini del tutto nuovi.
Accezione tradizionale del termine unità: “unità sindacale come patto d’azione comune tra organizzazioni omogenee nella ragione sociale e che si pongono tendenzialmente come monopoliste nell’ambito della rappresentanza”.
Una nuova accezione: unità come “campo largo”, “spazio pubblico comune”, costruzione di una “coalizione per il diritto alla casa” in cui associazioni nazionali e comitati locali, sindacati confederali e di base e organizzazioni sindacali dell’inquilinato, movimenti metropolitani e associazioni del volontariato, mondi della cultura e centri di ricerca e forze politiche ispirati alla costruzione di una alternativa al neoliberismo, esperienze avanzate di governi delle autonomie e degli enti gestori dell’ERP, si possano riconoscere dentro una cornice comune.
L’unità di cui parliamo, quindi, è un processo diverso da quello della costruzione di percorsi unitari a livello sindacale e/o con i movimenti per il diritto all’abitare. La comprende ma si pone l’esigenza di andare oltre e di rompere con l’idea che ci sia chi ha il monopolio della rappresentanza.
Non pensiamo alla “riduzione ad uno” o alla riproposizione di sterili egemonie.
Ognuno deve mantenere la propria specificità, il proprio linguaggio, le proprie forme di comunicazione e di lotta. Tutti assieme, pero, ci si può connettere dentro una rete e una piattaforma condivise.
D’altra parte, sperimentiamo che, se si partisse dai contenuti che si condividono, ciò
sarebbe già adesso praticabile. Abbiamo sperimentato, nella costruzione di
relazioni orizzontali di scambio e collaborazione che esistono mondi della ricerca, dei movimenti per l’abitare dell’associazionismo e del volontariato che, nella loro elaborazione e esperienza specifiche, incrociano il tema della casa ed elaborano proposte che sono assai simili alle nostre.
Abbiamo sperimentato, anche nelle lotte, per esempio, nella costruzione delle giornate “sfratti zero” la possibilità concreta di questi percorsi.
E’ solo uscendo ognuno dai propri confini e dal proprio “orto” che si può tentare di
superare le reciproche parzialità e conquistare quel livello di incidenza utile a porre
realmente e concretamente il tema di una svolta possibile sul tema del diritto alla casa e all’abitare. In alcune realtà, vedi Livorno, questo è già un fatto concreto.
2. L’Unione Inquilini: una eresia che si rinnova
L’Unione Inquilini è una organizzazione sindacale degli inquilini con una impostazione politica e culturale di classe, con oltre 50 anni di storia, nata nel 1968, dentro i grandi complessi delle case popolari, a Quarto Oggiaro, nella periferia milanese, ad opera di militanti della sinistra rivoluzionaria, nel vivo delle lotte popolari e operaie.
Anche se proviene da questa netta discriminante politica, l’Unione Inquilini si è distinta da subito per alcune specificità: la difesa della propria autonomia, il pluralismo interno, una ispirazione unitaria che premette sempre i contenuti alle logiche di schieramento.
Così descrive l’Unione Inquilini delle origini, Francesco Di Ciaccia, in un libro del 1974, che ne ricostruisce il suo primo percorso storico, dentro la temperie delle lotte operaie della fine degli anni 60.
“Bisogna premettere che ricercare una matrice ideologica precisa nell'Unione Inquilini è, secondo la mente degli stessi suoi organizzatori, perlomeno arduo.
La molteplicità di tendenze che hanno avuto libero sviluppo impedisce di individuare con precisione tale matrice. Ciò significa che sia il processo storico, sia, di conseguenza, questa, non hanno posto, tematicamente, un punto fisso ideologico, tale da definire, a priori, un inquadramento politico determinato.
D'altra parte, il movimento di massa iniziale non poteva non essere, e l'Unione Inquilini derivatane non vuole che essere un organismo politico di tipo sindacale (anche se in senso nuovo, e non tradizionale), nel quale si realizzi non già la discriminazione sulla base dei pregiudizi ideologici, ma al contrario l'unificazione di tutto l'unificabile con il fine di combattere la speculazione ed assicurare il diritto proletario alla casa.”
Non è un caso che l’Unione Inquilini fu vista con diffidenza, fino in certi casi con ostilità, da formazioni politiche dell’allora cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” che consideravano le organizzazioni di massa e con esse il sindacato, come cinghie di trasmissione del “partito” e quegli “eretici di sinistra” che fondarono l’Unione Inquilini proprio contro questa impostazione verticistica condussero la prima battaglia per l’autonomia.
L’insieme di queste caratteristiche sono state le premesse per lo sviluppo dell’Unione Inquilini e la costruzione in tutta Italia del sindacato, declinando in maniera ancora innovativa il principio dell’autonomia: una autonomia territoriale. Si è sviluppato così un sindacato fondato sulla costruzione di sedi, ognuna con le proprie caratteristiche, la propria esperienza specifica, un approccio originale alla realtà nella quale opera.
Ancora oggi, l’Unione Inquilini è coerente a questo lascito: un sindacato radicale nei contenuti e nelle lotte, aperto, unitario, pluralista. Un sindacato che chiaramente fa riferimento a valori, ideali, proposte che stanno dentro un campo largo della sinistra di alternativa ma in cui possono militare ed essere dirigenti compagne e compagni iscritti a differenti partiti o anche a nessun partito; un sindacato che sta dentro la Confederazione Unitaria di Base, ma in cui possono essere iscritti e diventare dirigenti, compagne e compagni iscritti anche ad altre organizzazioni sindacali dei lavoratori o anche non esserne iscritti.
E’ nell’atto fondativo e nello sviluppo storico dell’Unione Inquilini, quindi, sia la radicalità dei contenuti di cambiamento per cui si batte, sia il carattere pluralistico dei suoi gruppi dirigenti e una ispirazione unitaria di fondo.
Essere all’altezza di quell’eresia rivoluzionaria vuol dire non divenirne sterili emulatori ma essere ancora oggi capaci di innovazioni profonde e radicali.
3. Per un vero piano casa: 500 mila nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica a canone sociale
Il contenuto di questa cornice comune che proponiamo consiste nell’affrontare il nodo strutturale della sofferenza abitativa in Italia: la carenza di offerta di alloggi di edilizia residenziale pubblica a canone sociale.
Il punto programmatico di fondo della confederazione per il diritto alla casa che proponiamo è quindi un vero piano casa: incrementare di 500 mila unità l’offerta pubblica di alloggi di edilizia residenziale pubblica a canone sociale nell’arco dei prossimi 10 anni, come risposta strutturale alla crisi abitativa del Paese per ribadire che la casa è un diritto ed un bene d’uso, e deve essere sottratta alla logica del mercato e al monopolio della rendita immobiliare. Un piano, quindi, di grande ambizione, una vera “grande opera”, dalle dimensioni simili ai grandi interventi del passato (il Piano Ina Casa del dopoguerra e gli insediamenti popolari degli anni 70/80 del secolo scorso) ma realizzati in maniera del tutto diversa: senza nuovo consumo di suolo, attraverso il recupero e il riuso del patrimonio pubblico e privato inutilizzato e in degrado.
Una proposta, quindi, che sta pienamente dentro il tema della “transizione ecologica” del recupero e il riuso dell’esistente come leva di nuova offerta di alloggi a canone sociale, dentro una gestione pubblica di governo del territorio lungo l’asse della rigenerazione urbana: dotazione di servizi, spazi culturali e associativi, impianti sportivi popolari.
Un grande investimento pubblico sull’abitare sociale e, al tempo stesso, sulla città solidale.
Un costo o un investimento?
Secondo i modelli elaborati, dal Forum Disuguaglianze di Diversità, che hanno elaborato anche in stime di investimento e di ricavo la progettualità che sta dentro questa elaborazione si tratta, di un investimento produttivo, anche in termini più strettamente economici: “Si può stimare una necessità di risorse nei prossimi 15 anni che va dai circa 55 miliardi ai circa 80 miliardi di euro complessivi.
Il momento è particolarmente propizio per gli investimenti. I moltiplicatori delle infrastrutture sociali sono alti. Per questo Piano Casa straordinario presentato, si stimano pari a 200 miliardi di euro come contributo aggiuntivo al Pil e 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro.”
Infine, sul fronte dei costi, perché nessuno pone il problema del costo del degrado? Quante risorse pubbliche vengono sprecate dall’abbandono e dal degrado degli immobili e qual è il costo del mantenere strutture che poi rimangono comunque prive di utilizzo? Del resto quanto sono costati e costano alla finanza pubblica i due principali sostegni alla rendita immobiliare e speculativa: la cedolare secca al libero mercato e l’esenzione IMU per l’invenduto dei costruttori? Il ministero dell’economia, l’agenzia delle entrate e studi accreditati parlano di oltre 2,5 miliardi l’anno.
4. Per una critica radicale al PNRR
La proposta che avanziamo ha un respiro e guarda a un orizzonte che va oltre il Next Generation EU e il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) presentata dal governo italiano.
Il PNRR, per l’impatto economico, ne potrebbe rappresentare la premessa indispensabile. Il punto è che ha un impianto e una modalità di gestione che ne contraddicono la missione che dovrebbe avere. C’è una sommatoria di titoli, che è difficile ricondurre dentro una visione e un intervento unitari e l’insieme delle risorse stanziate, comunque rilevanti, seguono strade tra loro differenti o sono postate in maniera ambigua. Si parla anche di edilizia residenziale pubblica, ma gli interventi sono postati in maniera spesso indifferenziata e, comunque, l’asse, per quanto attiene almeno l’incremento dell’offerta di abitazioni sociali, rimane ambiguo e sembra privilegiare il social housing.
Rispetto al contesto, sembra ancora peggio: per ciò che riguarda le politiche abitative, il piano è stato sostanzialmente stravolto rispetto a quanto previsto dalle bozze elaborate durante il precedente governo e su cui c’erano state diverse interlocuzioni con parti sociali, Regioni, Federcasa. Nella sua elaborazione finale, appare segnato da un verticismo assoluto che è conseguenza della struttura di governo: un “cerchio magico”, dato dal Premier e dal “suo staff” di ministri tecnici, estremamente coeso e una struttura più esterna, data dai ministri indicati dai partiti, litigiosa ma insignificante rispetto alle scelte di fondo, che rimangono saldamente in mano al “cerchio magico”. Anche riguardo alla cosiddetta “governance” del piano, si ripropone il medesimo “schema eliocentrico”: con il premier e il suo staff (il MEF) al centro che si interfaccia di volta in volta con il singolo ministro competente e/ le regioni; un meccanismo che lascia l’ultima parola sempre al premier, che rimane il dominus.
C’è, infine, un’altra considerazione al riguardo di quanto definiamo “contesto”. Il premier nei suoi interventi in Aula sul PNRR ha parlato di casa (e a sproposito di edilizia popolare” o addirittura di “edilizia residenziale pubblica”) rispetto a un tema che nel PNRR non c’è ma che, evidentemente, sta nel cuore (più precisamente nel “core businnes”) del premier: l’aiuto all’acquisto per la prima casa per i giovani fino a 36 anni, aiuto declinato come garanzia per mutui fino al 100% del valore dell’immobile (così da non dover versare anticipo) ed eliminazione delle imposte sull’acquisto (quest’ultima misura è stata inserita nel Decreto Sostegni bis). Una ossessione proprietaria che è, al tempo stesso, più propriamente un sostegno al mercato immobiliare e una “ossessione del credito”, a favore delle banche. Non servono molte parole per dimostrare l’arretratezza culturale e di visione economica della proposta (l’agevolazione del credito, rendendo possibile l’acquisto di appartamenti ad un costo maggiore, non fa scendere le quotazioni del mercato e comunque un mutuo va pagato e, forse, prima di quello, servirebbe un lavoro stabile e, inoltre, è una misura che contrasta con la mobilità sociale) ma quello che più conta è l’ossessione di rendere le persone “schiavi delle banche”. Si potrebbe, per esempio, mettere in relazione la misura “per i giovani” con quella che accelera l’esproprio della prima casa, a causa dei fallimenti e dell’impossibilità di sostenere i mutui. Ma, se mettiamo in fila le iniziative del di Draghi, vediamo una impressionante continuità che, probabilmente ne fornisce la vera chiave di lettura: il centro è il sistema creditizio.
- Bonus 110% per efficientamento, la cui leva è la cessione del credito alle banche, anche se, in questo caso, vi sono dei benefici derivanti dal miglioramento della condizione abitativa: far decollare l’occupazione nell’edilizia; permettere di migliorare gli immobili delle case popolari. consentendoci di organizzare gli assegnatari contro il degrado di questo comparto; migliorare lo stato conservativo nelle città e il risparmio energetico.
- Social housing all’italiana, in cui il ruolo centrale è affidato ai fondi di investimento gestiti dalla Cassa Depositi e Prestiti attraverso il cosiddetto “fondo dei fondi”.
- Accelerazione delle aste giudiziarie attraverso la cancellazione delle norme che oggi in qualche modo tendono a proteggere l’abitazione di residenza dell’esecutato che va cacciato prima delle aggiudicazioni.
- Ulteriori agevolazioni per l’accesso al credito per l’acquisto della casa da parte dei giovani (con mutui ultratrentennali a favore delle banche).
5. “La rivoluzione copernicana”
Non possiamo limitarci al commento delle cose negative fatte dalle nostre controparti (questo lo fanno meglio di noi i giornalisti e i centri di ricerca). Noi dobbiamo combatterle per cambiarle. Qui, c’è un punto che per noi diventa decisivo: l’alternativa nasce in un corpo a corpo nei territori, in cui il centro nazionale ha il compito di coordinare, di rilanciare e di rendere possibile un quadro generale in cui le lotte territoriali possano avere successo. Cambia quindi l’asse della nostra iniziativa, che deve farsi sempre più policentrica: una vertenza generalizzata, che parte dai territori e che si collega tra i territori in maniera orizzontale. I progetti sono comunque presentati da Regioni e comuni e da lì dobbiamo partire, attraverso un confronto e una vertenza sulla qualità dei progetti. Questa è ciò che definiamo “rivoluzione copernicana”: la centralità va alle vertenze territoriali e alla capacità di connetterle e unificarle, scalando in questo modo la dimensione nazionale.
O siamo in grado di compiere questo balzo o abbiamo già perso. I progetti del PNRR, infatti, pur nella logica centralistica e autoreferenziale del rapporto tra Regioni, Enti locali e governo, in particolare il premier e il suo staff di ministri, dai territori partiranno e solo da lì, anche attraverso una progettazione dal basso, una vertenzialità diffusa, una capacità di controllo. Ricordiamo che trasparenza e processo partecipativo sono procedure raccomandate anche dalle direttive europee. Noi dobbiamo pretendere di renderle effettivamente esigibili.
Anche qui stanno il senso e la prospettiva della Confederazione (o Coalizione) per il diritto alla casa che proponiamo, come proposta di unità che parta dai territori e dia gambe, anima, movimento alle lotte. Proponiamo, per esempio, la nascita di un “osservatorio nazionale” e “osservatori territoriali”, indipendenti, sull’attuazione dei progetti in connessione con altri soggetti interessati, sia sindacali che associativi che ambiti scientifici delle Università.
Non dobbiamo trascurare le componenti del PNRR relative all’efficientamento energetico e antisismico (Missione 2) e la connessione di questi interventi con gli altri investimenti della Missione 5 su rigenerazione urbana e Piani Urbani Integrati. E’ possibile e necessario aprire vertenze territoriali sulla riqualificazione dei complessi ERP e di rigenerazione dei quartieri popolari, unendo la battaglia per l’incremento dell’ERP con quella del risanamento e del contrasto al degrado anche sociale ed economico. Su questa tipologia di interventi c’è un ulteriore finanziamento di 2 mld. nel decreto legge sul fondo complementare al PNRR.
L’Unione Inquilini non può, quindi, limitarsi alla constatazione o alla denuncia delle mancanze e delle storture presenti nel PNRR. Noi non siamo semplici commentatori delle scelte altrui, vogliamo batterci per cambiarle. “Ballano” complessivamente intorno all’ERP e alla rigenerazione urbana cifre imponenti che, sommate, stanno intorno ai 12/15 miliardi. Non li lasceremo alla logica affaristica della finanziarizzazione, senza combattere.
6. L’internazionalismo e la campagna “sfratti zero”
L’internazionalismo non è una “aggiunta”, un “in più” alle lotte che si fanno nel proprio Paese”. Non è neanche (o principalmente) un elemento di solidarietà alle lotte in altri contesti, più difficili o arretrati. Rappresenta un elemento costituente la nostra identità politica e culturale, ovvero una “spina dorsale” della nostra iniziativa.
La sfera internazionalista, a partire da quella europea, ci consente di approfondire i processi di finanziarizzazione dei valori immobiliari che, come è evidente, non conoscono i confini nazionali; ci permette di analizzare le forme comuni in cui i governi, a partire da quelli europei, rispondono con politiche sempre più concertate tra di essi; ci fornisce un quadro di riferimento dentro cui iscrivere le nostre proposte e le nostre iniziative (per esempio le recenti risoluzioni del Parlamento europeo, a partire da quella fondamentale del gennaio 2021); ci può fornire anche una serie di strumenti operativi (per esempio in relazione al rispetto dei trattati internazionali o a norme del diretto internazionale) che possiamo far valere nelle lotte territoriali e applicare anche ai singoli casi, come per esempio nei ricorsi all’ONU contro l’esecuzione di sfratti che violano norme del diritto internazionale o trattati sovranazionali firmati e ratificati dal nostro Paese.
La campagna sfratti zero non indica solo una negazione: impedire gli sfratti (almeno senza il passaggio da casa a casa) indica una linea in positivo: solo una risposta strutturale può risolvere strutturalmente il dramma degli sfratti.
Si ripresenta, quindi, il tema strutturale della sofferenza abitativa: una contraddizione lancinante tra l’offerta del mercato privato, dominato dalla rendita, e la domanda sociale, che, in maniera crescente, è fuori dalla possibilità di poterla sostenere.
In questi anni, sempre di più, Il tema “sofferenza abitativa” è stato affrontato finora (male) con il sistema dei sussidi: contributo affitto e morosità incolpevole.
Perché male? Perché le risorse sono scarse e, inoltre, i sussidi arrivano alle persone con minimo due anni di ritardo rispetto agli stanziamenti attivati e i meccanismi (specialmente per la morosità incolpevole) approvati da Regioni e comuni spesso sono impedenti la possibilità di erogarli in concreto, almeno in tempi congrui ad impedire o prevenire lo sfratto.
C’è un motivo ancora più di fondo di questa inadeguatezza: si affronta il problema sempre e solo a valle e mai a monte. In questo modo, il sussidio, da strumento temporaneo in vista della soluzione del problema, diviene solo “il rinvio” del problema, se non addirittura di sostegno al mercato.
Se si mettono in fila i soldi stanziati in questi anni, siamo a un fiume di denaro, finito nelle tasche della proprietà, attraverso gli inquilini. Può essere necessario, per una fase transitoria ma svolge un ruolo strategico solo se è connesso a un piano strutturale di aumento di alloggi ERP a canone sociale.
La campagna “sfratti zero” ci indica un percorso: dal semplice “no agli sfratti” verso una nuova fase, le pratiche positive che affrontano le cause degli sfratti.
7. Nella CUB e per una rifondazione del sindacalismo di base
L’Unione Inquilini sta nella CUB, anzi ne è tra i soggetti fondatori.
Le ragioni di questa adesione e condivisione sono tuttora valide.
Il punto di fondo sta nella connessione tra i rapporti di produzione, il lavoro, la città e l’abitare. Senza questa connessione, si perde il senso complessivo della nostra ragione di essere. “Perdi il lavoro, perdi la casa.” Uno slogan semplice e comprensibile a tutti ma che esprime un contenuto politico complesso e che fonda la ragione per cui il tema del diritto alla casa non deve essere vissuto o praticato come un “campo separato”. La confederalità, di cui parlavamo nel primo punto, come costruzione di un campo largo di sindacati, associazioni, movimenti ecc., parte dal riconoscimento della questione casa come facente parte del conflitto di classe e dei rapporti di produzione e riproduzione capitalistici non solo a livello nazionale ma che vedono la loro completa applicazione sui territori a livello locale e nei posti di lavoro dei singoli luoghi di produzione.
Siamo, quindi, dentro la CUB, una confederazione di base che riconosce l’autonomia delle federazioni aderenti.
Stiamo nella CUB, con la nostra autonomia e indipendenza.
Due differenti processi su cui dobbiamo riflettere: un rapporto positivo nello sviluppo nei territori del rapporto con le sedi locali della CUB, con la costruzione di importanti sinergie; una difficoltà nei rapporti centrali e nazionali, che hanno portato al ritiro della nostra delegazione dal coordinamento nazionale.
Vogliamo ricostruire un percorso che, anche a livello centrale, ricostruisca un rapporto.
La proposta è quella ridefinizione di un patto che riaffermi l’internità dell’Unione Inquilini alla CUB ma anche la sua specificità. L’Unione Inquilini, nella sua autonomia e indipendenza decide di avere una rappresentanza negli organismi dirigenti della CUB non proporzionale alla propria consistenza organizzativa, in favore delle categorie del lavoro. Al tempo stesso, la CUB riconosce, con apposito atto, all’Unione Inquilini la piena autonomia nella linea politica, nelle forme organizzative, nelle scelte dei propri organismi rappresentativi eletti dal congresso nazionale e in quelli locali, e la sua irriducibilità a qualsiasi forma di accorpamento ad altre categorie del lavoro o territoriali.
Questa specificità, non implica una indifferenza dell’Unione Inquilini nel dibattito generale sulla confederazione e le sue prospettive.
Pensiamo a una Confederazione radicale nel conflitto del lavoro, aperta all’esterno e all’interno, che rispetti sempre l’autonomia delle singole federazioni aderenti, rispetti e salvaguardi il pluralismo, impegnata nel continuo dibattito programmatico, nel radicamento, nel ruolo dei delegati e nel ricambio negli organismi dirigenti sempre proiettato ad un maggiore coinvolgimento in particolare di giovani e donne.
Pensiamo alla necessità della costruzione di una prospettiva unitaria del sindacalismo di base che superi i processi verticistici del passato in cui “unirsi” significava sostanzialmente “sommare” gruppi dirigenti che rimanevano di fatto “separati” con il risultato di processi unitari “finti” o di respiro cortissimo, destinati al naufragio alla prima scelta in cui si contrapponevano opinioni o interessi divergenti.
Serve il coraggio di un processo costituente in cui i gruppi dirigenti delle singole strutture e confederazioni di base colgano la necessità di un passo indietro per la costruzione dal basso di forme unitarie di tutto il sindacalismo di base.
8. Una campagna di massa per il lavoro rivolta ai sindacati, ai movimenti e ai partiti di sinistra
Registriamo dal 2009 un aumento degli sfratti per morosità incolpevole, oggi è arrivata al 90% delle richieste di esecuzioni. Nel 2009 lanciammo la campagna “Perdi il lavoro. Perdi la casa” nel tentativo di coinvolgere i sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici, con modesti risultati,
Gli sfratti di morosità sono aumentati perché manca il lavoro con contratto a tempo indeterminato e dunque con uno stipendio certo. E’ aumentata la precarietà del lavoro con bassi stipendi in modo intollerabile: questa situazione va ribaltata.
Non possiamo lasciare lo scettro a Brunetta che agita assunzione nel pubblico impiego, poche e ancora una volta precarie.
E’ necessario aprire una campagna di massa con un fronte ampio che chieda di assumere centinaia di migliaia di disoccupati precari nella pubblica amministrazione, nelle aziende partecipate, nei trasporti, nei servizi pubblici, nella sanità, nella scuola, abolendo il lavoro temporaneo e intervenendo nel terzo settore nel quale sono in vigore bassi salati e poche tutele.
Occorre una campagna che parta dall’analisi di settore per quantificare i posti di lavoro dove è mancato il turnover, per aprire vertenze coinvolgendo quanti si rivolgono ai centri dell’impiego, alla ricerca di lavoro.
Una campagna di massa che anche utilizzando i referendum o proposte di legge, cancelli le decine di forme di contratto precario.
Anche il “piano casa” che proponiamo sta dentro questa logica, dimostrando ancora più intimamente il rapporto tra diritto all’abitare e lavoro. Lo stesso ragionamento vale per il recupero degli immobili ERP e l’efficientamento energetico dei grandi complessi popolari, che vedono nel PNRR una grande occasione di nuova occupazione. Noi dobbiamo promuovere unitariamente vertenze perché questi investimenti si trasformino in lavoro stabile e sicuro che abbia una ricaduta anche sui territori in cui si realizzano. Sono il lavoro e il reddito, infatti, le prime forme di emancipazione dal degrado e dall’emarginazione che, prima di essere urbanistica, è di carattere sociale.
PARTE SECONDA
Per una critica radicale all’esistente
9. Povertà e condizione abitativa
i dati pubblicati recentemente dell’ISTAT sulla povertà in Italia provano ancora una volta di più la correlazione stretta tra povertà e affitto.
Sappiamo che le statistiche vanno prese con cura e a volte decodificate. Questo è particolarmente vero per il termine “povertà”, di cui l’ISTAT fornisce due diversi indicatori. La “povertà assoluta” definisce la condizione di un nucleo con un reddito pari o inferiore a una soglia minima, costituita da un paniere di beni e servizi definiti “essenziali”. La “povertà relativa” invece definisce un nucleo con un reddito pari o inferiore alla media della spesa per beni e servizi della generalità delle famiglie italiane. I due indicatori possono confondere e può addirittura verificarsi il paradosso, come è accaduto questa volta, per cui a una diminuzione generalizzata dei consumi e a un incremento consistente della povertà assoluta, corrisponda una diminuzione della povertà relativa: se tutti diventiamo più poveri, possono diminuire quelli che si definiscono “relativamente poveri” perché la media si abbassa.
Il dato della “miseria nera”, la povertà assoluta, invece, è un dato oggettivo, una sorta di “reddito minimo di sopravvivenza”. Nell’anno della pandemia, il 2020, la povertà assoluta è cresciuta di quasi l’8% rispetto al 2019, circa 350 mila famiglie in più, all’incirca un altro milione di persone, portando il totale delle persone “assolutamente povere” a oltre 5 milioni e mezzo di persone, quasi il 10% del totale della popolazione.
Se andiamo più all’interno dei dati, scopriamo che, mentre per il totale dei residenti, i nuclei in affitto sono meno del 20%, tra quelle in povertà assoluta rappresentano quasi il 50% del totale. Una famiglia su 4, oltre il 25% del totale, con minori che vive in affitto, soffre una condizione di povertà assoluta.
Si badi bene che parliamo di statistiche e di nuclei residenti, a cui sfuggono i senza tetto, coloro che vivono in alloggi impropri ecc.
Insomma, la drammatizzazione è un dato della realtà e noi abbiamo il compito di portarla pienamente alla luce, non per limitarci alla denuncia o peggio fare folklore, bensì per pretendere atti conseguenti da parte di chi governa, utili ad affrontare i nodi strutturali della sofferenza abitativa (incrementare fortemente le abitazioni a canone sociale), smascherare l’imbroglio e l’inconsistenza del “social housing all’italiana”, chiedere misure che, nel frattempo, impediscano il tracollo della coesione sociale.
La relazione diretta tra povertà e affitto è la denuncia di una condizione urbana, che non investe solo le grandi aree urbane ma in particolare i piccoli e medi centri, disperata e disperante e, al tempo stesso, la prova dell’arretratezza del nostro Paese, non solo in termini sociali ma anche economici e del mercato del lavoro.
Qualcuno può sostenere con una qualche ragionevolezza che il mercato privato o il social housing all’italiana possano rappresentare una linea di soluzione di questa contraddizione lancinante?
10. Il libero mercato uccide l’affitto
Chi sta uccidendo l’affitto?
L’associazione della grande proprietà ha scatenato una offensiva giuridica e culturale, mettendo sotto accusa la sospensione dell’esecuzione degli sfratti durante la pandemia e ponendo il tema della piena libertà della proprietà come leva di una ripresa delle locazioni. Oltre il livello dei canoni, si liberalizzi anche la durata contrattuale e più abitazioni andranno in affitto, conseguentemente i prezzi si abbasseranno E’ un po' il “pendant” della cantilena della Confindustria: il problema dell’occupazione è dato dai vincoli ai licenziamenti. Liberalizzare la libertà di licenziamento, porterà a un aumento dell’occupazione. Abbiamo visto anche lì come è andata a finire con l’abolizione dell’art.18.
Occorre partire dai dati di lungo periodo. Partiamo da una analisi dell’andamento degli sfratti in Italia negli ultimi 40 anni.
Nel 1983, ogni 100 sentenze di sfratto emesse, quelle per morosità erano 15.
Nel 1999, dopo l’abolizione dell’equo canone, e dopo qualche anno di vigenza dei cosiddetti patti in deroga che di fatto l’avevano già reso strumento marginale, ogni 100 sentenze di sfratto, 73 erano per morosità.
Nel 2019, arriviamo a 90 sentenze di morosità ogni 100 sfratti.
L’incremento vertiginoso degli sfratti per morosità dipende dal libero mercato degli affitti che, in realtà, è il monopolio della rendita immobiliare.
Il problema di fondo è il meccanismo dei due canali contrattuali in cui “il morto mangia il vivo”. Per essere concorrenziale, il canale concordato non può scendere sotto una certa quota del canale libero. La conseguenza è che il libero mercato, cioè la ricerca del massimo rendimento possibile, è quello che determina l’indirizzo del mercato reale. L’epifenomeno che rende plasticamente questa realtà è l’aumento a dismisura del livello della morosità. Un “mercato sano” dovrebbe correggere l’offerta se la domanda non riesce a sostenerla. Perché non succede? Perché in realtà, quello che chiamano “libero mercato delle locazioni” è, nella sostanza, un regime monopolista della rendita immobiliare. Lo dimostra anche la pandemia: la recessione drammatica dei livelli di reddito non porta a una proporzionale riduzione dei canoni (in diverse città, neanche una qualche riduzione). E’ bastato intravedere una luce in fondo al tunnel della crisi sanitaria e già i segnali che giungono sono di una ripresa del livello degli affitti.
La bolla immobiliare cova sotto la cenere della recessione perché non ne sono state affrontate le ragioni strutturali.
11. La compagnia degli irresponsabili
Per molti mesi, 16 in tutto, siamo riusciti, dentro uno scontro durissimo e la capacità nostra di lavorare dentro una iniziativa unitaria, a mettere sotto scacco la pretesa di lasciare liberalizzati gli sfratti durante la pandemia, una battaglia retriva che ha visto come attori principali le associazioni della proprietà, in particolare della grande proprietà, una sorta di “compagnia di irresponsabili” che ha trascinato con sé settori della politica ben determinati e che ha svolto un ruolo da “Dottor Stranamore”, incurante delle conseguenze sanitarie e sociali di una generalizzata esecuzione degli sfratti, che sarebbe stato ulteriore veicolo di contagio, oltre che di disperazione sociale.
C’è in questa “ferocia sociale” un mix di elementi: uno di questi è la vecchia e ricorrente tara delle classi dirigenti italiane, storicamente tra le più retrive del Continente, in cui prevale un egoismo di classe gretto rispetto a una visione di prospettiva. Il vertice della principale associazione della grande proprietà si è dimostrato il più sguaiato della compagnia di irresponsabili, di coloro che hanno perseguito il proprio interesse immediato sopra ogni altra cosa, compresa la tutela della salute contro la pandemia, con in più un inganno nei confronti dei suoi rappresentati: nella situazione reale, proroga o non proroga per legge, sempre con quella situazione di emergenza sanitaria occorreva fare i conti e, se non la legge dello Stato, ci avrebbero pensato il colore (sanitario) delle Regioni, a rendere impraticabile una generalizzazione delle esecuzioni, anche se, probabilmente, avrebbe comunque determinato situazioni locali difficili e dalle conseguenze sanitarie imprevedibili.
C’è, però, anche dell’altro. La ritrosia ad aprire la partita dei “ristori” da parte della grande proprietà, per puntare tutto sulla cancellazione della proroga, ha anche un’altra spiegazione. Accedere a una qualche forma di indennizzo, avrebbe rappresentato per l’associazione della grande proprietà creare un precedente che avrebbe reso più forte la norma sul rinvio delle esecuzioni e, soprattutto, più facilmente replicabile come modello, anche su scala territoriale. L’istituto che, a fronte di una sospensione temporanea della libertà sul bene da parte del proprietario, concede un indennizzo, si chiama requisizione, anche se non si usa quel nome. Inoltre, come nel caso dello sfratto esecutivo, l’indennità di occupazione (il 20% in più del canone) risarcisce il cosiddetto “maggior danno” (che i più anziani di noi ricordano come, ai tempi dei patti in deroga, rappresentava una mannaia per gli inquilini sotto sfratto), si può anche aprire la strada per considerare l’indennizzo come un meccanismo che impedisce l’accumulo del debito da parte dell’inquilino in morosità.
In termini più diretti: la sospensione delle esecuzioni dei rilasci a fronte di un indennizzo al proprietario è una strada che, di fronte a una situazione straordinaria (come è la pandemia del coronavirus, ma che può essere anche altro, come una grave condizione di emergenza sociale e/o di tutela della salute pubblica) può più facilmente essere percorsa.
La Confedilizia inganna i piccoli proprietari: ogni anno, si emettono circa 50/60 mila sentenze. Ne vengono eseguite con la forza pubblica una quota fissa abbastanza stabile negli anni (25/30 mila). Abbassare gli affitti consentirebbe di ridurre drasticamente gli sfratti per morosità, è tenerli sproporzionati con il mercato reale (i redditi disponibili) che determina un blocco di fatto per una porzione di sfratti non trascurabile, a meno che “gli irresponsabili” non pensino a trasformare le città in campi di battaglia per riaffermare la “sacralità” della proprietà privata (che nella nostra costituzione non esiste mentre esiste l’obbligo della sua funzione sociale).
E’ chiaro che questa impostazione iperliberista è dentro un orizzonte che è proprio delle destre. La subalternità che ha dimostrato il cosiddetto campo politico di centro sinistra in questa ultima fase, è figlio di una subalternità politica e culturale e, al tempo stesso, una scelta suicida.
12. La cedolare secca sul libero mercato, paradigma dell’ingiustizia fiscale
La discussione sulla cedolare è paradigmatica.
Da un lato svela pienamente l’ipocrisia pelosa degli iperliberisti: iperliberisti quando riguarda le conseguenze delle proprie scelte sulla restante parte della società; assistenzialisti quando riguarda se stessi.
Qualcuno riesce a spiegare la funzione economica, sociale, se il termine fosse applicabile, “morale” della cedolare secca sul libero mercato degli affitti?
Quale è la ragione per cui lo Stato dovrebbe agevolare qualcuno in termini fiscali se questi vuole realizzare sul mercato il massimo rendimento, al di fuori di qualsiasi vincolo?
La conseguenza è che ogni anno lo stato “regala” circa 2 miliardi di euro alla rendita immobiliare speculativa (nel senso tecnico del termine), senza alcuna contropartita e che, come dimostrano i dati forniti dalla Banca d’Italia, il 90% del beneficio arriva al 10% del percentile dei proprietari con reddito più alto.
Quindi, si sommano due ingiustizie nello stesso tempo: si sprecano ingenti risorse pubbliche a favore della rendita improduttiva e speculativa e, anche nel campo dei proprietari, il vantaggio è tutto a favore dei redditi più alti, quindi della grande proprietà.
Come mai, i liberisti di ogni risma rimangono così silenti rispetto a questo intervento di sostegno pubblico improduttivo?
Il paradigma dell’ingiustizia fiscale in Italia è reso così plasticamente: sul medesimo importo ricevuto, un operaio o un lavoratore precario pagano sul loro salario tasse più alte che un “rentier” sull’affitto che prende da un immobile a canone libero.
L’abolizione della cedolare secca sul libero mercato la indichiamo come una priorità politica della riforma fiscale. Al tempo stesso, per noi, è il primo passo verso l’abolizione del mercato libero delle locazioni. Non solo un “tetto per tutti” ma un “tetto agli affitti” per spegnere una volta per tutte le ceneri della bolla immobiliare, causa scatenante della grande crisi degli inizi degli anni 2000 e che ha origine nei processi di finanziarizzazione dei valori immobiliari.
13. Per una analisi del “social housing all’italiana”
Perché parliamo di “social housing all’italiana”? Per intendere il meccanismo concreto messo in campo in questi anni in Italia e che, attraverso una operazione ingannevole che ha fatto passare, con la complicità politiche dei governi nazionale, regionali e dimolte amministrazioni locali e quella culturale di una parte consistente di mondi accademici “mainstream”, una serie di interventi spacciati come “social” ma che di tale natura hanno ben poco, che di fatto è stata considerata non come aggiuntiva ma sostitutiva dell’edilizia residenziale pubblica a canone sociale, fallendo tutti i pretenziosi obiettivi che aveva così enfaticamente annunciato
Innanzitutto è necessaria una vera controffensiva culturale e politica.
Primo punto di controffensiva: si chiama allo stesso modo (in inglese) ma non è la stessa cosa del “social housing” nei principali Paesi europei.
Il “social” del social housing all’italiana riguarda più i vantaggi di cui gode il soggetto attuatore che le ricadute sulle fasce sociali realmente interessate da tali interventi.
Non sono noti in dettaglio i dati sui livelli di affitto effettivi praticati nel “social housing all’italiana”, né i redditi medi di chi effettivamente vi ha avuto accesso. Ciò in quanto, sono i soggetti privati attuatori degli interventi a decidere chi concretamente vi accede, secondo margini di discrezionalità assai ampi.
Possiamo in generale considerare che i livelli di affitto vanno in un range che si attesta tra i 400 e i 600 euro medi e che i redditi di riferimento sono assai ampi e possono variare dai 30/35 mila euro l’anno fino a oltre 60/70 mila, anche ben oltre.
Un target che non individua minimamente il cuore della sofferenza abitativa in Italia, rappresentato dalle 650 mila famiglie in attesa (vana) di una casa popolare.
A fronte di stanziamenti e agevolazioni pubbliche e una gran battage, in concreto, poi, parliamo di un intervento di impatto minimale: 9000 alloggi realizzati in oltre un decennio di programmazione degli interventi.
Ma c’è un elemento di battaglia culturale che è eminentemente politica.
Noi non dobbiamo lasciare all’interpretazione “mainstream” il tema dell’edilizia sociale e del social housing.
E’ falso affermare che “abitazione sociale” o “edilizia residenziale sociale” debba significare questa traduzione “all’italiana” del social housing.
“Alloggio sociale” (housing sociale) è in primo luogo l’ERP (canone rapportato al reddito, stabilito dalle norme regionali); può essere “anche” alloggio a canone calmierato in rapporto alla compartecipazione pubblico privato (dal decreto del ministro delle infrastrutture, “definizione di alloggio sociale, di cui alla legge 9 del 2007”).
Non è vero, anche rimanendo dentro quel campo di intervento, che il “social housing” non possa essere declinato diversamente, per esempio con un ruolo degli IAPC – ATER, per alloggi da canoni effettivamente calmierati (intorno a 200/300 euro mensili).
Insomma, neanche il social housing dobbiamo lasciar passare senza una battaglia politica e culturale fortissima.
Per noi, l’intervento essenziale deve essere quello dell’edilizia residenziale pubblica a canone sociale e siamo contro l’imbroglio di far passare il “social housing”, specialmente nella versione “all’italiana”, come sostitutivo dell’ERP.
Può essere anche utile, come intervento aggiuntivo ma con un impianto del tutto diverso da quello svolto fino ad oggi: graduatorie di accesso fatte dai comuni e ruolo, come soggetto attuatore, degli ATER IACP, per realizzare alloggi con canoni inferiori della metà di quelli fino ad oggi realizzati
14. Regioni e comuni: dalla parte della soluzione o del problema?
Regioni e comuni potrebbero svolgere una funzione progressiva a partire dalla rivendicazione di un ruolo di stimolo, confronto e vera e propria vertenzialità con il governo nazionale per una nuova politica sociale della casa.
Regioni e, in particolare i comuni, sono gli enti di prossimità a cui si rivolgono i cittadini in difficoltà e sono la linea di trincea che affronta il primo e duro impatto delle contraddizioni stridenti delle politiche abitative.
Il problema è che molto spesso, invece di giocare un ruolo propulsivo a fianco dei cittadini e delle espressioni sindacali e della società che si battono per un diverso disegno della città e della qualità dell’abitare, si rapportano come una controparte e sono spesso un tappo, o un muro di gomma nei confronti della sofferenza sociale.
Regioni e comuni accumulano ritardi scandalosi sulla erogazione dei fondi, dimostrano spesso pavidità nei confronti del governo centrale, sono inadempienti rispetto alla loro responsabilità per la tutela della salute pubblica e l’osservanza delle norme e dei trattati e nei confronti dei propri doveri e compiti per l’istituzione dei tavoli di crisi e per affrontare la questione dell’esecuzione degli sfratti, secondo il principio del passaggio da casa a casa. Spesso, Regioni e comuni, in questi anni, hanno loro stessi disinvestito nell’edilizia residenziale pubblica, non si sono opposti e spesso hanno favorito processi di dismissione del patrimonio ERP inaccettabili, che vanno interrotti e invertiti: l’offerta pubblica di alloggi a canone sociale va incrementata e dismettere vuol dire fare il contrario di ciò che è giusto e necessario. Anche quando si afferma che i ricavi delle dismissioni vanno nella direzione di nuovi interventi per l’ERP, in realtà si compie un inganno, in quanto il saldo è sempre negativo.
Regioni e comuni hanno contribuito al degrado e al deperimento del patrimonio abitativo pubblico. In questo senso, l’occasione del PNRR potrebbe rappresentare l’occasione di una svolta. Su questo terreno, indiamo incalzarli a partire dai progetti che debbono essere elaborati dai territori.
Più in profondità, vengono al pettine i nodi di una riforma costituzionale che ha spezzettato competenze e responsabilità nel campo delle politiche abitative pubbliche, senza trovare meccanismi unificatori e determinando conseguenze negative, in primo luogo per i cittadini
In molte realtà territoriali, assistiamo a uno scivolamento sempre più marcato dei comuni a svolgere un intervento sulla casa nella forma dell’intervento assistenziale, spesso sottratto alle responsabilità delle amministrazioni pubbliche e appaltato a pezzi del terzo settore, secondo un modello inaccettabile di un welfare della carità, invece che di un welfare dei diritti esigibili.
Gli Enti gestori dell’ERP in mezzo al guado
Vi è una situazione non omogena a livello nazionale e con differenze territoriali enormi.
Diamo un apprezzamento per il ruolo propositivo e dinamico svolto in questa ultima fase da Federcasa, il confronto aperto con le organizzazioni sindacali degli inquilini, che hanno visto la predisposizione di impegnativi documenti comuni. Questo patrimonio non va disperso. Apprezziamo il protagonismo svolto sulla questione dell’efficientamento energetico, come occasione per un intervento complessivo di risanamento e recupero dell’ERP, anche se, anche qui, la realtà nazionale è a macchia di leopardo.
E’ chiaro che c’è una tendenza politica, alimentata dalle scelte di questi anni dei governi nazionali e di gran parte di quelli regionali, di far deperire gli enti gestori dell’ERP come elementi residuali di un comparto pubblico, complessivamente.
L’ERP, ridotto a una “bad company”, di un comparto in liquidazione e il “social housing all’italiana” come l’impresa pubblico/privata, gestita da Cassa Depositi e Prestiti del sistema del cosiddetto “fondo dei fondi” come la nuova rampa di lancio per fare dell’abitare sociale (finto sociale) una nuova frontiera della finanziarizzazione.
Anche gli IACP/ATER sono di fronte a un bivio che è tutto politico: stare dalla parte della liquidazione dell’intervento pubblico e sociale o svolgere un ruolo attivo e rilanciare la propria funzione dentro una sfida che guarda il futuro.
Il punto è invertire la rotta: invece di dare funzione pubbliche a soggetti privati che, nella logica della rendita (sempre garantita a monte dallo Stato), realizza profitti senza rischiare nulla, svolgere fino in fondo il proprio ruolo pubblico di enti gestori e programmatori dell’ERP, con l’obiettivo primario dell’incremento dell’offerta di alloggi a canone sociale e proporsi anche come possibili attuatori di un “housing sociale all’europea”, molto diverso e alternativo all’attuale modello, con affitti ridotti del 50% ma che, rispetto alla gestione degli IACP/ATER, possano garantire autonomia e solidità.
PARTE TERZA
RIPARTIRE DAI COMPLESSI POPOLARI PER UNA NUOVA IDEA DELLA CITTA’
15. Analisi del patrimonio ERP esistente.
Con poco meno di 850 mila alloggi, l’offerta pubblica di alloggi di edilizia residenziale
Pubblica, l’Italia è agli ultimi posti in Europa, meno del 4% del patrimonio abitativo complessivo, circa 5 volte meno della media europea.
Inoltre, questo patrimonio per la sua larghissima maggioranza, circa l’85%, risulta edificato da non meno di 40 anni, con interventi di manutenzione straordinaria estremamente limitati e, quindi, con una condizione generalizzato di degrado.
Negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, sono stati costruiti con il piano INA-Casa, oltre 350 mila alloggi. Successivamente, il secondo grande intervento di edilizia residenziale pubblica, degli anni 70/80 del secolo scorso, ha visto la costruzione di altri 350 mila alloggi circa, attraverso i fondi della GESCAL.
Dal punto di vista dell’offerta annuale di nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica, questa rispetto a 30/40 anni fa, oggi si è ridotta di almeno il 90%.
Rimangono circa 650 mila domande di casa popolare, utilmente collocate in graduatoria, inevase.
L’abbandono di iniziative e programmi per l’edilizia residenziale pubblica si è accompagnata alla privatizzazione del territorio e al prevalere delle politiche neoliberiste anche nel governo e nello sviluppo delle città.
16. Le contraddizioni del modello urbano neoliberista
La città è sostanzialmente un luogo da cui estrarre valore e assorbire l’eccedenza di capitale. L’intero Paese porta sul volto le cicatrici dell’uso violento del territorio. Le Città sono testimoni oculari di cicliche ondate di costruzione privata, dell’euforia cementificatrice che, con le grandi imprese del cemento e del mattone, hanno sfregiato il territorio e reso più evidenti le diseguaglianze sociali.
Questa cinica appropriazione non rispetta i diritti sociali, è causa di disuguaglianze sempre crescenti, non si ferma neanche di fronte ai limiti posti dalla finitezza delle risorse naturali.
Queste contraddizioni si evidenziano con sempre maggiore forza:
Rapporto tra economia, “sviluppo “e natura: Secondo il Rapporto consumo suolo 2020 I dati confermano la criticità del consumo di suolo nelle zone periurbane e urbane, in cui si rileva un continuo e significativo incremento delle superfici artificiali, con un aumento della densità del costruito a scapito delle aree agricole e naturali. Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 57,5 km2 , ovvero, in media, circa 16 ettari al giorno.
Spopolamento delle città e la costruzione di aree residenziali: Secondo l’ISTAT la regione che registra il maggior spopolamento è la Campania (29%), seguita dalla Sicilia (25%) e dalla Puglia (18%). In termini assoluti, è la città di Napoli che vede il flusso migratorio più intenso, con un totale di partenze del 15% rispetto al totale della popolazione meridionale, mentre, sempre su base cittadina, è Crotone a registrare il tasso di emigrazione più alto, pari a 14 cittadini su 100. Secondo il rapporto Cresme, il valore della produzione del mercato delle costruzioni pre-pandemia si è attestato a quota 171 miliardi di euro.
Migliaia di persone senza casa e migliaia di alloggi privati sfitti: in Italia c’è un patrimonio abitativo sfitto o abbandonato che ammonta a circa 7 milioni di alloggi mentre quasi due milioni di nuclei familiari vivono una condizione di precarietà abitativa.
17. Città e borghesia criminale
A inserirsi a pieno titolo nel settore delle costruzioni, nei processi dissennati di urbanizzazione e nella vita sociale dei quartieri periferici, (soprattutto) gestendo anche il sistema delle occupazioni delle case popolari vuote è la malavita organizzata, la borghesia mafiosa. Mafia e mattone sono stati un binomio d’acciaio, saldo ed estremamente remunerativo nei decenni. La funzione svolta dalla malavita come operatore nel settore si è progressivamente raffinata passando dal ruolo classico del cosiddetto palazzinaro, approdando oggi anche alla gestione dei fondi immobiliari adottando una moderna e redditizia economia di carta e di mattone.
Secondo Ferrante, ricercatore catanese, all’interno dei comuni siciliani c’è una concentrazione forte della mafia nel settore delle costruzioni. Quest’ultimo rappresenta un settore economico particolarmente attraente per la criminalità organizzata, essendo caratterizzato da bassi livelli di innovazione, un’alta intensità di lavoro che riesce a creare sacche di consenso sociale, e la forte presenza di commesse pubbliche. La mafia, la criminalità organizzata influenzano la vita dei territori e condizionano le politiche urbanistiche. Agiscono pertanto come una lobby con l’obiettivo di generare una rendita di posizione che va a discapito non solo delle potenziali imprese concorrenti, ma anche del benessere di tutta la collettività locale.
Le città contemporanee sono oggettivamente ostaggio di questi gruppi la cui forza non deriva soltanto dalla potenza economica di cui dispongono e dalla connaturata violenza intimidatrice (laddove c’è la malavita organizzata), ma dalla debolezza dello Stato, dalla ritirata del settore pubblico dalle politiche di governo del territorio, consegnando così, per convenienze economiche, la città e i processi di urbanizzazione ai privati, e sacrificando l’interesse della collettività. Le politiche del territorio, il mainstream urbanistico italiano degli ultimi quarant’anni, i tecnici-amministratori locali e la mancata sorveglianza hanno contribuito alle patologiche trasformazioni urbane delle città accontentandosi delle briciole offerte ai comuni da parte dei costruttori. Lo squilibrio tra interessi privati e interessi collettivi ha negativamente inciso soprattutto nelle politiche abitative delle città e nell’edilizia sociale. I capitalisti, gli immobiliaristi, gli speculatori finanziari e la stessa borghesia mafiosa hanno veleggiato nei primi anni del 2000 con investimenti immobiliari e profitti da capogiro. Sono stati gli artefici del ciclo immobiliare più intenso degli ultimi anni, secondo solo a quello della ricostruzione post bellica. La bolla immobiliare scoppiata in Italia, che ha generato una fortissima crisi economica e sociale e messo sul lastrico migliaia di famiglie italiane, è il prodotto avvelenato e tossico di questo ciclo immobiliare.
Questi criminali non solo ricavano da tutta la filiera della costruzione, ma investono nell’ottica della rendita anche sul prodotto finale, comprando alloggi. La lavanderia finanziaria della malavita ricicla il denaro sporco spesso con questo tipo di investimenti immobiliari. Ed è proprio con la confisca dei beni che le organizzazioni criminali accusano il colpo. Secondo il rapporto di “Libera” più di 36.600 beni immobili (ovvero particelle catastali) sono stati confiscati dal 1982 ad oggi e teme, a ragione, che attraverso prestanome, i clan torneranno in possesso dei loro beni. Il sistema delle aste giudiziarie è stato infatti pesantemente infiltrato dai clan, che, attraverso corruzione e intimidazione, si riprendono i propri immobili precedentemente confiscati o investono denaro per acquistarne di nuovi, producendo importanti plusvalenze. Le cronache giudiziarie Siciliane, Campane, Pugliesi ecc. ci raccontano di pericolosi comitati d’affari e di un sistema perverso – quello della “mafia delle aste” – che da anni, grazie ad un intreccio criminale tra colletti bianchi e mafiosi, ha penetrato i Palazzi di Giustizia e spadroneggiato letteralmente nelle aule dei tribunali per realizzare profitto e riprendersi il “maltolto” ricorrendo anche alla violenza.
18. Degrado del tessuto urbano e rigenerazione urbana
La mancanza di manutenzione di zone della città, è la conseguenza dell’abbandono dalla rendita fondiaria per scarsa redditività d’investimenti nei quartieri fatiscenti, è facile costatare come lo stato di degrado si accompagna sempre alla condizione di marginalità degli abitanti (famiglie con basso reddito mescolate agli immigrati poveri), in centro storico come in periferia.
Capita che per iniziativa pubblica, la creazione nella zona di un polo attrattivo come un porto turistico, una sede universitaria, un nuovo centro commerciale; la zona urbana da marginale per la rendita privata, diventi improvvisamente appetibile.
Sono ben noti gli interventi di recupero e trasformazione di settori degradati della città a seguito d’interventi privati di ristrutturazione dell’edilizia abitativa e creazione di nuove reti di servizi di vicinato, rendendo i quartieri moderni ed efficienti, purtroppo in genere la conseguenza è stata sempre l’espulsione verso altre zone degradate e/ o popolari e periferiche della popolazione che vi risiedeva prima del recupero urbano.
Ora in entrambe i casi la criminalità trova terreno fertile per insediarsi, avendo capitali ingenti esentasse e un’indubbia capacità di penetrazione nel tessuto economico e sociale.
Sarebbe necessaria una legge sul regime dei suoli, che azzeri la rendita parassitaria e fornisca ai comuni lo strumento mancante perché possano davvero governare le trasformazioni in progetto nei piani regolatori.
Oggi che la sfida della precarietà del lavoro, del reddito e della casa richiede nuove risorse nell’edilizia popolare pubblica, bisogna ridare un ruolo centrale delle istituzioni in questo processo, a salvaguardia delle grandi fasce di popolazione colpite dalla crisi.
Le ingenti risorse dello PNRR devono essere per noi l’occasione per aprire vertenze territoriali, vigilando sulla ripartizione finanziaria che le Regioni faranno dei fondi europei che saranno attribuiti al comune, occorre contrastare gli interventi di social housing, in favore della ristrutturazione di edifici pubblici e privati abbandonati per aumentare l’offerta di Erp, praticare la rigenerazione urbana che restituisca agli abitanti un abitare sociale.
Si tratta fin da ora di organizzare, attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori della difesa del diritto all’abitare fino all’ultimo consigliere comunale, disponibili una vertenza territoriale che proponga soluzioni, e metta al centro i bisogni e non la rendita. Piani di recupero, auto recupero e trasformazione delle strutture vuote e inutilizzate che abbondano nel tessuto urbano, per moltiplicare l’ERP negli anni a venire, senza nuovo consumo di suolo.
Dobbiamo impegnarci a raccogliere attorno a questi obbiettivi, assunzione massiccia nella struttura pubblica per ridare centralità e protagonismo ma anche capacità di controllo alle Regioni e alle amministrazioni comunali.
PARTE QUARTA
Un programma a medio termine
(nell’ambito dei 3 anni del mandato congressuale)
19. La gestione del PNRR e le vertenze nei territori
Forse si è ripetitivi. Dobbiamo, però, essere consapevoli e ripeterlo fino all’ossessione. Noi non siamo dei commentatori, degli spettatori che stanno sugli spalti e applaudono o fischiano all’indirizzo delle squadre in campo. Noi siamo una delle squadre in campo: o giochiamo o abbiamo perso a tavolino. La partita non si gioca solo nel grande stadio in erba ma in quelli polverosi dei campi di periferia.
Dobbiamo fare piani e progetti dai territori, discuterli con i soggetti con cui dialoghiamo nei territori, aprire il confronto con le controparti pubbliche. In una sola espressione: giocare la partita con l’intelligenza, la tattica, la grinta necessarie e con la strategia complessiva che sta nella nostra proposta politica. I contenuti dello scontro sono chiari. Come saranno utilizzati gli stanziamenti e come saranno progettati e realizzati i vari interventi territoriali.
MISSIONE 5 COESIONE E INCLUSIONE Tabella C2 INFRASTRUTTURE SOCIALI, FAMIGLIE, COMUNITÀ E TERZO SETTORE
Investimento 2.1: Investimenti in progetti di rigenerazione urbana, volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale 3,30 mld
Investimento 2.2: Piani Urbani Integrati 2.92 mld.
Investimento 2.3: Programma innovativo della qualità dell’abitare 2,80 mld.
MISSIONE 2 RIVOLUZIONE VERDE E TRANSIZIONE ECOLOGICA
Linea di investimento C3 efficientamento energetico e sismico edilizia residenziale pubblica e privata mld. 13,82
DECRETO LEGGE 59/2001 SUL FONDO COMPLEMENTARE AL PNRR
Articolo 1, comma 2, lettera c, punto 13
“13. Sicuro, verde e sociale: riqualificazione edilizia residenziale pubblica: 200 milioni di euro per l’anno 2021, 400 milioni di euro per l’anno 2022 e 350 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2023 al 2026; (totale 2 mld.)”
Come si vede, si tratta di ulteriori 2 miliardi di euro per la riqualificazione dell’ERP.
20. Oltre il PNRR
Il PNRR non esaurisce gli stanziamenti annuali della Legge Finanziaria né i fondi strutturali europei.
Noi dobbiamo rilanciare la proposta di un finanziamento strutturale in Legge Finanziaria dell’edilizia residenziale pubblica a canone sociale.
21. Disdetta degli accordi territoriali e richiedere al governo l’avvio della discussione per una nuova convenzione nazionale
Si tratta di una proposta che avanziamo agli altri sindacati inquilini per una azione unitaria.
Si tratta di generalizzare quanto già si sta facendo in alcune città. I canoni concordati sono stati individuati in una condizione economica e sociale profondamente mutata dalla pandemia e dalle sue conseguenze sociali ed economiche. Si arriva al paradosso che, in non poche e importanti città per dimensione e numero di abitanti, gli attuali livelli die canoni concordati sono inferiori a quelli di mercato. La rinegoziazione è funzionale a una richiesta di riduzione generalizzata dei canoni concordati, affinché le agevolazioni fiscali siano effettivamente destinate a canoni che risultino più bassi del mercato privato.
22. Abolizione della cedolare secca sul libero mercato
Le motivazioni sono state già argomentate in precedenza. Nessuna riforma fiscale può partire senza l’abolizione di questa forma odiosa di “flat tax”, poiché slegata da qualsiasi forma di condizione per poterne usufruire, abolizione dell’esenzione Imu per invenduto costruttori.
23. Tassazione del patrimonio tenuto sfitto
Dentro un intervento complessivo di tassazione dei grandi patrimoni e delle rendite, non può mancare una forma di “prelievo di solidarietà” rispetto agli immobili tenuti sfitti o vuoti e in degrado. Un prelievo di solidarietà da indirizzare interamente a interventi per la moderazione dei canoni di locazione in essere.
24. Contrasto al canone nero.
La dimensione del canone nero, come dimostra l’analisi del fenomeno elaborata dalla Banca d’Italia, è ancora estesa e il ricorso a forme di canone nero o irregolare è pratica ancora diffusa, accompagnandosi spesso a forme di precarietà abitativa contro soggetti fragili, che qualche volta giunge fino alla vera e propria vessazione. C’è una evoluzione giurisprudenziale che va analizzata più profondamente e chiede modifiche legislative che rendano l’emersione dal nero una pratica effettivamente praticabile e premiale per chi denuncia gli abusi e chiede la regolarizzazione.
25. Prima casa “non pignorabile”.
Un principio di civiltà giuridica: la prima casa di abitazione è un diritto della persona e non può venire pignorato. Deve essere considerato un bene primario indisponibile, un bene primario dell’esistenza, non pignorabile a causa della sopravvenuta necessità
26. Città sfratti zero
Un insieme di azioni positive per fare città a “zero impatto sfratti”: tutela della salute pubblica, rispetto dei trattati e delle convenzioni internazionali, erogazione in tempi immediati dei contributi agli aventi diritto, gestione delle proprietà pubbliche o con forme di partecipazione o controllo pubblico, forme di accompagnamento sociale per il passaggio da casa a casa e attuazione della Legge 124 del 2013 circa la possibilità di requisizione con indennizzo nel periodo intermedio.
27. Una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione, utilizzo e disponibilità dei fondi ex GESCAL
Si tratta della proposta di una inchiesta sull’utilizzo dei fondi GESCAL, la cui missione istituzionale era esclusivamente quella di finanziare l’edilizia residenziale pubblica e, invece, in non poche realtà regionali e in più momenti successivi, è stata distolta dalla sua missione per essere impiegata come bancomat da parte delle autorità regionali.
Al tempo stesso, si tratta di verificare la sussistenza dei fondi ancora giacenti presso Cassa e Prestiti, ammontanti a quasi 1 miliardo di euro e da decenni senza venir spesi.
PARTE QUINTA
Un bilancio delle lotte, il radicamento, le relazioni, l’autofinanziamento, l’innovazione
28. Un bilancio dei 18 mesi lungo la pandemia e le sue conseguenze
Sono fortemente cresciute in questi mesi la nostra capacità di iniziativa e l’autorevolezza politica della nostra azione. La crisi sanitaria prodotta dalla pandemia e le conseguenze sociali ed economiche che essa ha prodotto sul lavoro e i redditi, non ci hanno travolto. Da subito, abbiamo lanciato la campagna “L’emergenza è l’affitto”, in relazione con gli studenti di Link, della Rete della Conoscenza e del collettivo Pensare Urbano di Bologna, come strumento per chiedere nuove politiche abitative. Abbiamo sostenuto una battaglia fortissima per la sospensione dell’esecuzione degli sfratti durante la pandemia e siamo stati in prima linea nel conflitto contro la Confedilizia e la pretesa di poter liberamente sfrattare nel pieno della pandemia, in un contesto politico di governo e delle forze politiche rappresentate in Parlamento fortemente permeabili a una campagna arrogante e senza risparmio di mezzi e risorse da parte delle controparti.
Abbiamo posto da subito la questione politica di fondo: la sospensione delle esecuzioni sarebbe stata un semplice rinvio dei problemi, senza l’avvio di una nuova politica abitativa nella direzione dell’incremento dell’offerta di alloggi a canone sociale.
Per tale motivo, abbiamo aperto interlocuzioni, giungendo fino alle responsabilità del governo nazionale nella fase del secondo esecutivo Conte, per l’avvio di una svolta a partire dall’occasione storica del PNRR.
Abbiamo condotto la nostra iniziativa riuscendo a porci come punto di riferimento di uno schieramento unitario più vasto, dal punto di vista associativo e sindacale.
Una battagli durissima che si è scontrata contro una arretratezza politica e culturale della classe politica di governo, e non solo di governo, e gli interessi della rendita immobiliare.
Ancora oggi siamo in campo con i medesimi contenuti e la stessa capacità di lotta e di proposta.
29. L’unità di azione con i sindacati, i rapporti con le associazioni e i movimenti, il rafforzamento della nostra iniziativa nell’Assemblea Internazionale degli Abitanti
Assieme alla nostra iniziativa, sono cresciuti il livello e la dimensione dei rapporti unitari e delle relazioni con ambiti associativi, centri di ricerca, università e movimenti.
Questa ispirazione unitaria è stata sempre perseguita come scelta politica, fondata sull’autonomia e l’indipendenza dell’Unione Inquilini, con rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza degli altri soggetti. La stessa proposta generale della Confederazione per il diritto alla casa e all’abitare si muove dentro questa ispirazione. Valutiamo positivamente l’evoluzione dei rapporti unitari con gli altri sindacati inquilini dei sindacati confederali e lavoriamo una unità sindacale più vasta, anche in relazione ad altri soggetti del sindacalismo di base e dei movimenti, sulla base delle discriminanti politiche e programmatiche.
Confermiamo e vogliamo ulteriormente proseguire e approfondire la nostra relazione con altri sindacati e movimenti dentro L’Alleanza Internazionale degli Abitanti.
Siamo fortemente interessati alle elaborazioni di importanti Centri di ricerca, come il Forum Disuguaglianze e Diversità; vogliamo continuare, nelle forme e nei modi che valuteremo congiuntamente, relazioni e collaborazioni con importanti reti associative, come il Forum del Terzo Settore, la Rete dei Numeri Pari, Libera, Sbilanciamoci, Save the Children e altre ancora, a livello nazionale e territoriale.
Siamo interlocutori, sia specificatamente come Unione Inquilini che dentro il rapporto unitario, con il Ministero delle Infrastrutture, con il Parlamento, con la Conferenza delle Regioni, l’ANCI, Federcasa (con cui abbiamo unitariamente sottoscritto e aggiornato un importante documento politico di indirizzo). Allo stesso tempo, siamo interlocutori a livello territoriale di Regioni, Comuni, movimenti, comitati e momenti associativi locali.
30. Il radicamento
Il radicamento territoriale dell’Unione Inquilini è cresciuto fortemente, anche in termini organizzativi, sia di sedi che, complessivamente, di iscritti.
Una crescita importante, che ha visto in questi anni che ci hanno separato dall’ultimo congresso, un incremento di circa un terzo delle sedi.
Questa crescita e l’ingresso di nuove esperienze e di nuove leve nell’Unione Inquilini sono un segnale di vitalità forte ma, al tempo stesso, deve aprire una riflessione per cogliere gli elementi di fragilità ancora presenti e, più in fondo, di riflettere sulle forme organizzative, le modalità di funzionamento, il rapporto tra territori e centro nazionale, la necessità della formazione e della circolazione delle idee e del confronto interno.
In termini più generali, possiamo dire che è la medesima crescita della nostra autorevolezza politica e organizzativa che ci pone l’esigenza di adeguare il modo in cui funzioniamo, al centro nazionale e nei territori e nel rapporto tra questi ultimi e il centro. C’è quindi la necessità di approfondire un dibattito che non è meramente organizzativistico ma politico e culturale sulla visione del sindacato e sul suo profilo, sulle forme di autofinanziamento, sulla necessità della formazione permanente come strumento di crescita delle sedi e dei singoli.
Questi temi, di fatto, sono, assieme alla linea politica, il centro del nostro dibattito, anzi più profondamente, sono, essi stessi, un aspetto centrale di questa linea politica e della sua attuazione
Dobbiamo riconoscere che la crescita delle nuove sedi che si formano sul territorio ha ancora elementi intrinseci di fragilità e che, anche al centro nazionale, si sono prodotte discussioni, che hanno portato anche a strappi, come le recenti dimissioni del segretario nazionale, eletto all’ultimo congresso.
Affrontare le fragilità ancora presenti e ricucire gli strappi, non con un rattoppo o con finti unanimismi, ma con un dibattito aperto, franco e approfondito, è il nostro obiettivo. Un dibattito da portare avanti, nei territori e a livello nazionale nello stile dell’Unione inquilini: netto sul merito delle scelte e insieme, con una impostazione pluralista e una ispirazione inclusiva.
31. L’autofinanziamento
Questo è uno dei nodi del nostro dibattito.
Come sappiamo bene e rivendichiamo orgogliosamente come aspetto fondante del nostro profilo politico e culturale, l’Unione Inquilini è un sindacato che si autofinanzia completamente, non ha distacchi sindacali e si fonda sul volontariato e l’attivismo. Come vive e si autofinanzia una organizzazione autonoma e indipendente, che fa di ciò un aspetto fondante del proprio profilo, non è una mera questione economico finanziaria, è, prima di tutto ed essenzialmente, una questione politica.
Cosa è e come è possibile il volontariato oggi, nella nuova condizione sociale determinata dalla precarietà del lavoro e del non lavoro?
Essere “liberi” di scegliere di compiere la scelta di impegnarsi nel sindacato e di esserne attivisti vuol dire, non solo compiere un atto personale, ma anche “poterlo fare”. Ciò implica la capacità di costruire le condizioni per poter esercitare in modo effettivamente libero tale scelta. Altrimenti, è la condizione economica che determina la conseguenza, secondo una costrizione dettata dalla condizione di classe, per la quale, alla fin fine, possono impegnarsi e, alla fine, dirigere il sindacato esclusivamente i pensionati, i liberi professionisti, che hanno una relazione tra la propria attività e la funzione sindacale, al massimo, ma parzialmente, i pubblici dipendenti.
Come può una lavoratrice o un lavoratore precari, una operaia o un operaio e così via, essere effettivamente liberi di praticare la scelta del volontariato e dell’attivismo nell’Unione inquilini?
In diverse sedi, si sono sviluppate situazioni per le quali ai nostri attivisti viene riconosciuto un rimborso spese per quanto sostenuto di persona per le attività svolte (per esempio gli spostamenti) ma anche, in alcuni casi, in relazione all’attività di sportello effettuata.
In alcune sedi, più grandi e strutturate, si è fatta la scelta di assumere, allo stato attuale una e due unità di compagne e compagni, che autofinanziano la propria retribuzione attraverso l’attività di sportello che, al tempo stesso, finanzia in generale l’attività sindacale.
Abbiamo introdotto, nella pratica della nostra attività come forme di relazione con gli assegnatari, gli inquilini e i senza casa, attività di sportello, dai CAF ad altri servizi richiesti (in ultimo, in questi ultimi due anni, le attestazioni sui contratti agevolati, su richiesta espressa e apposita disposizione dell’Agenzia delle entrate, è da sottolineare che laddove queste hanno avuto uno sviluppo anche in questo ambito abbiamo marcato una differenza rispetto ad altri sindacati e associazioni di proprietari, applicando importi alle attestazioni di gran lunga inferiori a quelli praticati e in questo modo agendo come elemento calmieratore).
Dobbiamo riflettere su queste modalità, non per imporre modelli incompatibili con l’ispirazione dell’Unione Inquilini, fondata sull’autonomia delle sedi, ma per capire come darci modalità e regole di comportamento comuni che non snaturino l’originalità dell’Unione Inquilini ma che non chiudano gli occhi, lasciando fare a una selezione di classe (la condizione di lavoro e i redditi disponibili) la scelta di chi può o non può fare la scelta volontaria di essere attivista del sindacato.
Alcune linee da approfondire, che sono, nei fatti, già in una concreta sperimentazione:
- Le funzioni politiche nell’Unione Inquilini sono e rimangono sempre gratuite e fondate sulla scelta democratica delle compagne e dei compagni e sulla disponibilità di chi le assume;
- Le sedi possono provvedere, sulla base della loro autonomia politica e finanziaria, a remunerare attività di autofinanziamento, legate alla nostra attività;
- Rimane che il centro nazionale non ha funzionari e/o dipendenti in quanto non produce, in quanto tale, attività di autofinanziamento e la sua possibilità funzionamento rimane essenzialmente nella responsabilità delle sedi territoriali;
- Dobbiamo implementare le forme di autofinanziamento delle sedi, fondate sui servizi e le altre attività nei confronti degli iscritti, anche come strumenti operativi utili all’attività sindacale generale e alla vertenzialità dell’Unione Inquilini;
- Dobbiamo dare un forte impulso al 5 per mille, anche superando il modello attuale e costruendo le condizioni per una sua generalizzazione su scala nazionale.
- Le sedi più grandi devono essere chiamate ad uno sforzo di disponibilità e generosità ulteriori, sia in termini organizzativi, che economici, che di messa a disposizione, secondo modalità concordate e sinergiche, di compagne e compagni per attività nazionali.
32. Per una crescita delle sedi: la formazione permanente, la comunicazione e il sito nazionale
Sulla comunicazione, abbiamo costruito in questi ultimi anni un asse fondamentale della nostra capacità di incidenza sui media e di comunicazione con l’esterno. Occorre farlo, con maggiore forza anche in relazione all’interno e agli iscritti. La ristrutturazione del sito nazionale è un passaggio fondamentale di questa operazione, anche attraverso la sua connessione con i siti che le diverse sedi hanno costruito in questi anni. In tale contesto va ripresa l’attività della Radio, che ha visto presenze e ascolti davvero significativi, nonché il sempre maggiore l’utilizzo, sotto forma di nostra agenzia stampa, della pagina Facebook Unione Inquilini Notizie.
La formazione permanente deve diventare un punto fondamentale di applicazione della nostra iniziativa centrale e territoriale.
Abbiamo conoscenze, saperi, dal livello internazionalista a quello dei singoli territori che devono sempre di più divenire patrimonio comune. Anche la crescita organizzativa del nostro sindacato non può fare a meno della capacità di diffondere e condividere le informazioni e i saperi. Questo in tutte le direzioni: quella verticale tra centro e territori e orizzontale, tra i territori, in special modo sulla scala regionale. L’uso degli strumenti informatici, per esempio la piattaforma zoom, è fondamentale, come pure la produzione di materiali di informazione e di studio.
33. Per la costituzione di un Ufficio Studi
Il livello di competenza che abbiamo e ci è riconosciuto, può permetterci di programmare entro tempi brevi la costituzione di un Ufficio Studi dell’Unione Inquilini, come strumento a disposizione delle sedi e di tutti gli altri soggetti interessati alla conoscenza e studio delle tendenze nel settore residenziale e immobiliare, delle diverse legislazioni internazionali e nazionali, delle evoluzioni normative e di indirizzo a livello continentale, di elaborazioni e proposte. L’Ufficio Studi, in relazione con la formazione permanente, può essere uno strumento importante per estendere conoscenze e produrre analisi che, poi, saranno fondanti delle concrete scelte politiche.
34. Per una nuova leva di quadri e di gruppi dirigenti: ricambio generazionale, di esperienze e parità di genere
Siamo contro ogni forma di rottamazione, del resto mai avvenuta al nostro interno, perché taglia le radici e ha lo scopo politico di cambiare le ragioni fondative, la natura e gli scopi di fondo di una organizzazione.
Siamo per l’innovazione lungo un percorso che è, allo stesso tempo, un lascito e un testimone che passa e che segna il punto più alto a cui un gruppo dirigente può aspirare, nel momento in cui riesce ad assicurare il futuro e un adeguato ricambio alla organizzazione che ha diretto o dirige.
La storia dell’Unione Inquilini è una storia di innovazioni e di radicalità sociale e sindacale: un sindacato totalmente autofinanziato e senza distacchi sindacali, che vive sulle proprie risorse, fa della sua autonomia culturale e politica il fondamento della propria proposta e della propria azione unitarie.
Abbiamo passato in questi ultimi mesi una fase difficile, anche nella vita interna dell’organizzazione.
La risposta giusta è stata quella di non far incidere questa difficoltà nella iniziativa esterna, ricondurre la discussione nei termini politici del confronto di idee e di proposte, aprire da subito un dibattito trasparente.
Non deflettiamo dalla costruzione di un sindacato libero e libertario, radicale e anticonformista, autonomo e unitario, volontario e professionale, democratico e partecipativo, pluralista nelle culture e nelle idee e unito nelle pratiche sociali.
Un sindacato, fondato sull’autonomia delle sedi e unificato non con ordini dall’alto o con una disciplina imposta ma con il confronto e l’iniziativa, come è nel “10 ottobre sfratti zero”.
Un sindacato che è cresciuto e che crescerà ancora lungo un percorso tracciato da chi lo ha fondato, diretto, vissuto, a partire dalle sedi e fino al centro nazionale
La parità di genere, il ricambio, generazionale, di esperienze e di ruoli, ne rappresentano le condizioni necessarie per evitare la sedimentazione nei ruoli apicali il che vuol dire anche sostenere una circolarità di assunzione di responsabilità, alle quali tutte e tutti possano essere chiamati, nell’ambito di un percorso e un confronto collettivi.